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L'ultima evocatrice
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E-book127 pagine1 ora

L'ultima evocatrice

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Fantasy - romanzo breve (101 pagine) - Sappiamo scegliere il mondo migliore?


Vivianne compie quattordici anni e deve prepararsi per sposare un uomo alla quale è stata promessa prima di nascere. Sua madre, morta nel parto, era considerata una strega e lo stesso destino sembra riservato anche a lei. Inizia così il racconto lungo di Nina Munteanu, prima autrice internazionale tradotta per la collana Fantasy Tales. Una storia in bilico tra medioevo e futuri possibili, magia bianca e magia nera, speranze adolescenziali e scelte importanti. L’ultima evocatrice (Summoning the future’s past) è un racconto intenso, dalla penna di una scrittrice che ha riscosso successo in tutto il mondo.


Nina Munteanu è un'ecologa canadese e scrittrice di eco-narrativa, fantascienza e fantasy. Scrittrice di racconti e saggista pluripremiata, attualmente vive a Toronto dove insegna scrittura all'Università di Toronto e al George Brown College. Il suo libro Water Is… (Pixl Press), uno studio scientifico e un viaggio personale come limnologa, madre e insegnante, è stato selezionato da Margaret Atwood nel 2016 nella rubrica del New York Times "The Year in Reading". Il romanzo più recente, A Diary in the Age of Water pubblicato nel 2020 da Inanna Publications, parla di quattro generazioni di donne e del loro rapporto con l'acqua in un mondo in rapida evoluzione.

LinguaItaliano
Data di uscita13 apr 2021
ISBN9788825415803
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    Anteprima del libro

    L'ultima evocatrice - Nina Munteanu

    evoluzione.

    1

    Vivianne si svegliò di soprassalto, la testa intontita a causa di un sogno inquietante. Un fremito sordo le provocava dolore al ventre. Fritz, il grosso soriano raggomitolato ai suoi piedi, stiracchiò la zampa anteriore verso di lei e cominciò a fare rumorosamente le fusa. Si mise a sedere nel letto e, sfregandosi gli occhi assonnati, guardò fuori verso il cielo che albeggiava. La mente indugiava su quel sogno bizzarro.

    Era iniziato come un incubo. Correva in una strana città piena di luci, inseguita da un uomo familiare e morbosamente attraente, il diavolo in persona. Dalla sua persona scaturivano delle scintille. – Salvatemi! – gridava al suo cavaliere, e all’improvviso si trovava in un altro luogo, un posto di inimmaginabile bellezza e splendore, ed ecco il suo cavaliere che attraversava a guado una palude disseminata delle tracce di una battaglia: spade ingioiellate, azze abbandonate, carcasse rigonfie… il tutto sotto una luce angosciosa. Il soffitto a volta di un’immensa cattedrale era spalancato sopra il cavaliere. Attraverso le sue mura evanescenti sgorgava un milione di fili dorati di luce liquida. Poco più avanti splendeva una luce così pura e profonda da ferire lo sguardo, tuttavia non riusciva a fare a meno di…

    Vivianne afferrò Fritz abbracciandolo. Questi reagì leccandole il naso. Sopportò il raschiare e l’odore di pesce della lingua dell’animale per qualche leccata, poi affondò il volto nella sua pelliccia.

    – Oggi è il mio compleanno, Fritz – annunciò al gatto dopo essersi tirata indietro. Aveva quattordici anni. Suo padre e la sua ormai defunta madre l’avevano promessa fin dalla nascita a uno straniero del Westland al compimento del suo quattordicesimo anno. Oggi. Sebbene per anni avesse sentito di sfuggita i domestici del casato di Grunwald spettegolare sull’argomento, suo padre non gliene aveva mai parlato. Di certo le avrebbe detto di una cosa così importante per la sua vita se fosse stato in buona fede. D’altronde, forse non lo era, rifletté, evocando l’immagine austera del suo taciturno padre. Non le aveva mai detto nulla. Se sua madre fosse stata viva, avrebbe potuto essere diverso.

    Inoltre, di recente suo padre aveva faccende molto più importanti in testa: come l’ultimo attacco a sorpresa alla frontiera orientale di Nordland da parte delle forze pagane di Ostenland. Qualche giorno addietro erano penetrate nel Nordland e avevano saccheggiato il villaggio di confine di Gilgen, razziando e profanando la chiesa locale. Il giorno precedente, in tarda serata, erano giunte altre notizie spaventose al barone: il nemico si stava dirigendo dritto a Grunwald. Il Gran Maestro Ulrich von Jung e i suoi cavalieri dell’Ordine del Nordland erano in marcia dal fiume Duca per tagliare la strada all’esercito contadino. Oggi era la vigilia di una battaglia campale nei campi vicino a Grunwald. Più tardi, in giornata, avevano intenzione di piantare le tende ad appena qualche chilometro di distanza dal castello di suo padre. Lì avrebbero atteso il nemico. Von Jung aveva inviato alcuni dei propri cavalieri al comando in avanscoperta al castello di Grunwald.

    Da giorni i domestici del castello erano affaccendati nell’imminenza della festa: spazzare i pavimenti e sostituire i vecchi tappeti nella Sala Grande con tappeti nuovi fatti di piante, fiori ed erbe dall’aroma dolce; togliere le ragnatele agli arazzi e decorare la Sala Grande; ripulire le latrine, immagazzinare e preparare carne fresca e spezie provenienti dalle fattorie del villaggio; cuocere il pane; preparare candele nuove e composizioni floreali.

    Come se il campo di battaglia fosse giunto al castello, gli abitanti della casa correvano da tutte le parti, scorbutici e nervosi. L’anziano cuoco e i suoi sguatteri, solitamente gentili con Vivianne, ultimamente erano divenuti davvero irascibili nei suoi confronti ogni qualvolta faceva un giro nelle cucine per rubare una mela o una focaccia dolce.

    Questo pretendente straniero doveva avere almeno venticinque anni più di lei se gli avevano fatto quella promessa addirittura prima che Vivianne nascesse! Percependo la luna storta della ragazza, Fritz miagolò e balzò fuori dalle sue braccia. Vivianne considerò che tutto sommato conosceva a malapena suo padre, il barone. Il primo ricordo di lui risaliva a quando aveva quasi cinque anni. Il barone era appena ritornato da una campagna di due anni a Ostenland, dopo aver convertito i pagani alla religione di Zentraland.

    Sporco e macchiato di sangue fresco, aveva fatto irruzione nella stanza col volto stanco ma luminoso per la vittoria. Quando lui, sovreccitato, aveva fatto il suo ingresso trionfale, ricordava di aver pensato che era una visione magnifica sebbene terrificante. Un paio di penetranti occhi azzurri lampeggiavano d’esultanza sotto un’incolta capigliatura fulva. Pareva il prototipo del guerriero, il bacinetto sormontato di piume ficcato distrattamente sotto il braccio, vestito con l’armatura a piastre e la cotta di maglia dalla testa ai piedi. L’armatura era ricoperta principalmente da una tunica bianca lunga fino al ginocchio tipica dei cavalieri del Nordland, stretta in vita da un cordiglio di pelle morbida dal quale pendeva un pugnale. Il mantello era a malapena bianco; imbrattato e schizzato di sangue, vecchio e fresco, e sbaffi di terra. Sul petto, a tracolla, pendeva un budriere di pelle e l’elsa del suo magnifico spadone, visibile dietro la spalla, spuntava da una cappa bianca lunga fino al polpaccio che ricadeva noncurante sulle sue grandi spalle. La cappa era assicurata nella parte frontale da una ritterkreuz nera smaltata d’argento, il simbolo dei cavalieri dell’Ordine del Nordland.

    Poi l’aveva guardata fisso con un’espressione tremenda, correggendo il linguaggio della bambina con una profonda voce da basso che era riecheggiata nelle sue viscere come un boccone andato di traverso.

    Uta, l’unica domestica che fosse mai stata in grado di tenergli testa, lo aveva rimproverato: – Herr Barone! Guardate come avete spaventato quella povera bambina, la vostra stessa figlia. E avete ancora addosso il sangue di quelli che avete ammazzato! Vergognatevi!

    Lui aveva riso perfidamente divertito. In verità, il sangue fresco proveniva da una caccia al cervo nella foresta locale che aveva intrapreso immediatamente dopo il suo ritorno; suo padre adorava la caccia e gli era mancata più di qualsiasi altra cosa. Ma a quel tempo Vivianne non lo sapeva.

    Con fare scorbutico e malizioso e forse soprattutto per infastidire Uta, il barone si era avvicinato a Vivianne e aveva allungato una mano sudicia e macchiata di sangue per toccarle il volto. Anche all’epoca beveva; e per questa ragione il fiato puzzava, anche se Vivianne all’epoca non sapeva cosa fosse. Con la testa piena di agghiaccianti storie eroiche e dei rimproveri di Uta, Vivianne era indietreggiata e avrebbe potuto urlare per la paura. Il barone si era raddrizzato espirando forzatamente e l’aveva osservata accigliato.

    Uta l’aveva sollevata e aveva spinto fuori il barone con una ramanzina mentre tendeva burberamente alla bambina l’unica cosa che le avesse mai dato – una ritterkreuz pendente d’argento tempestata di gioielli attaccata a una catena d’oro – con la disposizione laconica che era un dono per la bambina. Uta gli aveva ordinato di ritornare solo quando fosse stato presentabile e con l’aspetto meno minaccioso. Non era mai accaduto, rifletté Vivianne, tastando la croce d’argento che pendeva dal suo collo. Come se quell’evento fosse stata una prova che lei aveva miseramente fallito, Vivianne non l’aveva più visto fino a quando era stata abbastanza adulta da sedere accanto a lui alla sua tavola nella Sala Grande. Per allora aveva ascoltato le chiacchiere riguardo lo stato confusionale in cui versava da ubriaco e i suoi scatti d’ira, e il dolore che provava per aver perduto, nel frattempo, la sua attenzione. In quei giorni, quando non la guardava in cagnesco per aver fatto qualcosa di sbagliato, suo padre la ignorava come se non esistesse. L’unica occasione in cui prendeva atto della sua presenza era per correggere le sue abitudini alimentari con rimproveri burberi che la zittivano come avrebbe fatto la zampata severa di un’orsa al proprio cucciolo.

    Di solito era lontano per le sue campagne; spesso per mesi, talvolta per anni, per coordinare un assalto o una scaramuccia nel cuore del territorio di Ostenland. Quando era a casa trascorreva la maggior parte della giornata dietro le grandi porte della sala del consiglio coi suoi signori della guerra o in riunioni col suo siniscalco, il vecchio segaligno Berthold. Di sera cavalcava fino al villaggio appena fuori dal castello per bere e battibeccare con l’aristocrazia terriera e i vassalli del suo feudo fino a tarda notte. Vivianne lo sapeva perché a volte rincasava con alcuni di loro e continuavano con le loro baldorie da ubriaconi fino al primo mattino. Ciò la spingeva a desiderare che la sua stanza fosse nel torrione, che era stato il rifugio di sua madre, ubicato ben lontano dalla Sala Grande.

    Ai cavalieri del Nordland piacevano il vino e la birra. Tra i suoni movimentati dei festeggiamenti fino a notte inoltrata, aveva udito le sporadiche grida di guerra contro i pagani, le urla entusiaste che invocavano una Santa Crociata, la "Spinta verso Est e la necessità di un crescente Ordenstaat". La festa si dissolveva naturalmente nel disordine tipico di chi beveva troppo. Le risate nervose delle donne riempivano le sale, mentre svariati cavalieri e gentiluomini le catturavano in abbracci vogliosi.

    Era ancora desta, raggomitolata nel proprio letto, quando l’andatura

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