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Falsa testimonianza
Falsa testimonianza
Falsa testimonianza
E-book287 pagine3 ore

Falsa testimonianza

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Un grande giallo italiano

Autore del bestseller Insoliti sospetti, ai primi posti delle classifiche

Palermo. Anni Novanta. Il boss Trubìa è in carcere. Al vertice della cupola ora ambisce lo “Zio” Calò Bonfiglio. Uno dopo l’altro, gli uomini di Trubìa finiscono dietro le sbarre, finché, grazie a una soffiata, a essere catturato è Schillaci, latitante e fedelissimo dello Zio. Com’è possibile? Per Giannini, maggiore dei carabinieri in forza alla DIA che indaga sui collegamenti tra politica e mafia, quell’arresto è molto strano. Tra gli elementi dell’indagine c’è anche un’assurda testimonianza: anni prima, la Pro Loco del paese ha premiato il racconto di uno studente nel quale era descritto nei minimi dettagli proprio l’arresto di Schillaci. Quando qualcuno nota la coincidenza, la casa di Rosario Di Bella, l’autore del racconto, viene messa a soqquadro, così come gli uffici della Pro Loco. Qualcuno ha costruito un castello di bugie, e a Giannini spetta l’ingrato compito di raderlo al suolo.

«Un thriller ben congegnato nel quale Toscano offre una più che riuscita prova della sua capacità di controllo dei personaggi e della storia.»
la Repubblica
Salvo Toscano
caposervizio del quotidiano «LiveSicilia.it» e condirettore del mensile «I love Sicilia», ha già pubblicato i romanzi Ultimo appello, L’enigma Barabba e Sangue del mio sangue. È stato semi finalista al Premio Scerbanenco e finalista al Premio Zocca Giovani. Con la Newton Compton ha pubblicato Insoliti sospetti e Falsa testimonianza.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2016
ISBN9788854196575
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    Anteprima del libro

    Falsa testimonianza - Salvo Toscano

    Personaggi principali

    ROSARIO DI BELLA, studente fuori sede

    FILIPPO CARDACI, suo coinquilino

    GIOACCHINO IACHINO SCHILLACI detto U Cunigghiu, capomafia latitante

    GIANNINI, maggiore dei carabinieri in servizio alla DIA

    PINO MAZZOLA, mafioso confidente

    IRENE RINALDI, ispettore della DIGOS

    TOTÒ COTTONE, maresciallo dei carabinieri

    CALOGERO BONFIGLIO detto Zio Calò, boss latitante

    FILIBERTO DI PATTI, boss della vecchia mafia

    GINO CUNTRERA, boss e killer

    MICHELE CUNTRERA detto Bobby, mafioso

    NICOLA SANTANGELO, amico di Rosario

    NINO SANTANGELO, sindaco

    MARIA CONCETTA MANCUSO, insegnante

    NINO PECORAINO, confidente

    LORENZO RUGGERI, magistrato

    PIETRO OCCHIPINTI, poliziotto dirigente della DIA

    ELIO VINCIGUERRA, poliziotto dirigente dei servizi segreti

    PAOLA GIANNINI, sorella del maggiore

    CORRADO PASSARELLA, amico di Giannini

    NICOLACI, colonnello dei carabinieri

    IL VECCHIO

    L’UOMO IN GRIGIO

    Zero

    Le stelle brillavano ancora. Solo una pennellata di luce accendeva l’orlo inferiore del cielo a est. Il giorno timidamente faceva la sua comparsa. Dalla staia scrosciava il grufolare nel fango dei maiali, un vento sottile accarezzava le frasche, qualche uccello cantava già melodie di mattino. Due mosche si intrufolarono dalla finestra che dava a occidente, scartando nervose in una danza sincopata che a tratti sfiorava la parte del suo viso che non affondava nel cuscino di paglia. Tentò di scacciarle con una manata poco convinta. Un’altra ancora, prima di cambiare posizione, accoccolandosi su un fianco, e di emettere un grugnito che parve l’eco del canto mattutino dei porci.

    Ancora ronzio, ancora il solletico sfacciato delle due intruse. Afferrò un libro che giaceva per terra e smanacciò alla cieca, fendendo l’aria senza sfiorare gli insetti. Una bestemmia soffocata accompagnò lo scatto del capo in avanti. Si sedette sul letto scostando le lenzuola con uno strappo in cui scaricò la violenza che avrebbe voluto riservare alle ospiti sgradite.

    Sbirciò fuori, dall’altra finestra, attraverso la persiana chiusa solo a metà. L’alba adesso incombeva con rapidità. Il chiarore mutò in un baleno, poi un fuoco si accese nel cielo dominando la vallata, che si risvegliava di colori e suoni antichi. Si rassegnò al risveglio generale a cui s’abbandonava con gioiosa mitezza la natura tutt’intorno.

    Balzò in piedi strofinandosi il viso irsuto con le mani callose. Per un attimo contemplò dall’alto il ventre gonfio che riempiva la canottiera lercia e bucherellata da un paio di sigarette. Una lama di luce tagliò lo stanzone in due attraverso la persiana.

    Puntò a passi decisi la porta d’ingresso. La spalancò disturbato dal consueto concerto di scricchiolii e cigolii, tirò fuori dalle mutande il membro gonfio e pisciò per terra, a pochi passi dall’uscio come era solito fare con gusto ogni santa mattina da quando gli toccava campare da animale tra gli animali in quella baracca sperduta. Coronò il rito con una flatulenza prolungata che commentò con una smorfia di approvazione. Poi, grattandosi una natica, rientrò in casa.

    Si accese la prima sigaretta della giornata rinviando la sommaria abluzione mattutina a un momento successivo. La forma di primosale ricevuta due giorni prima, nell’ultimo rifornimento di beni di prima necessità, impregnava l’aria dello stanzone ammuffito con tutta la potenza dei suoi aromi. Per un attimo ne ebbe la nausea.

    Gettò un occhio sui libri che giacevano disordinatamente per terra ai quattro angoli della stanza. Libri di mafia, saggi, una biografia di Salvatore Giuliano. Questa cosa della lettura l’aveva scoperta da latitante. Era un piacere insospettabile. L’unico scoglio a cui aggrapparsi nei giorni uguali ai giorni, tra un messaggio da scribacchiare su un pizzino volante e una borsa da preparare in fretta per cambiare covo, in mezzo al silenzio, alla solitudine, alla noia desolata che spalancava le porte ai peggiori pensieri. Che ti portava a ragionare sul come finisci così. Sulle scelte, sulle azioni, sulle omissioni. Sul prezzo che si paga. Che è poi il succo di tutto, che si parli di vita, di morte o di miracoli. È solo una questione di prezzo. Se ne era convinto ormai da tempo, e adesso, lasciata alle spalle la boa dei quarant’anni, considerava il fatto come uno di quei dati acquisiti, tipo il cielo è blu, Dio c’è, o lo sticchio è duci. Il prezzo è giusto, diceva quella della televisione. E stava tutta lì la faccenda: trovare il giusto prezzo. Perché ogni uomo ne aveva uno. Sbirri da comprare, picciotti da pagare, politici da ingrassare. Tutto stava nel pagare il giusto. Anche quando si sgarrava, il segreto stava lì, nel far pagare il giusto a ciascuno. Per questo aveva convissuto senza tanti tormenti con le morti che aveva dato, di sua mano o per mano altrui. Se l’erano cercata, avevano avuto ciò che meritavano. Avevano pagato il giusto prezzo.

    Non erano quei figli di pulla lasciati distesi per terra a sguazzare nel pantano del loro stesso sangue a scavargli solchi nello stomaco. Il prezzo sulla cui giustezza si trovava a rimuginare in momenti come quello era un altro. Quello che lui pagava. Con la sua vita da belva braccata. In quel fondaco umido e dimenticato dal mondo, tutto il potere, tutto l’onore, tutto il rispetto avevano la consistenza dei fantasmi, di favole da raccontare ai bambini per affidarli a un sonno senza incubi. Quale rispetto, quale potere, quale onore restavano nella sua latrina a cielo aperto, mentre i suoi figli dormivano lontani, senza un padre da poter salutare al primo risveglio? La mitologia della famiglia, sciorinata a bocca larga dagli uomini d’onore come lui, gli appariva, alla luce chiara di quell’alba di campagna, in tutta la sua bugiarda incoerenza.

    Buttò via il mozzicone della prima sigaretta e ne accese subito un’altra. Arrivava a farne fuori anche cinquanta al giorno, ormai. E quando era finito quasi a secco, solo pochi giorni prima, aveva vissuto una crisi di nervi che lo aveva atterrito. Schiavo e senza controllo s’era visto, uno scempio per un uomo d’onore, tanto che aveva giurato a se stesso di non ritrovarsi più a precipitare così in basso. Per mettersi al sicuro aveva ordinato al capraro di anticipare le consegne dei rifornimenti, che includevano una scorta abbondante di nicotina. I suoi avevano tentennato, non certo per timore dei suoi eccessi da tabagista, ma per la prudenza che dettava i tempi di ogni consegna, di ogni movimento attorno al casolare. C’era il fondato timore di dar troppo nell’occhio, tanto più che in quei giorni qualcuno aveva notato due o tre sbirri di troppo nelle vicinanze, o almeno qualcosa che agli sbirri assomigliava tanto.

    Lui non aveva voluto sentire ragioni, la consegna anticipata c’era stata e non era successo niente. Niente, ripeteva a se stesso mentre aspirava boccate avide, seduto al tavolo di legno ingombrato da due piatti ancora sporchi dei resti degli ultimi pasti, dal formaggio, dai pizzini scarabocchiati di cifre e appunti poco ordinati, dallo stereo con qualche cassetta taroccata di musica napoletana e da quel che restava di un «Giornale di Sicilia» vecchio di sei giorni, di cui sfruttava le pagine per apparecchiare il desco.

    I soldi, pensò. I piccioli. Quelli erano al sicuro. Più di quanto fosse lui. Era il solo pensiero capace di sollevarlo nei momenti di sconforto. Perché gira, vota e firrìa, giaceva lì il senso ultimo di tutto. E questo, ormai, i fili bianchi che si insinuavano abbondanti nella chioma crespa da africano glielo avevano reso chiaro, se mai un tempo sul punto vi fossero stati dubbi. Le punciute, i santini, l’onore e i codici, i vossia e tutto il resto, tutta scena, illusione, effetti speciali studiati per tenere in piedi lo spettacolo che si regge sui piccioli e solo su quelli.

    Perso nel flusso dei suoi pensieri, non udì subito il rumore delle automobili. Lo scosse piuttosto il volo di alcuni uccelli che abbandonarono all’improvviso il loro albero. Scattò in piedi sorpreso. Si avvicinò alla porta quasi incredulo, scostò il battente quel tanto che bastava a vedere la strada sterrata. La prima auto avanzava spedita nel turbine di un polverone denso. La seguiva una processione che gli parve infinita. Strinse i pugni e sferrò un colpo violento contro la porta, sbucciandosi le nocche. Imputò subito a quel viaggio di troppo per le buttane di sigarette la responsabilità del disastro. E si maledisse. Corse con foga disperata fino alla finestra, scavalcò dal davanzale rovinando in malo modo sul selciato. Sentì un dolore acuto al piede destro e bestemmiò per la seconda volta dal suo risveglio. L’odioso cigolio della porta lo avvertì dell’ingresso del primo carabiniere nel casolare. Corse sul retro lottando con una fitta acuta che torturava la sua caviglia, ogni passo un tormento. Ma non arrivò a farne dieci prima che due mani robuste lo afferrassero annunciandogli la fine di tutto.

    Lo rilesse per la terza volta, soddisfatto. Contò di nuovo le righe, una per una. Meno di centocinquanta, come da regolamento.

    Sorrise mentre ordinava i fogli scritti a macchina e si scusò ad alta voce con Steinbeck per l’innocuo saccheggio. Con una stilografica blu, regalo di sua nonna per la maturità classica, scrisse sforzandosi di ottenere la migliore grafia possibile:

    Rosario Di Bella, 28 settembre 1991.

    Sbirciò per un attimo l’orologio appeso alla parete. Le due di notte. Minchia, dura la vita dello scrittore, pensò compiaciuto. E con la solita precisione che si era visto rinfacciare spesso, troppo spesso a suo giudizio, come pignoleria, corresse la data sul foglio in 29 settembre. Non era un dettaglio da poco, si disse. Quel giorno, appena sbocciato, era quello del suo ventitreesimo compleanno.

    Copiò l’indirizzo dal bando del concorso su una busta, si schiantò sul letto ancora vestito e, sbottonati i jeans, ritenne opportuno celebrare il parto letterario eleggendo a musa Julia Roberts in parrucca bionda e mise da mignotta.

    Uno

    Aria immobile. Un ultimo rigurgito d’estate a guastargli l’umore. Il vecchio avvertì un fremito lungo la coscia, quasi una scossa elettrica giù fino alla pianta del piede sinistro. Maledisse l’umidità e la sciatica e continuò a passeggiare nervosamente, descrivendo traiettorie ellittiche nel buio. Un cielo coperto lo sovrastava. Lo sciabordio di fragili onde che si increspavano sui frangiflutti scandiva il ritmo dei suoi pensieri affannati. In una mano teneva i fogli arrotolati, nell’altra quel che rimaneva di una sigaretta divorata con avidità. Da lontano, in quella parte di molo sfiorata appena dalla luce del faro, la brace tra le sue dita ingiallite era l’unico bagliore che si intravedeva.

    Ancora un’occhiata all’orologio, l’ennesima. Le lancette immobili, il tempo fermo, come l’aria. Gettò via il mozzicone calpestandolo con un gesto stizzito. Con entrambe le mani distese i fogli, sforzandosi di rileggere ancora una volta le prime righe del frontespizio.

    Bisognava che le cose fossero fatte bene, con criterio. Quelli lavoravano troppo con la fantasia, forse, ma potevano anche avere ragione. Ed era meglio non suscitare altre curiosità. Volare basso, rasente terra. Il motto di una vita, per lui. Strisciare sotto il filo spinato piuttosto che arrischiarsi a saltarlo. Chi striscia non inciampa, aveva sentito dire una volta. E non l’aveva più dimenticato. Ripassò a memoria quelle parole inghiottite dal buio e un sorriso compiaciuto gli increspò il viso raggrinzito, sporcato da un’ombra di barba rasata male.

    Funziona. Sì, può funzionare, si disse per la centesima volta. Ritenne opportuno ribadire tale conclusione con un’altra sigaretta. Armeggiò col pacchetto di ms bloccando i fogli, nuovamente arrotolati, sotto l’ascella. La minuscola vampa dell’accendino d’oro gli svelò la sagoma ormai a pochi passi da lui.

    Il vecchio, che tanto vecchio poi non era, avvertì l’effluvio dolciastro della colonia prima ancora che il suo sguardo definisse i lineamenti dell’uomo di fronte a lui. Uomini che si profumano, cose di garrusi, sentenziò nei suoi pensieri, tendendo la mano per salutare. Ma la stretta dell’uomo non ebbe nulla di effeminato. Fu decisa e rapida, così come dev’essere, si disse il vecchio.

    Dalla tasca interna dell’abito grigio, l’uomo, che lo sovrastava di quindici centimetri buoni, estrasse un pacchetto di sigarette ancora intonso. Strappò la plastica e l’appallottolò facendola sparire nella tasca destra dei pantaloni stirati di fresco. L’accendino d’oro del vecchio gli illuminò per un attimo il volto, squadrato e avaro d’espressione.

    I fogli passarono di mano nel silenzio.

    L’uomo distolse gli occhi dal vecchio e rivolse lo sguardo al velluto nero del mare che si univa al cielo, macchiato qua e là da minuscole luci di barche in lontananza. Ritto e immobile in una posa militaresca, il vecchio lo associò a una delle aste delle bandiere del molo. Lo affiancò, lo sguardo perso nel buio, fino all’ultima boccata. Lanciò la cicca verso il mare con un colpo secco assestato con l’indice, seguendo il disegno che la minuscola vampa tracciava nel buio.

    «Vedremo», uscì infine dalle labbra sottili dell’uomo, come uno sbuffo.

    «Un’ispirazione… diciamo così», bofonchiò il vecchio.

    «Lei è convinto dell’utilità dell’operazione?», domandò l’uomo senza guardarlo, e nel chiedere conto della robustezza della convinzione altrui svelò la fragilità della propria. Non era nel personaggio, pensò il vecchio.

    «Può essere una cosa utile. Certuni staranno tranquilli per un po’. L’aria s’è fatta troppo pesante, su tutte e due i fronti. I giornali, i comunisti, i magistrati, chi li tiene più… e anche le famiglie cominciano a essere stanche. Ci sono stati impegni non mantenuti e la situazione può scappare di mano. Ma lei questo lo sa meglio di me».

    L’uomo accanto a lui annuì in silenzio. Un insperato refolo di vento li accarezzò. Il vecchio lo accolse come una benedizione. L’uomo in grigio sembrò non farci caso.

    Due

    In cima alle scale si fermò a studiare l’espansione della macchia di umidità che stava divorando la parete del pianerottolo. I primi giorni di novembre erano stati piovosi. Pioggia in tutte le salse, scrosciante di quelle che finiscono per trascinare immondizia e intasare i tombini, intermittente di quelle che ti fottono quando sei uscito senza contromisure perché l’acqua è l’ultima cosa che t’aspetti, fine fine e prolungata, ad assuppa viddano, cioè di quel tipo che manco la senti lì per lì e quando rientri a casa sei fradicio come un pulcino. Da quasi sette anni abitava a Palermo e aveva ormai chiaro come la città desse il peggio di sé nei rari giorni di pioggia. I palermitani maledicevano l’arsura quando d’estate toccava armarsi di bidoni perché si finiva puntualmente a secco, ma in inverno e peggio che mai in autunno, quando dal cielo veniva giù quell’acqua preziosa sapevano incazzarsi anche di più, vagavano disorientati come pesci guizzati fuori dal mare, smarriti in un habitat ostile, i motorini restavano al palo, le strade si saturavano di automobili e improperi, il traffico impazziva e i clacson vomitavano decibel a ogni punta cantoniera, un inferno di tanfo, gas e fracasso che sarebbe risultato insopportabile a chiunque.

    In quei giorni, poi, le strade, già laide e massacrate da fossi d’ogni sorta e misura, s’erano fatte ancora più sporche e caotiche per il delirio elettorale. Manifesti e locandine con improbabili faccioni tappezzavano ogni centimetro disponibile di muro, volti impresentabili appiccicati alla meno peggio ad ogni angolo di strada fissavano i passanti proponendo slogan di sconcertante banalità che accompagnavano vecchi e nuovi simboli. Accanto ai tradizionali scudi crociati, edere e garofani avevano fatto la loro comparsa una serie di sigle e simboli nuovi di zecca, a cui qualcuno cercava di aggrapparsi per salvarsi dal naufragio dei vecchi partiti, massacrati da un anno di arresti, scandali, processi in diretta TV. Per la prima volta, in quell’autunno del 1993, i palermitani potevano scegliersi il sindaco in cabina elettorale e la novità dava a tutto il consueto circo della campagna elettorale un tocco di originalità degno di nota.

    Nella buca delle lettere Rosario aveva giusto raccattato il solito mucchietto di facsimile, imponendosi con senso civico di non riporli nel contenitore comune a cui gli altri condomini avevano già destinato i propri, ossia il pavimento dell’androne della palazzina, ridotto a una variopinta pattumiera. Li aveva messi nella tasca del giubbotto dove adesso cercava, con scarso successo, le chiavi di casa. Esplorò l’altra tasca invano, poi toccò a quelle dei jeans e al quarto tentativo le trovò.

    Dentro casa lo accolsero un odore intenso di pasta al forno e il consueto volume troppo alto della televisione. Filippo, stravaccato sul vecchio divano nella cucina-soggiorno, contemplava la TV con aria concentrata. Sullo schermo una biondina adolescente fissava la telecamera con gli occhi da gatta e invitava la sua audience, che Rosario immaginava composta da due milioni di cloni del suo coinquilino, a telefonare per indovinare il nome di sua nonna, garantendo ricchi premi al primo che avesse trovato la fatidica soluzione.

    «Non hanno ancora indovinato come minchia si chiama ’sta nonna?», domandò Rosario dal corridoio tirando dritto verso la sua stanza. Non ottenne risposta. Sistemò la sua roba in camera, gettò i facsimile nel cestino sotto la scrivania, si tolse le scarpe come sempre non appena rientrava e a piedi scalzi entrò in gabinetto per dar sfogo alla vescica dopo otto ore buone.

    Tornato in cucina appurò che Filippo non si era mosso di un millimetro.

    «Allora, Filì, come finì con ’sta nonna?»

    «Compà, io non lo capisco perché questa invece di parlarci dei parenti suoi non la fa finita e si leva le mutande… non pensi che renderebbe lo show molto più interessante?»

    «Ah, perché così non è interessante? E allora com’è che ogni giorno ti trovo qua a mangiarti il cervello?»

    «Rosà, ma guardale… guardale, compà», indicava con entrambe le mani la pletora di ninfette in completini variopinti che affollavano gli studi e lo schermo, e sulle quali il regista indugiava tra un primo piano e l’altro della gattina nipote della vecchia dal nome misterioso.

    «Le guardo, Filì, le guardo».

    «Ma tu ci pensi a stare lì in mezzo? Che ci deve essere, il burro… compà, quella è vita. No io e te, qua, in questa munnizza di città. Ma se mi riesce…».

    Filippo vagheggiava da sempre, o almeno da quando Rosario aveva memoria, di una sua fuga in continente alla ricerca di migliore fortuna. Nella sua personale mitologia, oltre lo Stretto, da qualche parte tra Roma e Milano, prosperava una terra imperitura di grandi occasioni e sublimi scopate, che Filippo evocava periodicamente ripromettendosi di raggiungerla alla prima occasione utile, per lasciarsi alle spalle l’isola che nella migliore delle ipotesi apostrofava come munnizza. Ma a venticinque anni compiuti, gli ultimi sei dei quali trascorsi alla facoltà di Ingegneria con soli sette esami raggranellati sul libretto, il grande salto al di là del mare non c’era stato. E a dar ascolto alla buonanima del principe, dopo i vent’anni i siculi piantano radici ed è troppo tardi perché se ne vadano per scelta, ricordava bene Rosario, che quella pagina del Gattopardo conosceva a memoria poiché vi riteneva custodite dogmatiche verità.

    Coetanei, cresciuti nello stesso paese, stessi banchi di scuola, stesse partite nelle stesse strade o in campetti sterrati dove lasciavi brandelli di ginocchia a ogni ruzzolone, Rosario e Filippo si conoscevano a memoria e soprassedevano con indulgenza di fronte agli altrui limiti, esercitati alla pazienza che sta alla base delle amicizie durature. E non sarebbe stato certo Rosario, pertanto, a porre l’amico di fronte alla dura realtà, accostando l’uscita di sicurezza delle sue fantasticherie.

    «Se ti riesce che?», gli diede generosamente il la Rosario, afferrando una bottiglia d’acqua dal frigo.

    «Cambio aria, compà. È la volta buona, non mi fregano più. Non l’hai sentito Nicola ieri sera?».

    Sì, forse lo aveva pure sentito. Senza ascoltarlo, però, come di solito gli capitava quando Nicola toglieva la sicura alle minchiate e cominciava a spararle grosse. Era fatto così e pure lui Rosario era solito assecondare, limitandosi a non interrompere i suoi soliloqui di sicilianissima vacuità, senza però imporsi l’ulteriore sforzo di prestarvi attenzione. Anche perché sapeva bene che a quelli come Nicola piaceva più ascoltarsi che essere ascoltati. Non era un cattivo ragazzo, in fondo l’appartamentino in affitto a due soldi l’aveva rimediato lui ai due compaesani, grazie alle conoscenze del padre, democristiano e sindaco di lungo corso del paese.

    Abitava altrove, Nicola, un appartamento tutto per lui, in una zona meno sfasciata della città. Dove da qualche tempo però aveva preso casa un magistrato di quelli ultra scortati, con conseguente comparsa di zone rimozione a tappeto che avevano disturbato alquanto le abitudini quotidiane dell’amico, costretto a peripezie da girone dantesco per trovare un parcheggio

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