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Sulle orme di Byron
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E-book262 pagine3 ore

Sulle orme di Byron

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Il romanzo nasce dalle grandi passioni dell’Autrice: Roma, la cultura romantica inglese e il Grand Tour, contaminate attraverso l’originale televisivo “Il segno del comando” (1971), di cui è stata sempre una fan, e di cui riutilizza il plot narrativo per creare un’opera visionaria e immaginifica, che funge da guida ai luoghi di Roma toccati dal poeta George Byron e dal suo studioso Edward Forster, invitato a tenere una conferenza a tema.
Sin dall’arrivo in città, il professore di Cambridge si ritrova invischiato in un intrigo negromantico, al cui centro vi è un medaglione con una civetta, regalo di una sfuggente modella di via Margutta, Lucia, che fu la compagna del pittore Marco Tagliaferri, di cui Forster è il sosia. E, mentre la vicenda al cardiopalma si anima di colpi di scena, strane coincidenze e morti sospette ripercorrono le orme di Byron e degli scrittori del Romanticismo, vivendo una straordinaria pagina di storia letteraria, tinta di suspense.

LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2021
ISBN9788868154035
Sulle orme di Byron
Autore

Maria Concetta Preta

Maria Concetta Preta, vibonese, prima di dedicarsi alla scrittura e alla poesia, si è interessata di epigrafia latina. Docente di Lettere Antiche nel Liceo Ginnasio della sua città, membro della delegazione cittadina del F.A.I., debutta nella narrativa con “Il segreto della Ninfa Scrimbia”, aggiudicandosi prestigiosi riconoscimenti (Selezione Premio Ibiskos Noir 2012 e Pre-finalista al Premio Tropea 2013) e la vittoria per la sezione Narrativa al Premio Nazionale “Le parole di Arianna” (Marcellinara, 2013). Della stessa autrice il noir: “La signora del Pavone blu”, ed. YCP.

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    Sulle orme di Byron - Maria Concetta Preta

    Sulle orme di Byron

    romanzo

    Titti Preta

    Meligrana Editore

    Copyright Meligrana Editore, 2020

    Copyright Titti Preta

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868154035

    In copertina: Arthur Willmore,

    Lord Byron contempla il Colosseo, 1850

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Copertina

    Sinossi

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, è necessario acquistare una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, siete pregati di acquistare la vostra copia.

    Grazie per il rispetto verso il duro lavoro di questo autore.

    Sinossi

    Il romanzo nasce dalle grandi passioni dell’Autrice: Roma, la cultura romantica inglese e il Grand Tour, contaminate attraverso l’originale televisivo Il segno del comando (1971), di cui è stata sempre una fan, e di cui riutilizza il plot narrativo per creare un’opera visionaria e immaginifica, che funge da guida ai luoghi di Roma toccati dal poeta George Byron e dal suo studioso Edward Forster, invitato a tenere una conferenza a tema.

    Sin dall’arrivo in città, il professore di Cambridge si ritrova invischiato in un intrigo negromantico, al cui centro vi è un medaglione con una civetta, regalo di una sfuggente modella di via Margutta, Lucia, che fu la compagna del pittore Marco Tagliaferri, di cui Forster è il sosia. E, mentre la vicenda al cardiopalma si anima di colpi di scena, strane coincidenze e morti sospette ripercorrono le orme di Byron e degli scrittori del Romanticismo, vivendo una straordinaria pagina di storia letteraria, tinta di suspense.

    Titti Preta

    Titti Preta, Cavaliere al Merito della Repubblica, laurea in Lettere Classiche conseguita a Firenze, docente di Discipline umanistiche (Italiano, Latino e Greco), esperta di epigrafia classica e Beni Culturali, ha dato alle stampe il saggio storico Il municipium di Vibo Valentia, quindi debutta nella narrativa con Il segreto della ninfa Scrimbia, che si è aggiudicato il premio Nazionale Le Parole di Arianna nel 2013 ed è risultato finalista al Premio Tropea (2013). Il noir La signora del Pavone blu giunge al settimo riconoscimento nazionale e Rosaria, detta Priscilla, e le altre e Angela la Malandrina-Storia di brigantaggio e libertà, racconti storici al femminile, sospesi tra indagine antropologica e psicologica, riscuotono unanimi consensi, come a Venezia per il Premio Marzo Donna (2016) o la vittoria al Premio di Acireale Racconti di Donna (2015). Nel 2016 pubblica L’ombra di Diana, romanzo storico, e Ragazza del Sud che tratta di amore e ‘ndrangheta. Nel 2017, per il trentennale della morte della cantante calabro-francese Dalida, pubblica Cercando Jolanda e dà avvio alla serie di racconti didattici per le scuole medie con Gli occhi neri di Aisha, Dài che ce la fai, L’enigma della fontana scomparsa, Fata Smeralda, La Malandrina. Ritorna alla saggistica con Scrimbia e Nove come le Muse, vincitore nel 2017 del Premio Bova Rolfhs Mosino Karanastasis per la difesa della cultura grecanica. Torna al mystery nel 2019 con Il sigillo della dea Pandina. E, nel 2020 pubblica L’abbraccio della notte, che riprende la storia dei delitti del Mostro di Firenze. La Preta gestisce un blog culturale e organizza passeggiate letterarie nella sua città natale, Vibo Valentia.

    Sulle orme di Byron

    ai miei figli Silvio, Giulio e Adriano

    che hanno seguito con me Il segno del comando,

    cui l’opera si ispira

    e mi hanno accompagnato nel mio tour letterario romano

    ispirato dall’originale televisivo

    È sotto l’influsso di quei cieli opachi e vibranti come alte maree di suono, che Roma m’ha rivelato nel sonno delle pietre l’anima sua più segreta; e durante i lunghi pellegrinaggi senza mèta per le antiche vie solitarie, quasi ho creduto di vegliare una creatura addormentata che tradisse di quando in quando i suoi sogni in qualche misteriosa parola.

    La città dell’anima di Giorgio Vigolo

    INTRODUZIONE

    George Gordon Byron nasce a Londra nel 1788. Alla morte del prozio eredita il titolo nobiliare di Lord, assieme ai beni e ai debiti. Da ragazzo si distingue per il carattere bellicoso e intemperante e per l’insaziabile sete di letture. Nel 1805 entra al Trinity College di Cambridge, dove conosce alcuni dei più cari amici, si esercita nel nuoto e scrive poesie. Pubblica anonimo, a proprie spese, il libretto di versi Fugitive pieces, poi ristampato nel 1807 con il titolo Poems on Various Occasions.

    La prima opera a suo nome, Hours of Idleness, non ha molta fortuna e risponde alle critiche con la violenta satira English Bards and Scotch Reviewers.

    Nell’estate del 1809 parte per il Grand Tour. Visita il Portogallo, la Spagna, si ferma circa un mese a Malta, quindi, attraverso l’Epiro e l’Albania, giunge in Grecia e soggiorna ad Atene, dove ha un’intensa relazione col giovane Nicolo Giraud. Qui compone Hints from Horace e The Curse of Minerva.

    Nel 1811 torna in Inghilterra e vive tra Londra e la proprietà di Newstead Abbey. In questo periodo muoiono la madre e l’amato John Edleston, quindi è protagonista di alcuni accesi interventi alla Camera dei Lord, che disorientano l’aristocrazia inglese.

    Intanto scrive i primi due canti del Childe Harold e produce, ad un ritmo impressionante, una serie di racconti turchi di atmosfera esotica e romantica.

    Travolto da una serie di scandali originati da turbolenti ed equivoci rapporti amorosi, accusato di adulterio, incesto e bisessualità, nel 1816 si auto-esilia dall’Inghilterra, dove non farà più ritorno.

    Dopo una sosta a Bruxelles e a Waterloo, giunge a Ginevra e va ad abitare a Villa Diodati, un tempo residenza di Milton. Non lontano vivono Percy Bysshe Shelley e la consorte Mary: stimolato dalla loro sensibilità geniale, compone alcuni suoi capolavori: il terzo canto di Childe Harold, il Prisoner of Chillon, The Dream, Darkness.

    Nel 1816 è a Milano ed entra in contatto con Silvio Pellico e Vincenzo Monti e conosce Stendhal. A Venezia, dove si ferma tre anni, compone Don Juan, che lo consacra in Inghilterra. Nella città lagunare del suo esilio dorato ha numerose relazioni amorose e trasforma la dimora sul Canal Grande in una sorta di harem.

    Nell’aprile-maggio 1817 punta a Roma e ne rimane estasiato (i particolari di questo soggiorno hanno fornito lo spunto narrativo del romanzo).

    Quindi sosta a Ferrara e visita la cella di Torquato Tasso, facendosi rinchiudere un’intera notte e traendone ispirazione per il poemetto The Lament of Tasso, che sviluppa subito dopo a Bologna.

    Nella città felsinea, ove è noto e apprezzato, soggiorna brevemente, passeggiando sotto i portici e visitando il Museo d’Anatomia presso l’Istituto delle Scienze.

    Nella primavera del 1819, presso il salotto della Contessa Benzoni a Venezia, conosce Teresa Gamba, rampolla di una famiglia patrizia, che ha 19 anni ed è stata data in moglie al conte Alessandro Guiccioli, di oltre quarant’anni più vecchio.

    Tra Byron e Teresa nasce una forte attrazione sia fisica che spirituale e, il 9 giugno 1819 il poeta sbarca per la prima volta a Ravenna, prendendo alloggio presso l’albergo Imperiale, a cento metri dalla Tomba di Dante.

    A Ravenna ritorna in pianta stabile nell’inverno successivo e, a un veglione carnevalesco in casa del conte Cavalli, si presenta come cavalier servente della contessina Teresa, in pratica l’amante ufficiale. La figura del cavalier servente era in auge già da secoli e accettata in pratica da tutti, marito compreso. Infatti è lo stesso conte Guiccioli ad affittare a Byron il primo piano del suo palazzo nell’odierna centralissima via Cavour. La nobiltà ravennate non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie giacobine e, durante il Regno Napoleonico, si era arricchita enormemente acquistando a prezzi stracciati le proprietà del clero che Napoleone aveva confiscato. Dopo poco, lo raggiunge l’amico e sodale Shelley.

    In casa Guiccioli impiega il tempo scrivendo, cavalcando e trescando con Pietro Gamba per la nascente setta dei Carbonari.

    Byron, eccellente pistolero, diventa il maestro d’armi dei Cacciatori Americani, il gruppo carbonaro fondato da Pietro e che si raduna a far prove di tiro in pineta. Si avvicina il 1821, anno in cui i Carbonari pensano di sollevare la Penisola e scacciare i vari signori e potenti, con in testa il Papa. Ma i moti saranno un fallimento.

    Byron ha fatto della cantina di palazzo Guiccioli un arsenale e questo non piace al vecchio conte, che pensa bene di denunciare alle autorità l’ormai ingombrante ospite in cambio di un sostanzioso colpo di spugna sulle gravose tasse che l’erario papalino pretendeva in alternativa alla restituzione delle sue vecchie terre.

    Dopo il fallimento dei moti del 1821, ai quali seguono numerosi arresti nelle province romagnole, Byron e Teresa fuggono a Pisa: qui, nel Palazzo Toscanelli trovano un ambiente cosmopolita di letterati e artisti, tra cui l’amato Shelley, che purtroppo muore poco dopo a Viareggio in un tragico incidente in mare.

    Nel 1823 Byron aderisce all’Associazione londinese filoellenica e si imbarca, assieme al conte Gamba, per combattere per l’indipendenza della Grecia contro i Turchi Ottomani. Nel 1824 si trasferisce a Missolungi dove muore, forse a causa di febbri reumatiche. Viene sepolto nei pressi della sua dimora inglese di Newstead Abbey.

    Ci restano copiose testimonianze del fascino che il volto pallido e dai nobili lineamenti di lord Byron esercitava, specie sulle donne. A renderlo accetto alle quali dovette contribuire parecchio anche il tratto femmineo che non sfuggì a quanti lo avvicinarono. Gli piaceva autodefinirsi, una sorella prediletta, talora riottosa nei confronti del gentil sesso. L’aspetto esteriore era specchio fedele dell’animo ombroso, capriccioso e contraddittorio, continuamente oscillante tra la tenerezza e lo scherno.

    Byron era amante delle mistificazioni, ma al tempo stesso incapace di serbare un segreto; propenso a effondersi in interminabili ciarle, e in ancor più in deliziose lettere, che sono il modo migliore per conoscerne le pieghe dell’anima. Cresciuto in un’epoca di dandies, ne copiò in parte i costumi, e si sottopose a terribili cure dimagranti: tra le grandi figure del passato, guardava con ammirazione Alcibiade, personaggio scandaloso e controverso.

    L’atteggiamento che si sforzò d’assumere, nelle prime opere, fu tale da indurre il pubblico a vedervi forza virile e maschia freschezza. Quindi assunse la posa da pellegrino Aroldo, languente tra gli uomini come un falco selvaggio dalle ali mozze e dispregiatore del gregge vile. E divenne il creatore d’una moda, che attecchì rapidamente nell’Europa d’allora: il passionale ribelle alla società. Fu questo aspetto della sua poesia che impressionò i critici del continente, presso i quali diventò dogma l’identificazione del poeta con lo spirito rivoluzionario.

    In Italia ebbe una fama superiore a quella di qualsiasi altro scrittore straniero, sia per la sua arte, sia per l’operato politico.

    Ammiratore entusiasta della nostra letteratura, trovò ben presto traduttori e imitatori che ne fecero conoscere il testo integrale delle opere e, per un ventennio, fu il poeta straniero più letto, talora conosciuto meglio di Leopardi (che byroneggiò nel Consalvo).

    Ci fu a metà ‘800 una schiera di scrittori calabresi che adattarono il modello byroniano al loro contesto, ricreando un clima fosco e selvaggio, dominato da enfasi sentimentale e da istinto, com’era tipico del Romanticismo.

    Nel 1844 Vincenzo Selvaggi Vercillo indica Byron come uno dei quattro pilastri del Romanticismo insieme a Goethe, Chateubriand, Manzoni; e ne commenta il Manfredo, il Corsaro, il Caino e il Lara, presupponendo che i lettori calabresi ne conoscano la trama.

    Le imitazioni byroniane dei Romantici Calabresi dilagano, con una fioritura di poemetti lirici e di novelle in versi, come Padre Gioacchino di Giuseppe Campagna, L’Incognito di Pietro Giannone di Acri, Milosao di Girolamo de Rada, Il Monistero di San Bucina di Vincenzo Padula, L’Anacoreta di Vincenzo Selvaggi, che risalgono a prima del 1843.

    Nel 1844 segue Il Brigante di Biagio Miraglia da Strongoli, nel 1845 La Schiava Greca di Vincenzo Gallo Arcuri, quindi Il Valentino, secondo poemetto del Padula, e L’Errico di Domenico Mauro, che scrisse altri poemetti che vennero bruciati nel 1848 da un amico, cui lui, esule, li aveva affidati, per non compromettersi con la polizia.

    Mauro e Padula sono i maggiori rappresentanti del movimento, verso cui la critica non fu larga d’entusiasmo: più aspra col primo, più blanda col secondo. In effetti, L’Errico imita il Corsaro del Byron, il Valentino riprende il topos della passione demoniaca che distrugge un precedente stato di felicità. L’esotismo e la smania del viaggiare del Nobile Aroldo e l’umorismo come satira sociale del Don Giovanni mancano assolutamente nei due calabresi: l’Errico presenta una cupa storia d’amore in cui si rovinano due famiglie, in preda al tradimento e alla perfidia che portano all’aggressione, al delitto, al suicidio; il Valentino è ancor più raccapricciante, con le malefatte del protagonista che, sia pure senza sapere, entra perfino nel letto di sua madre!

    Temi, dunque, da grande tragedia greca, come nell’Anacoreta del Selvaggi, in cui, alla maniera della Fedra euripidea, la suocera è una vedova invaghita del genero che, novello Ippolito, sceglie una vita casta di penitenza, pur non raggiungendo il totale distacco dalle passioni. L’amore diviene una forza demoniaca e fa compiere atti illeciti e blasfemi, come accadeva nella Parisina del Byron, la donna che s’innamora del figliastro e insieme vengono decapitati per ordine di Azzo (Nicolò) d’Este, marito e padre.

    I poemetti calabresi sono byroniani anche nella tessitura: si aprono con scene dolci e idilliache che non fanno presagire l’orribile violenza del seguito. Vi è poi una studiata ricerca di contrasti: dalla natura agli stati d’animo, tutto avviene all’improvviso, allo scoppio della passione funesta.

    In un’epoca che ripone il proprio ideale artistico nel sentimento torbido che osteggia il razionalismo insito nel movimento del realismo e del Naturalismo, in Calabria si continua ad imitare Byron. Lo fa Francesco Maria Scaglione, che per la sua novella Edgarda si serve di tutto l’armamentario byroniano: la scena tranquilla iniziale, il tradimento, la passione illecita, il delitto, la vendetta e l’estinzione finale del casato. Come accade nel dramma storico Don Sebastiano di Leonardo Antonio Forleo.

    Byron è onnipresente nella produzione in prosa calabrese dal 1840 al 1848, non lasciando immune nessun genere letterario. I suoi personaggi decisi, individualisti, ribelli alle norme sociali passano di sana pianta nei Romantici di Calabria, coscienti di essere loro stessi dei ribelli alla società.

    Byron fu un anticonformista e nessuno quanto lui sentì il dissidio tra la vernice di moralità della classe dirigente e il marcio che la corrodeva. Egli sfidò quella classe e, poiché lo fece da solo, dovette auto-esiliarsi dall’Inghilterra, e non tornarvi più.

    I Romantici Calabresi erano anch’essi degli scontenti: il Padula raccoglieva i canti popolari che tramandavano le sofferenze delle plebi angariate dai signori locali, con l’eterno e amaro confronto tra ricchi e poveri; il Mauro partecipò attivamente ai moti del ‘48, poi fuggì in Albania, di qui passò a Roma, poi nel Regno Sardo, finché nel 1860 fu uno dei Mille e morì a Firenze nel gennaio 1879.

    A Cosenza nel 1843 nasceva il Calabrese, foglio letterario-scientifico che, nonostante il ciarpame accademico-umanistico provinciale, presentava note vivaci, non disdegnando di raccogliere usi e costumi della povera gente di Calabria. Ma la condizione degli scrittori calabresi romantici era singolare: formalmente inquadrati nella cultura ufficiale e privi d’un qualunque programma politico progressista, sentivano il disagio della propria civiltà e, non potendo sfogarlo nell’azione, si ribellavano nella letteratura, preferendo le passioni tumultuose, illecite, disgregatrici della società e inneggiando ai ribelli, che si concretizzavano nei briganti.

    In Calabria non è mai mancata la tradizione brigantesca, come reazione ai soprusi e alle angherie commessi dai ceti dirigenti: briganti isolati, ma anche rivoluzioni collettive contro feudatari e prelati prepotenti.

    I Romantici Calabresi non conoscevano le rivolte di massa, ma solo le ribellioni individuali e, per esprimerle, si rifecero a Byron, dando vita a una produzione letteraria che adunò in un vivace sodalizio le menti più capaci, interpreti del disagio sociale di un’epoca.

    L’Autrice

    1

    Due inglesi a Roma

    Roma, 11 marzo 1971, ore 10,00

    Una tersa mattinata di marzo, una di quelle che schiudono i fiori e i cuori e fanno presagire la primavera, diffondendo un brillio nell’aria.

    Chissà se Roma era parimenti bella quando vi giunse Byron! Figlio di un padre che non conobbe mai e di una madre che lo asfissiò con le sue ossessioni, George Gordon Noel Byron, il più celebre poeta inglese di quel tempo, a Roma arrivò nell’aprile del 1817, realizzando un sogno. Un medico gli prescrisse di allontanarsi dall’umidità veneziana per guarire da un mal di petto, e lui colse l’occasione, attraversando l’Italia con l’ingombrante corteo: amava dare spettacolo, in qualsiasi circostanza della sua vita.

    A Roma si sistemò nei pressi di Piazza di Spagna e subito incominciò ad esplorare la città in sella al cavallo. L’impressione che ne ricavò fu quasi stordente: Sono incantato da Roma come lo sarei da una cappelliera di pizzi, scrisse al suo editore John Murray, e di essa non vi dirò nulla: è indescrivibile. La guida qui vale più di ogni altro libro. Durante i ventidue giorni del breve, ma intenso soggiorno, elaborò alcune immortali pagine del poema Pellegrinaggio di Aroldo, come la rievocazione del gladiatore agonizzante sull’arena, tanto che Stendhal, che di Byron fu amico, nelle sue Passeggiate romane, fa rivivere la scena leggendo i versi struggenti in una notte lunare davanti al Colosseo:

    Vedo il gladiatore steso davanti a me, si appoggia alla mano. Il suo sguardo virile accetta la morte; ma è agonizzante e la sua testa china si accascia insensibilmente a terra. Le ultime gocce di sangue colano lente dall’ampia ferita; cadono pesanti ad una ad una, come le prime gocce di temporale; ma i suoi occhi morenti si offuscano; vede fluttuare attorno a sé il grande teatro e tutto quel popolo; muore e l’acclamazione ancora risuona, osannando l’odioso vincitore; ha udito quel grido e l’ha avuto in spregio. I suoi occhi sono insieme al suo cuore

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