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Emotion, Love & Power. L’epopea degli Emerson Lake & Palmer
Emotion, Love & Power. L’epopea degli Emerson Lake & Palmer
Emotion, Love & Power. L’epopea degli Emerson Lake & Palmer
E-book380 pagine5 ore

Emotion, Love & Power. L’epopea degli Emerson Lake & Palmer

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Gli Emerson, Lake & Palmer sono stati tra gli alfieri del rock d’avanguardia; una band che seppe plasmare uno dei più importanti idiomi musicali degli anni ’70 utilizzando ardite alchimie sonore e dando vita a un’intensità espressiva senza precedenti: futuristiche fanfare si alternano a impetuose improvvisazioni, ballate romantiche esplodono in ritmiche vorticose… il concetto di musica epica nel rock moderno nasce anche grazie al coraggio degli ELP.
In questo libro si raccontano gli eventi gloriosi e tragici che hanno caratterizzato il percorso artistico dei protagonisti e sono approfondite le vicende umane di quello che rimarrà per sempre il trio delle meraviglie: Palmer il signore delle percussioni, Lake l’angelo della voce, Emerson l’arcano incantatore.
LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2020
ISBN9791280133168
Emotion, Love & Power. L’epopea degli Emerson Lake & Palmer

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    Anteprima del libro

    Emotion, Love & Power. L’epopea degli Emerson Lake & Palmer - Fabio Rossi

    Prefazione a cura di Vittorio Nocenzi

    Il significato che voglio dare a questo mio piccolo contributo alla pubblicazione di Fabio Rossi sugli ELP è prevalentemente umano, personale. Secondo quanto mi hanno insegnato da ragazzo riguardo al significato della memoria, essa è l’unico modo vero di trattenere fra noi chi non c’è più. Memoria vuol dire prolungare la vita delle persone cui abbiamo voluto bene, che abbiamo stimato e a cui siamo rimasti legati, al di là delle cose terrene e delle dinamiche di presenza e assenza. Keith Emerson e Greg Lake per me sono stati, prima ancora che due grandi artisti europei del XX secolo, due persone alle quali ero legato da un affetto privato che sentivo molto. A essi ero legato da ricordi per me preziosi perché importanti nello svolgersi della mia esistenza; ed anche perché, essendo due veri grandi artisti, l’amicizia che ci univa era qualcosa che mi regalava orgoglio e privilegio.

    Quanto siano stati unici nella storia del rock progressive europeo non sarò io l’ennesimo a sostenerlo. Voglio almeno dire, però, quanto sono stati noiosi i confronti fatti da pseudo critici musicali e fan improvvisati tra Emerson e altri tastieristi coevi, di cui non voglio fare il nome, ma che erano lontani mille miglia dalla creatività dei fraseggi emersoniani, scambiando tecnicismi virtuosistici accademici con creatività musicale purissima, sempre per quella vecchia malattia di molti di avere bisogno delle contrapposizioni del partito di Bartali contro Coppi, dei Beatles contro i Rolling Stones eccetera. Paccottiglia che non ho mai amato, soprattutto quando si prova a parlare di valori assoluti come bisogna fare se si parla degli ELP. Non si può ridurre tutto a classifiche da maniaci collezionisti, feticisti. La musica ci innalza a quei livelli dove è obbligatorio respirare aria pura e contemplare i panorami lontani come libri famigliari nei quali trovare le nostre radici più intime e più vere. La musica è un vecchio gioco di verità e di meraviglie, di stupori e doni inattesi che non possiamo umiliare con le banalità più ovvie. Ogni tanto faremmo bene a ricordarlo. Sentirti stringere in gola dalla commozione solo per aver ascoltato qualcosa che ha a che fare con la bellezza più generosa è sempre una sensazione che ci ricorda quanto siamo meravigliosi nel creato noi uomini, campioni assoluti del bene e del male che possiamo e sappiamo fare. E la musica è uno degli strumenti speciali e miracolosi che abbiamo inventato e che ci contraddistingue fra tutte le creature del pianeta forse come nient’altro. Nessun altro essere è stato in grado di costruire gli strumenti musicali da cui, noi uomini, riusciamo a trarre suoni ed emozioni divine come nessun’altra creatura è in grado di fare, e nessun altro è capace a emozionarsi nel profondo di sé come sappiamo fare solo noi ascoltando un concerto o un semplice canto quando si libra nell’aria libero come un aquilone miracoloso che porta con sé messaggi celestiali o dolore cocente, o rabbia sconfitta, o semplicemente migliaia di sogni.

    Mentre scrivo queste parole mi tornano in mente, aggrovigliate le une alle altre, le emozioni mozzafiato del primo ascolto che feci da ragazzo dell’album della colomba, con dentro le pagine di Bach e di Bartók citate con nonchalance e sempre in modo appropriato, mai fuori luogo! Fu una rivelazione mistica! Il buongusto espresso con energia e chiarezza d’idee e mancanza di paura! Viva la faccia! Emerson liberò dagli steccati i classici e li accolse come amici nel suo mondo elettrico e muscolare, coccolandoli e facendo loro raccontare le storie del loro tempo come se potessero essere naturalmente anche le nostre di uomini del XX secolo.

    La musica sa essere una macchina che fa viaggiare nel tempo come nient’altro. Nell’affermare questo non dimentico i miracoli della pittura, dell’architettura o della letteratura. Voglio però dire che il suono in qualche modo coinvolge fisicamente ed emotivamente più delle altre arti, come se le onde sonore delle frequenze musicali, coinvolgendoci fisicamente, riuscissero a toccarci più intimamente per la loro natura. Non so se questo si possa sostenere scientificamente, sarebbe interessante ricercare in questo senso, ma resta comunque il fatto che la musica, con i suoi suoni, sembra essere un linguaggio che ci tocca in modo più fisico delle altre arti, ci colpisce non solo emotivamente ma anche proprio materialmente. Il glide del Moog di Emerson è una scarica di adrenalina pura. La matericità delle sue performance dal vivo, le torture inflitte brutalmente al suo povero organo Hammond durante i concerti, emettevano rumori e suoni indecifrabili, quasi antichi ruggiti di animali preistorici, mentre il nostro sfogava le sue pugnalate sulla tastiera per sacrificarla al Dio dello show! Ed io, che ne amavo perdutamente i fraseggi, mi arrabbiavo per questi momenti così kitsch che avrei preferito che Emerson lasciasse appannaggio di altri circensi, visto che lui certamente non lo era!

    In questa prefazione, quindi voglio raccontare di alcuni momenti della mia vita che ho condiviso con lui. Il Banco aveva firmato un contratto discografico con la Manticore, la loro etichetta, e il loro manager Stewart Young organizzò la presentazione alla stampa internazionale del primo album inglese del BMS a Venezia al teatro Malibran. Il giorno del concerto c’era un’emozione consapevole dell’importanza dell’appuntamento, erano state fatte le cose nel migliore dei modi; il teatro era stracolmo, il pubblico chiedeva di cominciare il concerto ma degli ELP, sul palchetto teatrale loro riservato, nemmeno l’ombra. Non si poteva aspettare ulteriormente. Un po’ dispiaciuti cominciamo e il concerto cresce, aumenta d’intensità, arriva al suo climax e arriviamo al bis. Solo allora vediamo apparire i nostri attesi ospiti. Poi il tripudio di gente, la cena, i giornalisti, le interviste. Passano gli anni e non ho mai saputo cosa fosse successo quella sera agli ELP.

    Trent’anni dopo ero con Francesco Di Giacomo in RAI a Roma per una trasmissione in diretta sulla radio e il conduttore ci disse che c’era una sorpresa per noi: un nostro amico ci avrebbe telefonato in diretta da Los Angeles. E così sentimmo negli altoparlanti una voce dall’accento chiaramente anglosassone salutarci calorosamente e scoprimmo che era Keith Emerson. Dopo lo stupore, i saluti; e poi mi venne spontaneo chiedergli con curiosità cosa fosse successo quella sera del ritardo al teatro Malibran di Venezia… ed Emerson, con il suo fare ironico e un po’ sornione, mi raccontò che, a un certo punto, partiti da Milano con il treno per venire da noi, aveva visto fuori dal finestrino delle montagne altissime e innevate e aveva chiesto a mister Young che viaggiava con lui sul treno: Sorry Stewart, but it’s the mountains in Venice?. E allora capirono di aver sbagliato treno: stavano andando verso le Alpi anziché venire a Venezia!! Ma la cosa comica fu il tipico senso di humour inglese con cui Keith raccontò il tutto.

    Ripensandoci, mi torna alla mente il nostro primo incontro a Londra. Noi venivamo da Roma e da Marino, dove avevamo una sala prove ricavata in una vecchia stalla per mucche: le avevamo traslocate accanto per cui, quando il Minimoog emetteva delle frequenze particolarmente basse, quelle rispondevano con muggiti di perplessità! Invece gli ELP avevano un intero teatro al centro di Londra, dove fummo accolti con calore e nella hall trovai Emerson seduto a un organo Yamaha, così grande da sembrare un aereo Mig pronto al decollo: tre tastiere grandi, più un’altra piccola sovrapposta e una pedaliera collegata direttamente al grande Moog a pannello che stava lì accanto! E come se fosse la cosa più normale del mondo Emerson mi fa: C’mon Victorio, c’mon near to me, indicandomi lo sgabello dove stava seduto davanti all’organo, e ci facemmo un’improvvisazione a quattro mani che non ho più dimenticato! Un momento di vero feeling come solo i grandi sanno regalarti!

    Un’altra volta in studio di registrazione a Londra, dove stavo curando i mixage de L’Albero Del Pane, uno dei brani del primo album in inglese per la Manticore. Allo scoccare della mezzanotte dell’ultimo giorno dell’anno apparvero in studio, con flute di champagne e roast beef all’inglese, Emerson e Stewart Young. Fu una cosa davvero carina che apprezzai molto! Dopo il brindisi ripresi i missaggi e al mattino, con la tastiera sottobraccio andai all’aeroporto di Heathrow e via a Venezia per un concerto il primo dell’anno!

    L’ultima volta che ho visto Greg Lake fu quando venne a Marino, la mia città natale, e fu ospite nella nostra stalla, dove con tutti i ragazzi del Banco ci facemmo una jam session di due ore i cui nastri, purtroppo, andarono perduti! Fu un altro momento di grande umanità e condivisione. La giornata era iniziata al mattino: io stavo con altri ragazzi della città a realizzare un’aiola verde nella piazza centrale di Marino (avevo dato vita a una colletta pubblica per realizzare delle aiole e delle panchine per gli anziani) e Greg mi trovò col piccone in mano che lavoravo con gli altri a scavare le aiole con indosso pelliccia regolamentare anni ’70, stivaletti londinesi di vernice verde con venti cm di tacco e mi disse: Vittorio, you’re crazy!.

    Mi auguro che troviate questo libro bello e interessante; io lo sto per leggere, e spero di avervi dato di questi due personaggi un colpo d’occhio diverso, un dietro le quinte che, se fossero ancora qui fra noi, credo avrebbero apprezzato, se non altro per la sincera affezione che provo ancora per loro. Le rock star sono uomini, spesso più soli di altri, spesso più simili a ognuno di noi di quanto pensiamo normalmente, presi come siamo ad ammirarli. Buona lettura.

    Prologo

    La filosofia musicale degli Emerson, Lake & Palmer poggia saldamente la sua struttura sulle basi della musica di matrice europea (classica, barocca e romantica), rigenerando un percorso già intrapreso da Keith Emerson con i Nice ed enfatizzato con la realizzazione di In The Court Of The Crimson King (An Observation By King Crimson), il superbo debutto discografico del Re Cremisi. Audace e sui generis, tale orientamento si distacca dagli stilemi convenzionalmente adottati nel rock britannico abbarbicato ai canoni tipici del blues e del soul.

    La vera rivoluzione nel mondo delle sette note degli anni Settanta è attribuibile in larga parte a quest’intuizione che ha portato all’allontanamento dai riferimenti d’oltreoceano consentendo l’esplorazione di nuovi affascinanti territori. Un modo di pensare diverso che oltrepassa gli schemi, una scelta coraggiosa e premiante che ha richiesto dedizione e una preparazione di elevato livello sotto ogni profilo. Questa rinnovata prospettiva artistica, unitamente ad altre componenti peculiari del rock progressivo – lo stravolgimento della forma canzone, l’utilizzo di tempi dispari, il ritorno della melodia principale in vari momenti del brano, la durata delle composizioni che possono allungarsi fino a coprire ambedue i lati di un vinile, l’impiego di strumenti inusuali nel rock e la volontà di sperimentare liberamente senza canovacci precostituiti – caratterizza buona parte della carriera degli Emerson, Lake & Palmer.

    La formazione inglese, inoltre, non si porrà limiti ma riuscirà invece a stupire elaborando eccellenti rivisitazioni di prestigiosi classici e affrontando, benché sporadicamente, i generi più disparati quali jazz, country e persino il rock’n’roll con risultati strabilianti. Oltre a sfoderare estro e talento, il gruppo ha dimostrato di possedere caratteristiche innegabilmente originali: era una band costituita da tre elementi, formula che, nell’ambito del prog, rappresenta senz’altro una singolarità; la chitarra elettrica, regina della musica rock, venne pressoché estromessa; furono sfruttate in ogni modo possibile le potenzialità dalle tastiere e i vantaggi messi a disposizione dalla tecnologia; i loro concerti erano unici grazie anche a una spettacolarità senza precedenti. Nonostante l’incontestabile versatilità così abilmente espressa, il trio è stato oggetto di severe critiche e sommerso d’improperi di ogni sorta da parte di alcune frange di critici che definire miopi è mero eufemismo.

    Ci troviamo al cospetto di una band che si ama o si odia, per cui aspirare all’obiettività potrebbe rivelarsi un’impresa titanica se non addirittura impossibile. Di certo l’aver cercato caparbiamente di distinguersi, assumendo talvolta atteggiamenti di vanità, ostentando ridondanza ed eccentricità, ha finito per suscitare intorno a loro diniego e inevitabili antipatie; tuttavia rimango inamovibile nella convinzione che gli ELP non siano stati compresi e apprezzati appieno, neppure nella loro fase più fulgida. Ho scritto questo saggio affinché coloro che lo leggeranno liberino la propria mente dai pregiudizi per approdare ai nuovi lidi di conoscenza messi a disposizione dal poliedrico e immaginifico universo del progressive. Un periodo irripetibile nel quale Emerson, Lake e Palmer, associabili a tre sostantivi che li identificano egregiamente – emozione (Keith), amore (Greg) e potenza (Carl) – hanno ricoperto un ruolo chiave nello sviluppo di un fenomeno musicale che ha infiammato generazioni di appassionati, ragion per cui andrebbero doverosamente rivalutati e collocati sullo stesso piano di altre band blasonate che sono ricordate con maggior frequenza e con minor acredine.

    Capitolo 1

    Keith Emerson: Emotion

    Todmorden è una piccola cittadina, adagiata sui monti Pennini, sita nella contea inglese del West Yorkshire. Nel 1944, mentre infuriava la Seconda Guerra Mondiale, Noel Emerson e sua moglie Dorothy, all’epoca in stato di gravidanza, dovettero trasferirsi in quella località fuggendo dal sud dell’Inghilterra per il timore di una possibile invasione da parte dei nazisti. In quest’oasi di pace, il 2 novembre di quell’anno turbolento, nacque il loro primo e unico figlio, che chiamarono Keith Noel. La casetta a schiera dove viveva la famiglia Emerson era modesta e non disponeva di servizi igienici, che erano invece in comune e posti esternamente alla fine della via. L’abitazione fu demolita tempo dopo per dare corso al progetto di realizzazione di una strada. Nel marzo dell’anno seguente Noel decise di ritornare sulla costa meridionale stabilendosi definitivamente col proprio nucleo familiare a Worthing, una località di villeggiatura nel West Sussex. Nella nuova dimora, assai più confortevole e funzionale, il piccolo Keith trascorse l’infanzia e l’adolescenza conducendo una vita particolarmente riservata.

    Entrambi i genitori erano appassionati di musica, il nonno materno impartiva lezioni di pianoforte e Noel si dilettava a tenere dei concerti casalinghi con alcuni amici musicisti esibendosi con una fisarmonica Scandalli intarsiata di madreperla. Il piccolo, nella sua cameretta, si addormentava udendo quel suono ovattato che arrivava dal piano inferiore. L’amore per il mondo delle sette note sbocciò dirompente quando tra le mura domestiche fu portato un pianoforte verticale. Noel lo suonava a orecchio e suo figlio lo ascoltava a bocca aperta. Keith per dieci mesi si divertì a improvvisare musica fino a quando, all’età di otto anni, chiese di poter prendere lezioni: Mi venne quest’idea e già il sabato seguente arrivò l’insegnante di pianoforte: Miss Marshall, aveva ottant’anni! Mi ficcò in testa ogni tipo di regola come le scale. All’inizio presi tutto in antipatia, ma continuai a imparare… era qualcosa che in un modo o nell’altro dovevo fare, mezz’ora di esercizi al piano e poi avevo il permesso di uscire a giocare. Non posso dire se veramente tutto ciò mi sia piaciuto, ma queste erano le condizioni stabilite.

    Nel tempo cambiò tre insegnanti, ma il problema stava nel non sopportare la rigidità degli schemi che gli impediva ciò che lui prediligeva in assoluto, ovverosia improvvisare musica. Tuttavia, continuava a studiare con impegno e ben presto iniziò a comporre. Aveva dieci anni quando per Natale ricevette in regalo una chitarra, e da quel momento maturò in lui un certo interesse per lo skiffle¹. L’approccio con la sei corde non fu tra i migliori; si limitava a suonare qualche accordo per poi riprodurre la stessa melodia al piano, lo strumento che più amava.

    Keith assorbiva musica come una spugna anche attraverso la radio e gli entusiastici commenti del padre che, nel frattempo, aveva iniziato a esibirsi al pianoforte con una piccola orchestra da ballo. Ben presto il giovane iniziò a partecipare a competizioni per pianisti: "Avevo dieci anni quando ci andai per la prima volta. C’erano trenta ragazzi che dovevano suonare lo stesso pezzo². Ricordo che il mio maestro esclamò: Tu sei il numero dodici e pertanto ascolterai undici compagni che eseguiranno la stessa musica in modo diverso, ma ignorali e proponila come ti ho insegnato. Mi sedetti e suonai di fronte a un giudice che poi mi fece notare dove avevo sbagliato. Fui bravo ad arrivare terzo nella categoria dedicata a Bach e secondo un anno dopo. L’anno seguente volli testare la mia capacità nel suonare a prima vista, ma non andò molto bene perché mi misero in una stanza dietro il palco e quando mi fecero uscire dovetti suonare un pezzo che praticamente non avevo mai sentito".

    Nonostante le esortazioni dell’insegnante di pianoforte che, constatato il suo talento, faceva leva sulla famiglia affinché completasse gli studi a Londra, Keith preferì rimanere a Worthing perché non si sentiva pronto per un passo così importante. A quattordici anni si rifiutò di frequentare la prestigiosa Royal Academy di Londra! Questa radicale presa di posizione è riconducibile alla sua attitudine a isolarsi sentendosi al sicuro nell’alveo domestico; da qui scaturisce la difficoltà di separarsi dai propri cari ai quali era molto legato. In quella fase della sua vita la musica era per lui niente di più che un mero divertimento; si dilettava a suonare per gli amici brani come Side Saddle di Russ Conway, un singolo che nel 1959 raggiunse la prima posizione nelle classifiche di vendita, e intanto cominciava a prendere confidenza con l’organo. Terminati gli studi scolastici, entrò all’Worthing College Of Further Entertainment. Non appena possibile, si precipitava nella sala comune per mettersi al pianoforte, con l’esito di monopolizzare l’attenzione degli altri ragazzi, che venivano attratti dalla sua abilità. A volte nascondeva all’interno dello strumento bottiglie di birra e di vino, rendendolo in pratica inutilizzabile. Tutto ciò non piacque al Preside che dapprima lo espulse, per poi concedergli benevolmente un’altra opportunità.

    Keith, intanto, si lasciava conquistare dal jazz in controtendenza con la moda del momento; non era affatto attratto dal rock’n’roll anche se non disdegnava di ascoltare pianisti come Jerry Lee Lewis, Little Richard e Floyd Cramer di cui sapeva riproporre On The Rebound: Artisti come Roy Orbison e Cliff Richard impazzavano nella hit parade dell’epoca. Avevo l’atteggiamento di chi si crede veramente un purista del jazz. Ritenevo la pop music ok, ma non una musica valida. Jerry Lee Lewis e Little Richard non mi erano del tutto indifferenti perché cercavo di capire il loro modo di suonare, mentre gente come Cliff ed Elvis sì. Il suo primo concerto si tenne durante una cena in un circolo di tiro a segno e, nell’occasione, guadagnò la somma principesca di una sterlina! La sua ecletticità lo portava ad approfondire gli stili più svariati, dalla musica di accompagnamento che eseguiva nella scuola di danza di sua zia Wendy, al pop/rock di Georgie Fame e dei The Animals; a poco a poco perfezionò un’incredibile propensione nel cambiare genere con assoluta disinvoltura. La sua predilezione, però, rimaneva il jazz che ascoltava sul giradischi fino a impararlo alla perfezione. Cominciò a dedicarsi all’arrangiamento di composizioni di Brubeck, Shearing, Tchaikovsky e Bach, una passione che non lo abbandonerà mai.

    Keith all’epoca era convinto che il basso fosse d’intralcio alla sua mano sinistra e, pertanto, si faceva accompagnare dalla sola batteria. Quando conobbe il sound di Dudley Moore cambiò opinione: "C’erano vari jazzisti. Dudley Moore è stato uno di questi. Conduceva un famoso programma televisivo. In quel periodo suonavo lo stride piano³ perché avevo acquistato alcuni spartiti di Art Tatum e Fats Waller. All’improvviso l’ascoltai: suonava quello stile in modo fantastico. Non riuscivo a capire come facesse. Quando ho cercato di imitarlo, mi veniva fuori qualcosa simile a Fats Waller o Russ Conway con la mano sinistra e a Dudley Moore con la destra".

    Un altro punto di svolta nella formazione del giovane Keith fu determinato dalla versione jazz di My Fair Lady curata dal pianista e compositore André Previn, un disco che ascoltò ripetutamente fino a riprodurlo in maniera impeccabile.

    In seguito entrò a far parte della band locale Worthing Youth Swing Orchestra, gestita dal Worthing Council, che proponeva pezzi di Count Basie, Benny Goodman e Duke Ellington. Keith non era soddisfatto in quanto ambiva a un gruppo tutto suo. Con Godfrey Sheppard al contrabbasso e David Keene alla batteria diede quindi vita a un combo dedito al jazz con il quale inizialmente suonava in occasione di matrimoni e piccole feste: Misi su un gruppo all’interno della Worthing Youth Swing Orchestra, utilizzando il batterista e il bassista, e diedi vita al The Keith Emerson Trio. Avevo stampato anche i biglietti da visita. Il nostro primo concerto fu per una cena danzante presso un club di cacciatori. Suonammo di tutto per la paura che ci sparassero e guadagnammo l’incredibile somma di quindici scellini.

    Il luogo preferito in cui esibirsi era Brighton e, malgrado le location consistessero in misere bettole frequentate da marinai ubriachi, fu lì che germogliarono gli iniziali esperimenti di Keith con la sua prima tastiera elettrica⁴.

    Dopo aver fatto parte anche dei Black Aces, che sciorinavano brani pop da classifica, per mantenersi entrò a lavorare nella Lloyd’s Bank per cinque ore al giorno. Fu assegnato al reparto computer e costretto a indossare un camice bianco. Era un’attività che detestava, ma in fondo era contento così perché non interferiva con la sua passione per la musica che lo impegnava di notte in locali come l’Harrison Bar di Brighton. Il problema era che si presentava al lavoro perennemente assonnato e con gli occhi gonfi, tanto che il direttore, dopo due anni di stoica sopportazione, finì per licenziarlo.

    Rimasto impressionato dal suono dell’organo di Jimmy Smith in Walk On The Wild Side, Keith si prodigò in tutti i modi per procurarselo: "Gli organi erano piuttosto costosi, ma m’imbattei in un Bird con gli altoparlanti incorporati ai lati della tastiera, sembrava essere uscito fuori da una confezione di Cornflakes! Così iniziai a risparmiare per poter avere questo strumento, in quanto appariva abbastanza conveniente, e alla fine mi recai (con mio padre) per comprarlo al Portsmouth Organ Centre… Quando arrivammo, ci mostrarono in realtà un altro organo, un Hammond; dopo averlo provato, decidemmo che sarebbe stato un acquisto certamente migliore. Mio padre contribuì a mettere il resto dei soldi ed è così che entrai in possesso del mio Hammond L-100. Rimediai un furgone Bedford per spostarmi per i concerti; ero solito suonare nelle sale Bingo, Tico Tico e ogni altra sorta di spazzatura (ride). L’amplificazione era un problema: il sistema di amplificazione e le casse del L-100 non erano sufficienti. Mio padre reperì un vecchio amplificatore e lo montammo dietro lo strumento. Il suono non era ancora molto pulito e in quel periodo non sapevo dell’esistenza degli altoparlanti rotanti Leslie".

    Brighton fa da cornice anche al suo debutto con questo strumento, che avvenne in una sala bingo fruttandogli 25 sterline più cinque di mancia. E sempre a Brighton suonò in diverse occasioni, solitamente al Pop In, con una nuova band, i John Brown’s Bodies. A un loro concerto erano presenti Brian Leg Walkely e Gary Farr⁶, il batterista e il cantante dei T-Bones. Farr rimase talmente impressionato da Keith che, dopo ripetute insistenze, lo convinse a entrare nella sua formazione. E la straordinaria carriera di Emerson ebbe una svolta decisiva.

    Keith diede quindi le dimissioni dalla fabbrica di telescriventi in cui all’epoca lavorava come ragioniere contabile e si apprestò ad affrontare un breve tour in Scozia con il nuovo gruppo.

    La band andò a casa dei genitori di Keith, ha ricordato il bassista Stuart Parks, "per rassicurarli che il figlio stava andando a fare qualcosa di veramente meritevole. Ricordo che Keith promise di prendersi cura dell’organo Hammond che era parte dell’arredamento di quella casa".

    E il giovane Emerson mantenne la parola dimostrandosi meticoloso nel collocare sempre scrupolosamente l’organo Hammond – del peso di 170 chili – all’interno del furgoncino Bedford e tornando, non appena possibile, dai genitori con tanto di strumento.

    Sotto il profilo squisitamente musicale era molto più evoluto rispetto agli altri membri del gruppo, ma la sua propensione all’interpretazione dei classici creava perplessità negli organizzatori dei concerti, tant’è vero che pretendevano di essere informati su tutto ciò che il tastierista avrebbe suonato. I T-Bones, infatti, erano fondamentalmente una blues band che già vantava un singolo, intitolato One More Chance, trasmesso in radio. Keith, però, cercò sin da subito di imporre la propria personalità virando su altre musicalità. L’inclusione nel repertorio di Honky Tonk Train Blues⁷ ne è una prova palese. "Lui voleva provare a suonare Americadi Bernstein", ha aggiunto il chitarrista Winston Vince Weatherill a conferma, e noi gli dovemmo dire inequivocabilmente: Keith, stai zitto, questa è una blues band!.

    In questa fase Emerson disponeva già di una serie di piccoli microfoni che fissava intorno al pianoforte con del nastro adesivo al fine di poterlo sentire in mezzo ai suoni degli altri strumenti.

    Intanto durante questo tour scozzese iniziò a emergere il suo carattere introverso e riservato. I componenti della band, nell’imballare l’attrezzatura dopo un’esibizione, trovarono un paio di casse di birra e decisero di rubarle e celarle nel furgone. Keith era veramente agghiacciato. Ma a noi sembrava una cosa normale. Comunque gli abbiamo dato un paio di bottiglie di Coca Cola per tenerlo tranquillo, ha rammentato ancora Parks. E Weatherill ha affermato: Occorre ricordare che Keith entrò in una band di ubriaconi come me e Stuart che non pensavamo nemmeno al prossimo concerto. Tuttavia ho sempre percepito, anche allora, che lui aveva un obiettivo da raggiungere a lungo termine. E andò proprio così.

    Dal 18 novembre al 6 dicembre 1965 i T-Bones, sotto l’egida di Giorgio Gomelsky, parteciparono al Marquee Show unitamente agli Yardbirds (con Jeff Beck alla chitarra), Manfred Mann, Mark Leeman 5 (dove militava Brian Blinky Davison, futuro batterista dei Nice) e il gruppo pop satirico The Scaffold (vi suonava Michael McCartney, il fratello di Paul). Ogni band aveva a disposizione all’incirca venti minuti ed Emerson una sera, approfittando dell’assenza di Gary Farr, colse l’occasione per portare alla ribalta le proprie improvvisazioni musicali eseguendo il tradizionale spiritual con riferimenti classicheggianti Wade In The Water.

    Gary Farr & The T-Bones registrarono diverso materiale, ma con Keith solamente Rock Candy, Together Forever⁹ del popolare compositore Barry Mason e If I Had Ticket con le parti al trombone curate da Chris Barber, mentre la voce principale è di Kenneth Washington¹⁰.

    Pochi mesi dopo, agli inizi del 1966, la line up fu stravolta: Parks, Weatharill e Walkley furono rimpiazzati rispettivamente da Lee Jackson, futuro bassista dei Nice, David Cyrano Langston e Alan Turner. La neo formazione suonava spesso al Marquee Club di Londra e raccolse un certo successo esibendosi in occasione della sesta edizione del National Jazz And Blues Festival di Windsor. La cura di Emerson per il suo organo, intanto, continuava ad essere maniacale: Dopo i nostri spettacoli del venerdì al Marquee… tornavamo a casa mia alle quattro del mattino e cercavamo molto silenziosamente di sistemare l’Hammond! Il più delle volte eravamo ubriachi, avvicinavamo le dita alla bocca e camminavamo silenziosamente. Alla fine dell’anno anche Gary Farr decise di abbandonare la band, per seguire la carriera solista. I nuovi The T-Bones, con Cy Langston alla voce, durarono poco e, concluso un breve tour nuovamente in Scozia, si sciolsero.

    Keith entrò così nei The V.I.P.s – una formazione blues sotto contratto con l’Island Records¹¹ – che guarda caso stavano cercando un tastierista. Per quattro mesi, definiti folli dallo stesso Emerson, la band scorrazzò per la Germania e il sud della Francia dormendo nel furgone e vivendo in modo a dir poco spartano. Le prime funamboliche performance di Emerson risalgono proprio a quel periodo: "Ricordo che stavamo suonando in un concerto quando scoppiò una baraonda. Fu la prima volta che feci un mare di assurdità con l’organo, producendo esplosioni e rumori assordanti mentre saltavo come un forsennato da una parte all’altra! Il resto del gruppo disse che era stata una cosa grande e che avrei dovuto replicarla¹². Quando tornai in Inghilterra provai a ripetermi nel corso di un concerto e tutti mi guardarono stupefatti! Così feci in modo che sul palco lo show terminasse con me che suonavo lo strumento al contrario". Una fonte d’ispirazione in tal senso fu certamente l’organista Don Shinn: Era una persona dall’aspetto strano, veramente strano. Indossava un cappello da scolaretto, occhiali rotondi, una cosa veramente ridicola. Mi trovavo al Marquee mentre lui stava suonando… il pubblico era isterico, ridacchiava e sghignazzava. Nessuno lo prendeva sul serio. Mi chiesi: Ma chi è quel tizio?. Aveva iniziato a bere whisky servendosi di un cucchiaino da tè e faceva cose strambe. Eseguiva un arrangiamento del Concerto di Grieg, i concerti brandeburghesi e altra musica ancora. Le mie orecchie si accesero. Sembrava ci fosse qualcun altro. Suonava veramente bene e faceva scaturire un suono fantastico dal suo L-100. Ma nel bel mezzo cominciò a scuotere lo strumento facendolo cadere. Poi tirò fuori un cacciavite e iniziò a ripararlo mentre suonava. Tutti scuotevano la testa ridendo. Guardai e pensai: Aspetta un attimo! Questo ragazzo ha

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