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Il quinto tipo: I capitoli del mutamento
Il quinto tipo: I capitoli del mutamento
Il quinto tipo: I capitoli del mutamento
E-book444 pagine13 ore

Il quinto tipo: I capitoli del mutamento

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Info su questo ebook

Dopo il successo del film “Il quarto tipo” (2009) la storia prosegue in Italia. Jonathan ha sempre avuto un problema fin da prima di nascere ma nessuno è mai stato in grado di capirlo, finché un giorno conosce uno strano professore universitario e la sua vita cambia per sempre. Le specie aliene si interessano agli umani per un motivo preciso e sconvolgente, complottando fra di loro per divenire ciò che ora non sono. Quando la mano dell’Uomo Primo discende dal cielo per distruggere tutto ancora una volta e mietere il suo raccolto, l’Erma di Osiride risorge dalla Grande Piramide e tutti gli esseri umani dovranno decidere se scoprire chi sono veramente o se venire annientati oltre la Mente e lo Spirito. Jonathan e la sua compagna dal passato incerto, Francesca, divengono le pedine fondamentali della battaglia per l’Universo.

LinguaItaliano
Data di uscita8 dic 2012
ISBN9781301245840
Il quinto tipo: I capitoli del mutamento
Autore

Giacomo Banchelli

Ho sempre avuto la passione per i romanzi, i racconti, le sceneggiature, la fotografia e il cinema. Mi piace l’arte in tutti i sensi e adoro inventare sempre cose nuove. ***** My passion has always been novels, short stories, screenplays, photography and cinema. I like every kind of art and I love to create new things every time.

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    Anteprima del libro

    Il quinto tipo - Giacomo Banchelli

    IL CASO ART BELL

    12 settembre 1997, ore 1:00 pm. Ad un Talkshow radiofonico del Nevada condotto da Art Bell, chiama in diretta un uomo sconvolto, in preda alle lacrime e ai singhiozzi:

    Ciao sei in diretta!

    Ciao … parlo con Art?

    Si.

    Ciao … ah … non ho molto tempo …

    Beh cerchiamo di capire le ragioni per cui stai chiamando.

    Area 51 … ah.

    Ok bene, sei un impiegato o una unita?

    Sono un ex impiegato … ah … ero a un presidio medico circa una settimana fa … e … e …

    Si calmi signore … ho capito, dunque lei era un ex impiegato.

    Sto scappando attraverso lo stato … ahm … non so da dove cominciare … ommioddio … loro rintracceranno la mia posizione molto presto!

    Se puoi spendere poco tempo al telefono dicci qualcosa velocemente!

    Ok … ham … ham … ok. Quelli che noi pensiamo essere … alieni … sono … esseri extra dimensionali che un precedente programma spaziale ha contattato … ahm … loro non sono ciò che dicono di essere … ah … si sono infiltrati in molti aspetti dei presidi militari … e specialmente in quelli dell’Area 51 … ah … i disastri che ci saranno … loro … i militari … chiedo scusa … il governo sa di loro … e … ci sono molte aree sicure su questo pianeta e si potrebbero iniziare a muovere le popolazioni in queste aree adesso … Art!

    Ma loro non stanno facendo niente.

    NO! Loro vogliono spazzare via i maggiori centri abitati! … così che coloro che rimarranno … saranno più facilmente … CONTROLLABILI …

    Segnale interrotto.

    I CAPITOLI DEL MUTAMENTO

    IL CASO ABIGAIL EMILY TYLER

    Notte. Il prof era nello studio di casa sua a visionare alcuni filmati in vhs risalenti a quando, molti anni prima, lavorava al Centro Ufologico di stato. Li aveva ritrovati dentro uno scatolone impolverato chiuso in soffitta e contenente una parte dei ricordi di quel periodo della sua vita pieno di luci ed ombre, una parte meno importante ma che aveva deciso di conservare comunque, in un angolo buio. I libri che aveva portato con sé dopo il licenziamento li aveva messi nella libreria di casa insieme a documenti, registrazioni, microfilm e files che a suo tempo copiava di nascosto per poter lavorare anche al di fuori del Centro su materiali top secret. All’epoca aveva le chiavi d’accesso agli archivi riservati perché era membro del comitato tecnico scientifico e amico dei sorveglianti, che chiudevano sempre un occhio sui suoi viavai. Le vhs erano copie dei filmati originali provenienti dagli archivi di stato dell’Alaska e registrati ad Anchorage dalla dottoressa Abigail Tyler, una psicologa imbattutasi, suo malgrado, in una serie di pazienti affetti, a detta dei medici, da una strana forma di ‘schizofrenia’ con manie di persecuzione. La dottoressa Tyler aveva capito che non si trattava di schizofrenia, ma era circondata dai soliti scettici che per paura non vogliono capire che la schizofrenia, nel senso clinico del termine, non spiega come sia possibile che un guardiano notturno a stento diplomatosi al college possa, sotto ipnosi, parlare il sumero antico; e non spiega neanche come sia possibile che una bambina aleutina analfabeta di dieci anni conosca ogni dettaglio della Cintura di Orione, dei buchi neri, dei tunnel interdimensionali Wormhole e delle formule matematiche che li descrivono, delle tecnologie che permettono ad un velivolo militare di attraversare la materia solida senza alterarla e, ovviamente, sappia parlare l’aramaico nella versione dialettale delle comunità di Mandei della provincia iraniana del Khuzestan. Il prof invece sapeva perché, e la schizofrenia non c’entrava nulla.

    Mentre guardava i filmati seduto sul divano, con gli occhialoni spessi quanto un fondo di bottiglia, teneva le mani unite davanti alla bocca e i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Le luci erano spente, solo il televisore era acceso. Le voci inquietanti della dottoressa e dell’angoscia disperata dei suoi pazienti risuonavano nella penombra della casa, mentre dalla cucina proveniva il rumore di un altro televisore sintonizzato su un talk show. Sua moglie arrivò dalla cucina in vestaglia e gli portò una tazza di camomilla fumante.

    Tieni. Attento che scotta.

    Grazie tesoro.

    Funzionano ancora quelle cassette?

    Un po’ graffiate ma funzionano.

    In quel momento scorrevano le sequenze in cui i pazienti ipnotizzati della Tyler avevano reazioni da indemoniati mentre rivivevano i vissuti: saltavano sopra il divano della sua casa, si dimenavano e ribaltavano tavolini e oggetti, urlavano a squarciagola o addirittura levitavano sul letto subendo convulsioni e spasmi così violenti da rimetterci la spina dorsale. Immancabilmente, nel momento in cui si manifestavano quelle reazioni, anomali fenomeni elettromagnetici distorcevano le registrazioni rendendo difficile la comprensione dell’audio e delle immagini.

    La dottoressa Tyler commetteva molti errori nell’ipnosi. Se l’avesse eseguita nel modo giusto, i suoi addotti non avrebbero combinato tanto casino.

    All’inizio succedeva anche a te.

    Sua moglie non perdeva occasione di lanciare frecciatine quando necessario, senza fare sconti a nessuno, neanche a lui.

    Ma io dopo ho atteso molto prima di spingermi in profondità negli addotti, ho iniziato a scavare in loro solo dopo aver capito come farli stare calmi sulla poltrona. La Tyler invece persisteva nei suoi errori.

    Lei gli appoggiò le mani sulle spalle. Il prof soffiò sulla camomilla e ne bevve un sorso. Le baciò una mano e le sue labbra umide le lasciarono una traccia di camomilla sulla pelle.

    Ricavi ancora informazioni interessanti da queste pellicole?

    Niente che già non conosca, fino a questo punto. Le sto solo ricontrollando per assicurarmi che non mi sia sfuggito qualcosa da quando le presi al Centro Ufologico.

    Com’era la situazione?

    Diciamo che la dottoressa Tyler si era resa conto che gli alieni entravano in casa sua e nelle case dei suoi pazienti, ma essendo lei stessa addotta e anche sua figlia minore Ashley, non è riuscita a risolvere nulla, anzi c’è rimasta dentro fino al collo.

    È ancora viva?

    Più o meno.

    Il prof fermò il video, per qualche secondo, sull’immagine del volto scavato e allucinato dalla dottoressa Tyler sulla sedia a rotelle, mentre parlava durante una lunga intervista svoltasi alla Chapman University, in California, prima del suo trasferimento in un sanatorio sulla costa atlantica degli Stati Uniti, dove fu costretta a sottoporsi a cure mediche per il suo compromesso stato di salute.

    Sua figlia Ashley invece è sparita e non è mai più stata trovata.

    Poveretta.

    Lei sostiene che sia stata rapita dagli alieni.

    Ma, di solito non li riportano a casa, quando li prelevano?

    Può accadere che non tornino, anche se sono casi rarissimi. Ai miei addotti non è mai capitato, ne so solo per sentito dire dagli studi di John Mack e Bud Hopkins.

    Per recuperare la memoria aliena attiva?

    Suppongo di si, nel caso in cui debbano tenersela a tempo indeterminato.

    Ancora un primo piano della dottoressa Tyler che piangeva invocando di poter riabbracciare la figlia almeno una volta.

    È finita nel peggiore dei modi per lei, il figlio maggiore l’ha ripudiata come madre ritenendola responsabile della scomparsa della sorellina, il marito era già morto e lei si è ridotta una larva in manicomio.

    Il prof era colmo di tristezza e pietà per la dottoressa, si capiva dal tremore della sua voce.

    Non metterla sul personale, caro. Non ha retto lo shock e se ne è lasciata consumare.

    Mi intristiscono questi casi, sono vite distrutte, perdute, non dovrebbe succedere.

    Ho fiducia in te e nel tuo lavoro.

    Un addotto non è in grado di aiutare un altro addotto fintanto che continua a subire le abduction. Deve prima aiutare sé stesso, su questo non sono ancora stato smentito. Il problema è come.

    Il prof aveva un peso sullo stomaco per l’ennesimo caso di addotto finito a marcire in manicomio senza essere pazzo, senza avere colpe e senza essere ascoltato né creduto da nessuno. Appoggiò la tazza di camomilla sul tavolino di fronte a sé, mentre il filmato continuava.

    Il problema è come.

    JONATHAN E FRANCESCA

    Jonathan aveva appena compiuto vent’anni, ma sotto molti aspetti era più grande della sua età. In una sera d’estate viaggiava sul treno di ritorno a Rimini, unico passeggero nella metà posteriore di una carrozza centrale. Il tramonto era ormai alla fine e la notte bussava alle porte. Da un’ora i suoi occhi alternavano lunghe pause di contemplazione al paesaggio a rapide sbirciate al cellulare, che rigirava fra le mani con gesti nervosi. Pensava a Francesca e all’università che forse avrebbe cominciato entro pochi mesi.

    Con Francesca aveva litigato il giorno prima e nella foga le aveva detto parole che nel suo cuore non esistevano, ma che la Mente adirata aveva comunque elaborato e sputato fuori.

    Le ho fatto del male … perché l’ho fatto?! E se resto davvero solo? Le ho detto questo, no? Adesso se mi lascia davvero me lo sono meritato!

    Era indeciso se scriverle o telefonarle. Senza pensarci cliccò il tasto verde per inoltrare la chiamata e avvicinò il cellulare all’orecchio destro, ma giunto a pochi centimetri di distanza, l’apparecchio impazzì: iniziò a sfrigolare e fare i gracidii di interferenza di una radio rotta trasmettendogli un intenso formicolio sotto la pelle, dietro il lobo. Jonathan fece una smorfia di fastidio e stupore e allontanò il telefono dall’orecchio come fosse un animale che lo voleva mordere.

    Ma che accidenti … !

    Lo passò nell’altra mano e lo avvicinò all’orecchio sinistro. Non accadde nulla e gli squilli proseguirono senza interferenze.

    Questi cellulari … cancro al cervello!

    Si susseguirono alcuni squilli e poco dopo interruppe la telefonata. Non era convinto. Forse conveniva iniziare con un messaggio silenzioso per preparare la strada, poi magari l’avrebbe richiamata più tardi. Ci pensò un po’ e pigiò le lettere sul touchscreen: ‘scusami, sono uno stronzo, ho delirato, le cose che ti ho detto non le penso davvero, perdonami’.

    Si, più o meno è tutto.

    Inviò il messaggio e rimise in tasca il cellulare.

    Dallo zaino nero, appoggiato sul sedile accanto, tirò fuori l’ultimo dei suoi quaderni di appunti e disegni. Ne aveva molti a casa, archiviati in ordine di tempo nella libreria della sua camera. Li usava fin dall’infanzia come diario e brogliaccio per qualsiasi cosa gli passasse per la Mente e li comprava, senza eccezioni, solo con la copertina rigida e i fogli di cartoncino bianco, per poterci scrivere e disegnare sopra senza linee prestampate che disturbavano la sua libertà creativa. Quando ne voleva uno nuovo, partiva subito alla caccia e non tornava mai a casa senza, era capace di passare un intero pomeriggio a cercarne uno giusto. Quelle pagine erano fotogrammi della sua vita, visti con i suoi occhi e narrati con le sue parole, erano i raccoglitori del suo mondo interiore, custodivano le sue passioni artistiche e i suoi mondi inconsci mai esternati. Alcune pagine erano poesia, altre erano angoscia e si alternavano sempre con gli stessi ritmi. Nella pagina centrale dell’ultimo quaderno aveva abbozzato, a pastelli, una stanza circolare con le pareti chiare di marmo, due gruppi di porte nascoste dietro tende di velluto rosso stile cinema, un soffitto a cupola brillante di luce dorata e una massiccia tavola rotonda al centro circondata da sedie di legno intarsiate. Aveva disegnato la stanza come se la stesse osservando con il mento appoggiato sulla tavola rotonda, era un punto di osservazione particolare: della stanza e della tavola aveva disegnato solo una parte, il resto ‘usciva dal foglio’. Di tutti i suoi quaderni, era l’unico caso in cui un solo disegno occupava un’intera pagina. A volte apportava delle modifiche, magari aggiungeva un dettaglio o ne rifiniva uno già esistente, ma gli elementi principali e la sua struttura erano nati di getto, in pochi minuti, figli dell’ispirazione. Quella stanza gli dava un senso di pace, di intimità, era una parte di lui. Al centro del disegno aveva scritto una parola: Liberazione. La lesse a bassa voce, scandendo le sillabe una ad una:

    Li-be-ra-zio-ne.

    Prese la penna, si spostò all’ultima pagina e trovò uno spazio bianco ondulato nella confusione di parole scritte e mescolate ai disegni, ma la punta della penna si bloccò ad un centimetro dalla carta perché si era dimenticato cosa voleva scrivere. Restò immobile a cercare di ricordare, ma solo una cosa, ora, gli girava in testa:

    arrivano

    Dopo aver scritto quella parola, la lesse, e provò disagio. Poi un brivido gli percorse la schiena. Richiuse tutto nello zaino.

    A parte la momentanea crisi con Francesca, l’altro pensiero ricorrente degli ultimi giorni era la facoltà di psicologia a cui voleva iscriversi. Quel genere di argomenti lo avevano sempre affascinato, ma non era del tutto convinto di quella strada, in lui giocava un tira e molla che andava a periodi e qualcosa di estraneo lo dissuadeva dallo studiare la Mente e il cervello, il loro funzionamento, le loro strutture ‘grossolane’ e quelle ‘sottili’.

    Chi è davvero l’essere umano? Come è fatto l’essere umano? Di quante parti è composto?

    Non hai bisogno di sapere come funziona l’essere umano, non hai bisogno di sapere cosa c’è dentro di te, che ti importa di quello che c’è dentro di te? Sei già abbastanza preoccupato di ciò che sta fuori. Mmmmm su dai in verità non ti interessa.

    Quando si entusiasmava per una qualsiasi cosa subentravano sempre altre forze che lo smontavano e gli sembrava che l’ultima parola non fosse lui ad averla. Eppure l’università era in città, a casa i suoi genitori gli fornivano i comfort necessari per concentrarsi sullo studio e avere tempo libero, che cosa non andava? I suoi pochi conoscenti non erano così indecisi nel compiere le loro scelte e questo gli dava sui nervi. Anche Francesca frequentava l’università, Economia e Commercio, con ottimi risultati e non aveva dubbi in proposito. A volte si diceva che forse il suo desiderio in realtà era solo cercare un’indipendenza e andarsene da casa.

    Però la pasta al sugo di mia madre è da urlo. Ammesso che sia la mia vera madre.

    Come?

    Ecco perché studiare psicologia, per cercare risposte e capire perché quella domanda ogni tanto tornasse su dall’inconscio e lo facesse incazzare a morte. Un treno che viaggiava in senso contrario scosse i finestrini con un colpo secco e improvviso che lo riportò di botto alla realtà. Non si era accorto della gente che aveva attraversato la carrozza poco prima e quando si guardò intorno erano rimasti solo lui e una ragazza su un sedile in fondo, vicino alla porta, impegnata nella lettura di un libro.

    Carina!

    La immaginò senza vestiti. L’unico rumore presente era quello del treno rapido attraverso le campagne di sera. Gli venne voglia di ascoltare un po’ di musica. Frugò in una tasca dello zaino in cerca del lettore mp3, su cui aveva caricato brani di ogni genere. Mise le cuffie e constatò che non funzionava, il display non dava segno di vita.

    Non l’ho caricato ieri sera?

    Pigiò alcuni tasti. Niente, lettore deceduto. Avvolse le cuffie intorno al lettore e lo rimise nella tasca dello zaino, sbuffando.

    Un attimo dopo cominciò a provare un senso di stordimento e irrigidimento muscolare. Provò a muovere le mani, ma i movimenti erano rallentati come se fossero immerse nella pece. Seguirono il collo, la schiena e le gambe, in pochi secondi i muscoli non risposero più ai suoi comandi e la sensazione orribile di essere costretto in un guscio di pietra avanzò in fretta e si diffuse nell’intero Corpo. Non era nuova e suscitava ricordi confusi che non voleva ricordare. Ecco cosa si prova ad essere paralizzati dal collo in giù: era tremendo, paradossale, discordante.

    Aiuto!

    Stai calmo, non ti accadrà niente, va tutto bene.

    Le luci della carrozza si spensero.

    Succede di nuovo!

    Stai calmo, non ti accadrà niente, va tutto bene.

    Questa non è la mia voce!

    Va tutto bene.

    La ragazza in fondo al vagone era immobile, era un fermo immagine a tre dimensioni e semitrasparente, tanto che dietro di lei si intravedeva, sfumato, lo schienale del sedile.

    Stai calmo, non ti accadrà niente, va tutto bene.

    Sembrava che il treno si fosse fermato, ma non c’era stata alcuna frenata. Una luce forte, ma non accecante, si fece largo dal finestrino e attraversò le pareti della carrozza. Jonathan alzò gli occhi e vide che il tetto del vagone ondeggiava come uno specchio d’acqua colpito da un sasso mentre diventava un liquido freddo e azzurro, non caldo come se si stesse fondendo. Il metallo si liquefaceva sopra di lui ma non colava giù, restava sospeso per aria. Una specie di droga, proveniente da una fonte ignota, attutiva la sua paura e impediva ai suoi nervi e al cuore di esplodere. Una forza misteriosa e invisibile lo sollevò facendolo, allo stesso tempo, distendere.

    Va tutto bene.

    Una forza che si prendeva gioco della gravità.

    Non ti accadrà niente, è solo un sogno.

    Jonathan, cullato dalla forza ascensionale, levitò verso il tetto della carrozza. La sensazione fisica era leggera, di galleggiamento, eppure il suo inconscio impazziva e gli spremeva il sudore fuori dalla pelle. Attraversò il tetto della carrozza e vide per un istante le strutture molecolari dei materiali che lo componevano: piccole galassie schiacciate e luccicanti, atomi vibranti, nuvole di elettroni in movimento e nebulose di fibre fluttuanti. Il suo stordimento aumentò fin quasi allo svenimento … quasi. Udiva un ronzio sommesso proveniente dall’alto. Il paesaggio e il treno erano immobili e non un soffio d’aria lo sfiorava, tutto era immobile tranne lui. Salendo lungo il cono del raggio azzurro, si avvicinò ai cavi dell’alta tensione della ferrovia.

    Muoio fulminato!

    Invece ci passò attraverso come se fossero ‘virtuali’. Un’apertura simile all’obiettivo di una macchina fotografica si aprì nel cielo e lui ci venne risucchiato dentro. La voce nella sua testa continuava a ripetergli di stare calmo e che andava tutto bene. I suoi occhi si riempirono di luce e non vide più nulla.

    Si trovò in uno strano ambiente tecnologico, asettico e poco illuminato. Era steso su un piano metallico liscio. Non poteva muoversi, solo ruotare gli occhi e respirare, però la paura non lo faceva tremare: era in uno stato completamente alterato.

    Conosco questo posto!

    Alcune ombre si allungarono su una parete. Avvertì i passi di piedi piccoli, dei sibili e un cattivo odore di rancido che si avvicinava. Alcuni esseri bassi, puzzolenti, con la pelle grigia dai riflessi giallastri, la testa grossa e grandi occhi vitrei ovali, lo spogliarono e lasciarono i vestiti sul pavimento.

    Ho visto come si apre la porta, ma poi dove vado?

    Una ondata di freddo gli trapassò le membra e gli raggiunse la punta di ogni dito come una scarica elettrica. Il piano metallico iniziò ad emettere lo stesso ronzio che si udiva mentre veniva risucchiato dal raggio azzurro e si mosse, volando a un metro da terra, lungo un’ampia galleria illuminata e costruita ad archi. Ai lati della galleria c’erano laboratori da cui provenivano rumori bassi di strumenti elettronici, ma nessuna voce. Gli esseri grigi che lo accompagnavano guardavano sempre avanti, nessuno gli rivolgeva un’occhiata.

    Dalla fine della galleria entrarono in un ambiente ampio e in penombra. Un disco volante, di un metro di diametro, si posizionò sopra di lui e lo sollevò usando lo stesso raggio trattore con cui l’avevano estratto dal treno. In quel momento, Jonathan vide di sfuggita che lì non c’erano solo i Grigi che lo avevano accompagnato, ma anche un essere alto almeno tre metri, mostruoso, coperto di squame, dotato di braccia e gambe, in posizione eretta ma con l’aspetto di un rettile, pupille verticali da coccodrillo, muso da serpente e una grossa coda. In piedi accanto alla creatura c’era un uomo, vestito da ufficiale militare.

    Il disco metallico calò Jonathan, in verticale, all’interno di un grosso cilindro nero munito di un solo oblò. Il disco metallico si posizionò sulla cima del cilindro e lo tappò. Il cilindro iniziò a riempirsi di un liquido tiepido, trasparente e con una strana consistenza. Il livello saliva, saliva

    no! no!

    gli sommerse i piedi, le ginocchia

    basta! fermatelo!

    il ventre

    basta!

    il petto, le braccia, il collo, la bocca

    affogo! affogo!

    dalla bocca gli entrò in gola

    soffocoooooo!

    dal naso gli entrò nei polmoni e Jonathan credette di morire. Gli salì sopra gli occhi, sopra i capelli e salì ancora fino alla cima del cilindro, ma Jonathan non soffocava: il liquido gli permetteva di respirare. Dall’oblò penetrava una luce. Stordimento, paura, suoni cupi e ronzanti, meccanismi che si caricavano. Iniziò a manifestarsi una vibrazione intorno al suo Corpo che diventò sempre più forte sempre più forte sempre più forte cresceva cresceva opprimeva scuoteva lo sterno e poi cresceva il suono cresceva la vibrazione di ogni vena dall’alto al basso dall’alto al basso tutto vibrava la frequenza aumentava ogni muscolo vibrava le ossa vibravano le interiora vibravano poi l’impressione di uno squarcio una rottura uno strappo uno scuotimento un trascinamento fuori dal cilindro e poi un lampo terribile che per un istante fu tutto e poi …

    ma cosa …

    Jonathan guardava a sinistra, verso il cilindro nero in cui era stato introdotto prima.

    Quello sono io, sono lì dentro!

    Ma stava guardando nello stesso tempo anche a destra, dove c’era un cilindro trasparente e orizzontale.

    Anche quello sono io … ma … ci sono due miei corpi! Il Corpo nel cilindro nero è caldo, l’altro è freddo e buio. Perché sono sospeso qui in alto?

    Vedeva ovunque, a sfera, da una posizione elevata e tutto gli appariva fatto di luci, colori e radiazioni che andavano ben oltre lo spettro solare e che gli occhi fisici non sarebbero stati in grado di cogliere. In quel momento possedeva una capacità visiva enormemente espansa e anche le forme di vita che lo osservavano dal basso erano diverse: sembravano in fiamme, ma i bagliori intorno ai loro corpi non erano fiamme. La grande camera era piena di cilindri trasparenti contenenti esseri umani e non umani e macchine che ne monitoravano lo stato biologico. Forze simili a quelle che lo avevano estratto dal treno lo sollevarono e lo condussero verso un altro cilindro verticale, trasparente, che conteneva nel liquido chiaro un essere identico al Rettile umanoide di prima. Gli stava andando addosso e non riusciva ad opporsi. Il Rettile lo guardava avvicinarsi con gli occhi socchiusi e aspettava il suo arrivo.

    Cosa sei! Che cosa vuoi da me!

    Jonathan andò verso gli occhi giallo e verdi della creatura, li vide aprirsi e avvicinarsi sempre di più, sempre di più, si spalancarono e le pupille si assottigliarono, volevano soggiogarlo, volevano sottometterlo, volevano prenderlo, assorbirlo, risucchiarlo, quegli occhi rettili volevano …

    Stammi lontano!

    Jonathan temette di sbattergli contro e invece gli entrò dentro passandogli attraverso la pelle come aria attraverso la seta. La sensazione fu orribile, gelida, fradicia, si sentì rinchiuso in una gabbia appiccicosa da cui percepiva le forme distorte e i colori spenti. Una ondata di energia gli venne risucchiata via e una forte spossatezza e depressione lo pervasero. Per contro, sentì ravvivarsi il Corpo in cui era stato inserito e oscillazioni vitali provenire dagli esseri dentro gli altri cilindri, incluso il suo clone ‘freddo e oscuro’. Si rese conto che l’energia estratta da lui era stata convogliata verso quelle forme di vita e le aveva ‘ricaricate’.

    Nooooooo qui non va bene non va bene!

    Uno strappo, scuotimenti violenti e poi di nuovo fuori, in alto vicino al soffitto della camera dei cilindri, poi di nuovo dentro il cilindro nero … un’ondata di caldo improvviso … confusione … urla interiori e voci rassicuranti … confusione … stordimento … confusione interiore e voci rassicuranti e poi …

    Nel treno.

    Al posto della ragazza che leggeva il libro c’era un tizio in camicia che scriveva su un’agenda. Alcune persone chiacchieravano nelle file di sedili davanti al suo, ma non si era accorto di quando erano entrate. Il treno viaggiava nelle campagne fuori città. Lui era seduto nello stesso posto della partenza e si sentiva esausto come se avesse corso, ma non era sudato. Aveva fame e voglia di dormire. Raddrizzò la schiena e quando diede un’occhiata al paesaggio fuori non lo riconobbe. Fermò il controllore che passava in quel momento.

    Mi scusi, quanto manca a Rimini?

    L’abbiamo passata venti minuti fa, siamo quasi a Pesaro.

    Oh cacchio!

    Ti sei addormentato.

    Ah, si, grazie.

    Prego.

    Ma come, non mi sono addormentato! Non mi sono accorto di niente.

    Pensò che l’aver dormito in una posizione scomoda fosse la causa della spossatezza. Scese a Pesaro e cercò il primo treno per tornare indietro. Aspettando sotto la tettoia del binario 2 sentì il bisogno di sedersi, non si reggeva in piedi. Quando si appoggiò allo schienale di una panchina si accorse che la camicia nera di lino era macchiata, vicino ai bottoni in basso, di una polvere bianca presente anche sul cavallo dei pantaloni. La strofinò e annusò le dita: borotalco.

    Non avrò mica girato sporco tutto il giorno senza accorgermene!

    Il borotalco l’aveva messo nelle scarpe la mattina prima di uscire di casa.

    Non ho mai tolto le scarpe!

    Non ci voleva pensare, si opponeva, si accanì a pigiare sul tappo di un barattolo che conteneva una cosa dannosa che cercava di uscire. Prese dallo zaino il lettore mp3 dimenticandosi che prima non dava segno di vita e che ora, invece, funzionava alla perfezione. Con la musica nelle orecchie, salì sul treno e stavolta scese a Rimini.

    A casa, la tavola era sparecchiata e i suoi avevano già cenato. Gli chiesero come mai avesse tardato tanto e risero quando lui spiegò di essersi addormentato. Notarono la sua aria molto stanca. Sua madre stese la tovaglia a metà e gli diede un piatto di pasta riscaldata. Lui raccontò i giri che aveva fatto a Bologna nel pomeriggio e l’unica spiegazione che diede per l’eccessiva stanchezza fu il caldo.

    Finito di mangiare, salì in camera a mettersi comodo, tanto non aveva la forza di uscire. Si tolse le scarpe e i pantaloni davanti alla finestra spalancata. Prese il quaderno dallo zaino e sfogliò le ultime pagine piene di scritte e disegni, in bianco e nero e a colori. Quel quaderno era senza dubbio il più caotico, ma anche quello che conteneva le cose più profonde e che meglio lo rappresentavano. Le scritte si raggomitolavano ovunque ma esprimevano concetti chiari e limpidi, i disegni erano ammassati ma scanditi e riconoscibili, raffiguravano solo i dettagli di certe cose e non le cose per intero, indagavano e scavavano più in profondità. Solo da poco disegnava singole parti di ciò che vedeva o di ciò che pensava e immaginava, ‘smembrava’ come non aveva mai fatto e l’ispirazione era arrivata da un disegno meccanico di una valvola idraulica rappresentata in forma ‘esplosa’: ogni singolo componente era disegnato fuori dalla valvola ma con una logica che permetteva di capire dove e come si assemblava. Era stato folgorato da quella tecnica, ma applicarla alle persone era più difficile. Così, nelle ultime pagine del quaderno aveva disegnato occhi fuori dalle orbite, denti scollegati dalle gengive, capelli staccati dalla cute, pelli sollevate, ossa sezionate e arti separati dal tronco con grande precisione come nei disegni scientifici di anatomia. Però arrivava sempre ad un certo punto in cui si bloccava, per quanto gli piacesse quella tecnica lo innervosiva il non riuscire a smembrare, scavare e analizzare più a fondo. Un disegno esploso di sé stesso non lo aveva mai neanche cominciato e avvertiva l’esistenza di elementi che non riusciva a rappresentare.

    Rilesse ciò che aveva scritto sul treno: arrivano. Lo rilesse … lo rilesse e si innervosì. Strappò la pagina, posò il quaderno sulla scrivania e cercò due puntine nel cassetto, le trovò e la crocefisse sul fianco della libreria nascondendo quel verbo. Faceva tenerezza, la pagina crocefissa. Pensò alla pagina centrale del quaderno su cui aveva disegnato la stanza della tavola rotonda e pensò se farle fare la stessa fine.

    Strappala!

    La prese per il fianco. Iniziò a fare forza con la mano. Alcune fibre si lesero.

    Avanti, strappala!

    No!

    Quella doveva restare. Chiuse il quaderno, e così facendo interruppe un caotico flusso di pensieri.

    Guardò il cellulare, Francesca non aveva ancora risposto. Strofinò le mani sulla faccia e bevve un sorso d’acqua dalla bottiglia sotto la scrivania, accanto a due manubri da palestra. Sbottonò la camicia e scoprì il campionario di cicatrici che aveva sul torace glabro e ben tornito, residui delle ferite che si era inflitto tre anni prima con un coltello nel momento di crisi più nera che avesse mai attraversato. Ma la cosa peggiore non erano le cicatrici, era non sapere cosa lo avesse spinto ad un tale livello di autodistruzione. Da sempre soffriva di una grande confusione interiore, da quando era nato e nemmeno il dottor Manni, il suo psicologo, aveva mai ottenuto risultati nel capire la vera causa, tant’è che Jonathan non ci andava da sei mesi e si chiedeva che senso avesse tornarci a sprecare tempo e denaro. Era chiaro che se un professionista stimato come il dottor Manni non ci aveva capito niente, la psicologia o i suoi praticanti avevano molte lacune e muri da abbattere. Forse uno dei motivi per cui voleva studiarla era poterla espandere con la propria esperienza.

    E se il vero matto fosse il dottor Manni insieme ai cosiddetti ‘normali’?

    Non esageriamo.

    Si guardò il torace allo specchio nel centro dell’armadio guardaroba, controllò ‘a che punto erano le cicatrici’. Cercò di non ricordare i momenti in cui le aveva fatte perché, come diceva il dottor Manni, altrimenti avrebbe rivissuto quel dolore e non era giusto soffrire ancora. Ogni volta che le vedeva riflesse si sentiva un dito puntato contro e l’estate era il periodo peggiore, ma anche se avesse tolto ogni specchio da casa avrebbero sempre trovato un modo per ricordargli la loro presenza. Avere quei segni non lo faceva sentire ‘macho’, anzi li nascondeva e non ne parlava con nessuno tranne Francesca. Farli non l’aveva fatto sentire più ‘vivo’, non gli aveva dato nessuna ebbrezza, erano stati un’inutile e disperata ricerca di una porta per accedere all’interno di sé stesso e dato che la Mente non trovava una soluzione, aveva provato ad aprirne una fisica. Ma con quelle ferite aveva anche cercato di buttar fuori qualcosa. Sentiva la presenza di conflitti da estirpare da dentro di sé, ma non sapeva in che modo, sentiva di avere ancora tante porte da aprire, le cercava, ma ogni volta che si entusiasmava subentrava una vocina interna che lo smantellava pezzo per pezzo. Posò la camicia sulla sedia e il cellulare sulla scrivania. Un attimo prima di coricarsi, arrivò un messaggio:

    ‘Fanculo’

    era Francesca. Anche se si aspettava una risposta del genere, ci rimase male. Gli si ammosciarono le spalle, forse aveva ancora da imparare su di lei. Scaraventò sul letto il cellulare che rimbalzò e rotolò sul pavimento dall’altra parte. Resosi conto della minchiata appena fatta, con un balzo lo andò a raccogliere.

    ‘Scusami’ le scrisse.

    ‘Non credo di meritare quello che mi hai detto, chi ti credi di essere piccolo stronzo?’

    ‘Hai ragione’

    ‘Ne riparliamo domani e spero di non essere come adesso, per ora vaffanculo’

    ‘Ok ciao’

    Posò il cellulare sulla scrivania e si scusò con lui per il trattamento ingiusto. Era arrabbiato con sé stesso e lei aveva tutte le ragioni per reagire così. Si sdraiò sul letto pensando a cosa dirle.

    ***

    Francesca aveva pianto tutta la mattina e un sacco di volte aveva pensato di mandarlo a quel paese. Era arrabbiata, lo considerava un ingrato e uno stronzo, sapeva dei suoi problemi non chiari, dei suoi turbamenti strani, ma gli era sempre stata accanto e quello era stato il modo in cui lui l’aveva ringraziata. A questo punto si chiedeva perché non lasciarlo solo davvero, dato che ci stava così bene. In quel momento avrebbe voluto infilare il cuore nel freezer, invece di lasciarlo a battere nel petto caldo e colmo d’amore. Già in passato Jonathan le aveva detto di andarsene e lasciarlo in pace, ma poi si era mostrato davvero pentito e questo comportamento la confondeva.

    Parlava al telefono con Mara, una sua cara amica. Era carica di tensioni per l’umiliazione, la voglia di mandarlo all’inferno e quella di perdonarlo.

    Se quelle frasi escono dalla sua bocca in qualche modo le rimugina dentro, dico io!

    Beh, in un certo senso si, però …

    Se le pensa per i fatti suoi o magari anche quando è con me che ci faccio con lui? Allora mi conviene stare single così mi faccio chi voglio quando voglio!

    Non lo pensi davvero, dì la verità.

    "Mi ha detto ‘vaffanculo lasciami in pace non fai che ronzarmi intorno’. Se pensa questo

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