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Generazione Omega: Il call center visto e vissuto da un laureato
Generazione Omega: Il call center visto e vissuto da un laureato
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E-book191 pagine2 ore

Generazione Omega: Il call center visto e vissuto da un laureato

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Info su questo ebook

"Buongiorno, come posso aiutarla?"
Una frase che è alla base di quella che è una delle attività più diffuse nel moderno mondo del lavoro: l’operatore call center. Una mansione che non richiede particolari abilità se non la ligia osservanza di procedure standardizzate da ripetere all’infinito in un contesto che, soprattutto per un profilo qualificato, può rivelarsi quasi del tutto privo di stimoli e di prospettive.
Entrato quasi per caso in questo mondo l’autore, che scrive sotto pseudonimo, ha finito per constatare come l’attuale congiuntura lavorativa sia arrivata a renderlo un punto d’approdo desiderabile anche per un laureato malgrado condizioni operative spesso e volentieri mortificanti.
Proprio su questo ossimoro è costruito un libro che racconta a trecentosessanta gradi l’attività di operatore in un comparto oggi primario come quello delle telecomunicazioni con sullo sfondo il dramma di una generazione a cui è stata venduta l’illusione che un titolo accademico potesse spalancarle le porte di un futuro lavorativo di prestigio.
Ma a corollario di una disamina fondamentalmente spietata vi è un messaggio di speranza alimentato da un colpo di scena finale che sorprende lo scrittore prima che il lettore stesso: il lavoro dei sogni probabilmente non arriverà mai, ma ognuno di noi ha in sé le risorse per lasciarsi alle spalle ogni apparente punto di arrivo avvicinandosi per vie traverse a ciò che vorrebbe e che potrebbe essere.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2021
ISBN9791220299169
Generazione Omega: Il call center visto e vissuto da un laureato

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    Anteprima del libro

    Generazione Omega - Paolo Alibo

    Ringraziamenti

    Introduzione

    Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la Grande Guerra né la Grande Depressione. La nostra Grande Guerra è quella spirituale, la nostra Grande Depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinto che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock stars. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando.

    Chuck Palahniuk , Fight Club

    Lavori in un call center? Allora scommetto che sei uno di quelli che chiamano a qualsiasi ora del giorno per vendermi qualcosa!

    Non tutti conoscono la differenza fra l’essere addetti all’outbound e all’ inbound, vale a dire fra quegli operatori che chiamano l’utente, non necessariamente per proporgli prodotti o servizi, e coloro che invece sono incaricati di rispondere ad una sua istanza.

    Il sempre più incalzante utilizzo del telefono come veicolo di procacciamento di nuovi clienti ha fatto sì che agli occhi dell’uomo comune qualsiasi persona che si guadagni da vivere parlando al telefono finisca senza speranza nel calderone dei rompiscatole senza tener conto del fatto che al giorno d’oggi sono innumerevoli i servizi di assistenza affidati al nostro comparto. Utenze telefoniche, area operativa del sottoscritto, ma anche idriche ed energetiche, per non parlare di abbonamenti pay tv, servizi bancari e di post vendita, biglietti aerei e ferroviari, notizie sulla viabilità ed una miriade di altre cose.

    Se non lo avete ancora capito la risposta alla domanda iniziale è dunque no, non sono uno di quelli e mi dispiace ammettere che in queste parole vi sia una discreta dose di sussiego, quasi a voler ringraziare il cielo nella consapevolezza di militare in una di quelle tante guerre fra simili in atto nella società moderna.

    Dunque mi occupo di fornire assistenza a clienti titolari di un’utenza telefonica con un’azienda che, per ovvi motivi di opportunità, non nominerò. Più precisamente sono incaricato di decifrare la vostra fattura telefonica, di aggiornarvi su costi e scadenze, di accogliere ed instradare un eventuale reclamo ed all’uopo di consigliare un profilo tariffario in linea con le vostre esigenze.

    Terminate le presentazioni di prammatica veniamo però alla fondamentale domanda che mi sono ripetutamente posto prima di convincermi ad iniziare questo cimento: perché e per chi scrivere un libro dedicato alla vita di un operatore call center?

    Avevo in cantiere già da qualche anno l’idea di raccontare la mia esperienza e lavorando sei ore e mezza al giorno il tempo per farlo ci sarebbe stato veramente tutto.

    Dodici anni di carriera sono però utili, oltre che a diventare un provetto consulente telefonico, a comprendere quelle che sono le conseguenze fisiche e soprattutto mentali di un’attività tanto alienante. Alla lunga ti rendi perfettamente conto del fatto che le tue migliori energie mentali vengono spese durante il turno e che alla fine della giornata avrai solo voglia di evadere da tutto ciò che sarà anche solo lontanamente connesso ad un’attività lavorativa capace di agglutinare e rispararti addosso tutte le tossine prodotte dal suo albero motore.

    Inizialmente avevo quindi virato su un progetto meno gravoso, quello di un blog con titolo e contenuti identici da aggiornare di tanto in tanto con l’intento di verificare quanto l’argomento potesse risultare attrattivo. Sono stati tuttavia sufficienti un paio di mesi per capire quanto le attuali logiche SEO avessero reso questo tipo di esperienze editoriali molto più complesse rispetto ai primi anni del nuovo millennio quando, nel pieno boom della blogosfera, si riusciva senza troppo penare a collezionare centinaia di visite giornaliere indipendentemente dalla spendibilità intellettuale dei contenuti proposti.

    I risibili numeri di visite mensili avevano una sola spiegazione: prima che il farsi leggere il problema era il farsi trovare per poi, forse, essere considerati interessanti dall’internauta. Con una repentina inversione a U sono così ritornato al punto di partenza convincendomi definitivamente del fatto che l’idea originaria potesse essere quella giusta.

    Alla base di quest'anelito vi erano sostanzialmente due motivi: sentivo innanzitutto il bisogno di scrivere per trasformare la mia frustrazione in un ormone radicante grazie al quale costruire qualcosa di creativo. Costruendo il mio racconto attorno al dramma della generazione di cui faccio parte a pieno diritto, che ho appunto definito Generazione Omega, ho quindi portato una testimonianza che ritenevo meritevole di essere storicizzata eleggendo al tempo stesso la mia potenziale platea: persone che vivono, hanno vissuto o vivranno la medesima condizione, ma anche semplici curiosi che vogliono sapere cosa ci possa essere dietro a quelle voci a cui affidano la risoluzione di tutta una serie di problematiche.

    La stessa scelta del titolo ha seguito lo stesso doppio binario. Oltre ad essere una lettera facilmente abbinabile ad una posizione in retrovia, essendo l’elegante coda dell’alfabeto greco, l’Omega ha casualmente anche la stessa forma del nostro strumento di lavoro, la cuffia. Un oggetto che nella nostra gioventù era sinonimo di rifugio fonico, di partite di calcio o brani musicali ascoltati senza ledere la quiete altrui costituisce oggi per molti di noi una catena ancorante ad una vita lavorativa da cui non si vede l’ora di fuggire.

    Ho parlato di dramma generazionale e credetemi se garantisco di aver pesato fin troppo bene queste parole. Siamo in tanti ad essere vittime della falsa promessa che un titolo accademico avrebbe portato ad una quasi sicura collocazione nel mondo del lavoro in linea con risultati, meriti e vocazioni. Il risultato è che, al netto di qualche eccezione in cui si è riusciti a raggiungere più o meno meritatamente la meta prefissata, vi sono oggi fiumane di persone che hanno completato brillantemente un percorso accademico che si ritrovano inoccupati o costretti a riconvertirsi sacrificando saperi e talenti sull’altare della sopravvivenza. Cestinati da un mondo del lavoro concorrenziale e del tutto inadeguato a digerire questa mole di profili iperqualificati sfornati a getto continuo dalle università rischiano, beffa su beffa, pure di essere insultati da qualche ministro della Repubblica che decide di etichettarli come dei viziati bamboccioni poco propensi a rassegnarsi a questo destino.

    In questa nutrita schiera il mondo del call center pesca a piene mani offrendo un modello lavorativo dequalificante e demolitivo per quanto riguarda autostima e motivazioni, quantomeno per chi ha seguito un percorso di studi con l’idea di arrivare su ben altri palcoscenici.

    Proprio l’idea di fungere da cronista sul campo descrivendo questo processo ha funto da stimolo decisivo. Sarà poi il giudizio insindacabile del tempo a decidere se questo racconto apparirà un giorno più simile ad una rispettabile cronaca o ad un saggio sgangherato scritto da un ultratrentenne che in fin dei conti era solo uno dei tanti che non ce l’aveva fatta.

    Una breve biografia

    Si nasce due volte: la prima nel senso biologico del termine, la seconda quando comprendi la direzione del tuo cammino. Trascorsi oramai dodici anni dal conseguimento della mia laurea ho ragione di temere che potrei essermi fermato a metà del guado.

    Il mio personalissimo big crunch comincia proprio in quel lontano settembre del 2007 in cui, laureandomi in scienze politiche all’Università Federico II di Napoli, credevo di essermi guadagnato una rampa di lancio da cui alla prova dei fatti non mi sarei mai discostato.

    Già da un annetto ero entrato a far parte del mondo del call center attraverso un contratto part-time 50% a tempo determinato in somministrazione lavoro, termine odioso come pochi a cui preferisco il non meno glaciale contratto interinale.

    Per essere un giovane senza troppi vizi e non avvezzo a manie mondane quelle quattro ore trascorse in un ambiente giovane ed allegro mi avevano fin lì permesso di affrontare la vita da studente con una discreta serenità economica, gravando quindi il minimo sulla mia famiglia e mettendo subito un importante tassello nel carniere delle esperienze lavorative.

    L’idea che questo lavoro potesse diventare definitivo era allora ben lontana dalla mia testa. Il castello di speranze ed illusioni generosamente finanziato dai miei genitori restava saldamente in piedi forte della convinzione che col tempo i meriti e le capacità avrebbero fatto il resto accompagnandomi verso ruoli più prestigiosi e remunerativi.

    Ma come ero arrivato a tutto questo?

    All’atto dell’immatricolazione sognavo di fare il giornalista o magari di confluire su un piano neanche troppo alto della Pubblica Amministrazione ben sapendo che avrei dovuto passare le Termopili dei praticantati o dei concorsi. A diciotto anni l’ingenuità e l’idealismo spingono a credere che capacità e volontà possano spostare anche gli ostacoli più ingombranti.

    Per questo motivo e, ammetto, anche per mancanza di alternative di mio gusto (all’epoca la scelta accademica era molto meno ampia di quella attuale) finii per iscrivermi a Scienze Politiche, facoltà che camuffa dietro un nome roboante un’effettiva povertà di sbocchi diretti nel mondo del lavoro.

    Ricordo come fosse ieri il giorno in cui varcai il Rubicone dopo mesi di assoluta indecisione sulla scelta degli studi da intraprendere. In quell’8 settembre del 1999 si disputò proprio a Napoli una partita di calcio fra la Nazionale italiana e quella danese conclusasi con la vittoria in rimonta degli scandinavi per 3-2 malgrado un iniziale nostro vantaggio di due gol a zero. Avrei potuto leggervi un funesto presagio, ma non lo feci ed alla fine della diretta entrai nella camera dei miei genitori per comunicare loro il risultato finale della partita che si stava giocando da molto più tempo nella mia testa.

    Qualcuno mi ha chiesto se tornando indietro rifarei o meno la stessa scelta: ebbene sì, perché rimettendomi in quei panni e con quel tipo di offerta accademica che mi si presentava non potevo davvero fare altrimenti. Del resto in facoltà come le osannatissime Ingegneria o Medicina ancora oggi stenterei a riempire anche solo la prima pagina del libretto degli esami.

    I primi anni di studi furono durissimi. Più di una volta mi ritrovai sul punto di mollare faticando ad abituarmi ad un metodo di studio tanto diverso da quello scolastico ed il magro bottino di tre esami in un anno e mezzo mi posizionò su una lama di rasoio che a quei tempi rispondeva al nome di rinvio militare. Pur rientrando a fatica nei parametri richiesti per evitare la leva obbligatoria mi autoconvinsi del fatto che la mia carriera universitaria stesse per concludersi e decisi andare incontro all’onere che mi attendeva candidandomi allo svolgimento del servizio civile sostitutivo al fine di svolgere un’esperienza formativa più utile di quella vita militare che ritenevo ingiustamente eradicante e priva di qualsiasi utilità sia presente che futura.

    Quella scelta apparentemente irrazionale si rivelò una salvezza perché ebbi la fortuna di essere assegnato ad una mansione impiegatizia presso un importante museo napoletano, quindi a due passi da casa ed in una cornice assolutamente meravigliosa, per di più con l’opportunità di inserire subito un pezzo da novanta nel mio profilo curriculare. La mia prima avventura lavorativa aveva luogo nel cuore pulsante della mia città, a due passi dal mare e nel bel mezzo di un ambiente in cui ogni centimetro parlava di arte e di storia. E soprattutto potevo interfacciarmi con profili da cui avevo tutto da imparare mantenendo per di più la possibilità di ritagliarmi del tempo per preparare gli esami universitari.

    Se non lo avete ancora capito in quei mesi ho conosciuto la vera felicità lavorativa malgrado la temporaneità di quella condizione ed uno stipendio mensile che si aggirava attorno al centinaio di euro. Ancora oggi mi si spalanca il cuore ripensando alle mattinate in cui facevo colazione osservando i flussi brulicanti diretti verso la Piazza del Plebiscito per poi avviarmi verso l’ambulacro dell’edificio dove avrei salutato le copie dell’Ercole Farnese e della Diana cacciatrice con grata riverenza prima di fare lo stesso, una volta al piano, col mare del golfo su cui affacciava il mio piccolo ufficio.

    Ne guadagnai dunque in serenità, esperienza e, strano a dirsi, anche in fatto di risultati accademici visto che in quei dieci mesi infilai un filotto di sei esami con altri cinque che seguirono a ruota dopo che, alla fine dei dieci mesi di servizio civile, mi venne proposto un contratto d’opera finalizzato all’inventariazione informatica delle opere d’arte di pertinenza del museo.

    Peccato però che le cose belle non durino mai in eterno e nel settembre del 2004 le schede da inventariare finirono restituendomi alla mia zucca trainata dai topolini.

    In tasca tuttavia mi ritrovavo un libretto degli esami finalmente non più anemico come all’origine, una molla che nelle mie speranze neanche troppo recondite avrebbe dovuto lanciarmi, a studi conclusi, verso un’occupazione non meno appagante di quella che avevo mio malgrado appena abbandonato.

    Forte di quest’ambizione nei tre anni seguenti riuscii a mantenere la scia completando gli esami mancanti senza mai incappare in una bocciatura per poi chiudere il mio percorso accademico con una tesi di laurea in Geografia delle Relazioni Internazionali che mi portò ad ottenere una votazione più che discreta.

    Smaltita l’euforia iniziai a però toccare con mano la reale spendibilità di una laurea umanistica capendo che se volevo assurgere ad una posizione lavorativa decente gli esami, Eduardo docet, erano tutt’altro che finiti.

    In soldoni si trattava di cambiare area della

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