Ofelia e altri racconti
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Anteprima del libro
Ofelia e altri racconti - Agostino Contò
Ofelia
e altri racconti
Ofelia e le mosche
La piccola Dina che giocava con i sassi e inventava strane melodie da cantare sottovoce al vento, è morta questa mattina.
Una volta che il ragazzo era stato a casa sua, gli aveva fatto leggere il suo quaderno, dove c’erano molti disegni, belli per essere stati fatti da una bambina di otto anni, e alcune frasi in forma di poesia ma senza le rime: dicevano pressappoco che la morte sovrasta tutti, ed è come l’autunno che arriva a portare via la nostra felicità, come il vento, che trascina lontane le foglie: noi giochiamo, disegniamo, cantiamo e intanto la morte arriva.
Forse non ha voluto farsi sorprendere: s’è lasciata andare nei gorghi scuri del fiume, e l’hanno trovata dopo tre ore, gonfia d’acqua e di mota, con i capelli impiastricciati e le mani (le sue manine grassocce) paonazze, e i vestiti leggieri appiccicati al corpicino.
Dina, la bambina che gli era amica, che gli aveva insegnato ad amare l’erba, a giocare con le ragnatele, con le raganelle, a scherzare con le cavallette dalle lunghe elitre verdastre, docili sulle sue manine grassocce. Chi si ricorda il giorno in cui si sono conosciuti? Il ragazzo sta giocando sull’argine tra le erbe alte, con delle formiche nere, proprio accanto alla loro tana, facendosele salire per le braccia, facendole camminare tutto intorno al polso (tanto, si sa, non perdono l’equilibrio, con le loro zampette sottili attaccaticce, e con il loro peso, a dir poco lievissimo) e dentro, tra la pelle calda e la camicia a quadri, non troppo pesante, con una cucitura di rammendo tra il gomito e il polsino, come una lunga ferita. E arriva lei, e s’accuccia vicino al ragazzo che la guarda e continua a far girellare le formiche; e Dina si unisce subito nella sfida a chi riesce a farle girare più in fretta: pregando «Su, signore formiche fate più in fretta, fate più in fretta». E quelle, le formiche, quasi la comprendano sul serio, accelerano la corsa.
L’acqua del fiume è fredda, molto fredda. Oggi è un giorno che l’afa è pesante.
Sotto i portici il sollievo è solo passeggero, e la Maria nel suo boschetto del fiume gli ha detto di non temere, che ritornerà anche la Dina insieme al suo marito, nel vascello a tre alberi che ha vele d’oro (lei l’ha visto passare silenzioso per il ramo vecchio l’altra sera, e le vele luccicavano con bagliori fortissimi).
Ma il ragazzo piange di nascosto, perché questa morte lo ha colto d’improvviso, vicina.
E si ricorda d’un altro corpo sfatto: il Monsignore, morto molto vecchio, la faccia scavata, gli occhi che sporgevano gonfi dalle orbite gigantesche, le ombre sinistre e i riflessi violacei della lucida seta che ricopriva l’interno della cassa (in corteo con tutti i bambini del paese: avevano dovuto baciargli la mano grinzosa e gelida).
Piange, accucciato vicino alla cassa della piccola Dina, perché non c’è niente di più lontano dall’idea di morte di questo corpicino minuscolo, di questo viso chiaro e come addormentato, di queste mani dal colore d’avorio.
La morte è quella dei vecchi, del nonno Toni, del Monsignore; è un tuffo violento al cuore, alla notizia, ma poi finisce tutto (sono sempre lunghissime le malattie e così le visite negli ospedali saturi di odori). Deve essere altro questa lieve tristezza che fa scendere lacrime.
«Ragazzo, vuoi un biscotto? È tanto che sei qui, avrai fame, povero ragazzo: sei stato tanto bravo, tutto il pomeriggio a far compagnia alla mia morticina. Vado a prenderti un biscotto, che avrai fame, di quelli che piacevano tanto alla Dina».
Deve essere altro, questa lieve tristezza che fa pensare per ore; non è la morte, la morte è quella dei vecchi.
«Prendi. Me l’hanno portata ieri sera, tutta bagnata, sporca, fredda, fredda. Dio mio, che disperazione! Una bambina così, te la ricordi, te la ricordi come era brava? Eh, sì, certo che te la ricordi, che sei venuto anche una volta a trovarla qui in casa. È caduta in acqua, è scivolata, chi lo sa; credevo di diventare matta quando me l’hanno detto».
Il ragazzo sta rosicchiando senza voglia un biscotto, e lo gira e rigira fra le mani.
«Lei era tanto amica del fiume, e ci parlava, anche; si andava a passeggiare sull’argine, e lei correva avanti, e chiacchierava con l’acqua, con le canne della riva. Come è bella, eh? con quei pomoletti che una volta erano tutti rossi di vita».
Il ragazzo solleva un poco la testa e gli occhi
lacrimosi: «Si è uccisa», dice piano, che la donna non possa sentirlo bene, quasi a non voler nemmeno sentire se stesso. Si alza da terra e comincia a camminare lentamente attorno alla casa, toccando ora il velo del vestitino bianco (che le sarebbe servito per la comunione), ora l’imbottitura di seta, ora un garofano.
Guarda incantato il viso, la bocca leggermente aperta in modo da mostrare, come da viva, il candore dei denti.
Sulle labbra chiare e sui bianchissimi denti le mosche di questa giornata estiva si vanno a posare, creando un effetto che diverte il ragazzo; e pure gli preme di scacciarle, per il senso di disagio rispettoso che gli impone il colore della cassa. Ma la Dina, ne è sicuro, si sarebbe divertita di quello zampettare di mosche, rese più ardite dalla rigidità delle membra, e le sarebbe piaciuto di sapere che le bestiole non temevano proprio più la sua presenza, e che sarebbero venuti un giorno i vermi, e altri animaletti.
«Si è uccisa», dice più distintamente, tirando su con il naso.
La donna sta girando per la stanza, toccando appena gli oggetti, riordinandoli a caso, spostandoli. È un po’ vecchia, ora che i ceri le ombreggiano malamente il volto rugoso.
Ma non ha inteso, e il ragazzo capisce che sta pensando alla bambina morta, a quando ce l’aveva ancora piccolissima, ai primi passi che le faceva azzardare, ai suoi giochi, al fiume che se l’è portata via.
«Si è uccisa». Il ragazzo grida. Alla donna esce un urlo in un tremito convulso, fa cadere una statuetta soprammobile e supplica: «Ma che cosa dici?», piangendo a dirotto.
«Si è uccisa, si è uccisa!», e se ne esce dalla porta. Fuori alla luce, il ragazzo si trascina dietro quel triste stupore che l’ha fatto gridare: non c’è nulla di più terribile di tutti i pensieri, del grido che gli è rimasto in gola, della donna con le sue goffe lacrime trattenute, dei buffi biscotti che profumavano di burro.
(E ciuffi d’erba, buffi, che sembrano fatti apposta per le formiche, per farcele salire in buona fila, ordinate, per poi vederle tornare indietro. Mai, però, che sia riuscito a capire come son fatte le tane delle formiche. Si prova a distruggerne una, e le formiche ne escono correndo all’impazzata, non più ordinate, ma folli di paura, trascinandosi dietro briciole di cibo, fagottini bianchi.
Continua a frugare nel monticello di terra con un lungo ramo strappato ad un salice, senza riuscire a capire e scoprire come siano organizzate, dentro, le formiche.
Ha rovinato tutto e non sa ancora se ci sono dei corridoi, magari delle piazze, delle case per formiche, delle formiche capo, delle formiche maschio e femmina, delle formiche sacerdote, delle formiche carabiniere, delle giovani formiche suicide, come la piccola Dina.
Chi mai di noi riuscirà a sapere come pensano le formiche.
E le lucertole e i topi, e i ragni che si azzuffano tra loro nella scatola da scarpe di Mano; e le rane dei fossi e i rospi; e cosa mai si diranno i vermi della terra; e le coccinelle rosse che stanno sui fiori e gli camminano lungo le braccia, quando si stende sull’erba per poi distendere il chitinoso mantello maculato e volarsene via con le sottilissime ali argentate).
Che si direbbe dunque di Franco.
E della piazzetta dei pompieri dalle uniformi colorate. E di tutte le cose (la Cinzia le ricorderà ancora?) che colpivano i sensi e la fantasia di noi ragazzi del paese.
Probabilmente, solo che esistevano, sorprendendoci come le grasse bolle dai mille riflessi cromatici, straordinariamente sottili, leggere, fragili, da svanire non appena uno di noi cercasse di toccarle; eppure, se si sapeva essere delicati a sufficienza, si poteva gioire nel vederne una, miracolosamente sana, appoggiata al palmo di una piccola mano.
Riandarvi col pensiero fa il medesimo effetto: del prodigio sul punto di ricrearsi di volta in volta, e sempre più fragile e facile a corrompersi, a rompersi in piccole poche gocce, come solo bolle di sapone e di ricordo possono.
Vago, dunque, fluire di sapori e umori, anche a volte liquame immondo dalla fogna, l’acqua putrida di fiume che ci vide crescere, con le ginocchia scure di lividi coloraticci, con i calzini il più delle volte sbrindellati, strappati dai rovi e arrotolati su se stessi, e le mani le piccole mani graffiate dalle spine d’acacia; Mano con un orecchio strappato e ricucito alla meglio (e gli rimase poi per sempre una grandissima cicatrice che lo consacrò di colpo, ai nostri occhi, il più forte, il più valoroso).
Ad essere sufficientemente delicati si può avere la fortuna la gioia di riaverli, rinati, straordinariamente intatti: e forse che si può