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Non muoiono le api
Non muoiono le api
Non muoiono le api
E-book443 pagine5 ore

Non muoiono le api

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Info su questo ebook

Con la prefazione di Nicoletta Vallorani
 
Anna ha tutto: un buon lavoro, una famiglia amorevole, una bella casa con un giardino dove sua figlia Andrea gioca serenamente e osserva curiosa qualche ape superstite. Leonard vuole diventare giornalista, ma vive chiuso nella bolla del suo lussuoso appartamento in un quartiere elitario.
La loro è una vita perfetta, almeno fino a quando un nemico sconosciuto si rivela con un attacco hacker che getta nel pericolo l’intero paese: è l’inizio della guerra, un concetto ormai quasi dimenticato dalla società. Reclutata insieme a tutta la popolazione adulta, Anna finisce nei centri di mobilitazione allestiti dagli alleati per formare un nuovo esercito. La piccola Andrea sfugge all’arruolamento, ma deve sopravvivere nascosta in casa insieme alla nonna. E intanto Leonard scopre che il privilegio non vale nulla senza la conoscenza.
Anna, Andrea e Leonard vivevano a loro insaputa in un’epoca che ha rinunciato alla propria memoria storica, e devono trovare nei legami con il passato e nelle persone che amano la forza per lottare, così da costruire un mondo in cui le api vivono ancora.
LinguaItaliano
Data di uscita9 giu 2021
ISBN9788831982320
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    Anteprima del libro

    Non muoiono le api - Natalia Guerrieri

    Non muoiono le api

    © Natalia Guerrieri

    Illustrazione di copertina a cura di Marino Neri

    Logo Moscabianca Edizioni realizzato da Veronica Carratello

    Editing a cura di Andrea Viscusi

    © 2021 Moscabianca Edizioni

    ISBN 978-88-319-8232-0

    www.moscabiancaedizioni.it

    info@moscabiancaedizioni.it

    Non muoiono le api

    Indice

    Il sasso e la valanga. Prefazione di Nicoletta Vallorani

    Parte prima

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Parte seconda

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Capitolo 77

    Capitolo 78

    Capitolo 79

    Capitolo 80

    Capitolo 81

    Capitolo 82

    Capitolo 83

    Capitolo 84

    Capitolo 85

    Capitolo 86

    Capitolo 87

    Capitolo 88

    Capitolo 89

    Capitolo 90

    Capitolo 91

    Capitolo 92

    Capitolo 93

    Capitolo 94

    Capitolo 95

    Capitolo 96

    Capitolo 97

    Capitolo 98

    Capitolo 99

    Capitolo 100

    Capitolo 101

    Capitolo 102

    Capitolo 103

    Capitolo 104

    Capitolo 105

    Parte terza

    Capitolo 106

    Capitolo 107

    Capitolo 108

    Capitolo 109

    Capitolo 110

    Capitolo 111

    Capitolo 112

    Capitolo 113

    Capitolo 114

    Capitolo 115

    Capitolo 116

    Capitolo 117

    Capitolo 118

    Capitolo 119

    Capitolo 120

    Capitolo 121

    Capitolo 122

    Capitolo 123

    Capitolo 124

    Capitolo 125

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Il sasso e la valanga

    Prefazione di Nicoletta Vallorani

    Non muoiono le api, per come la vedo io, racconta la storia di come un sassolino cominci a rotolare lungo un pendio innevato e in un tempo ragionevolmente breve si trasformi in una valanga. È anche un romanzo che a un certo punto, molto precoce (tipo dopo una ventina di pagine), mi ha fatto provare il desiderio irresistibile (e forse sano) di buttare via il cellulare e staccare tutte le connessioni. E infine è una storia che fa quel che deve fare la buona letteratura di fantascienza (e l’uso del termine letteratura è del tutto deliberato): sollevare alcuni problemi di consapevolezza, in bella scrittura.

    Nella struttura generale, Guerrieri raccoglie l’eredità di molte narrazioni distopiche nobilissime, a cominciare da quel Nineteen-Eighty-Four orwelliano così spesso evocato come un archetipo e altrettanto spesso dimenticato nel suo essere sapientemente ottenuto attraverso un processo di estrapolazione dal reale. La Londra di guerra, con i suoi edifici deteriorati, le strade ancora invase da detriti e la puzza di cavolo che penetra in ogni dove, è un setting del tutto reale nel quale accade qualcosa di orribile e di (ancora) irreale: il consolidamento di una tirannia i cui strumenti non sono prodigiose tecnologie inesistenti e neanche strategie di potere ignote. Orwell, semplicemente, ragiona sul presente, modificando molto poco e solo quel che è indispensabile per consentire al lettore di comprendere quanto sia breve il passo dalla sicurezza dell’oggi al dispotismo di domani, o domani l’altro. In termini di strategia narrativa, Atwood replica il medesimo modello, e lo fa dichiarandolo anche: «Tutto quello che io racconto», dice in più occasioni, riferendosi in particolare a Il racconto dell’ancella, «è già accaduto in qualche luogo, in qualche tempo e a qualcuno di noi».

    Questo gioco distopico di rifrazione per così dire circolare è il cardine dell’intreccio che viene proposto nel romanzo di Guerrieri, e, come spesso accade, la realtà si diverte a inseguire dettagli che per certo l’autrice ha pensato solo come ipotesi. L’innesco della vicenda, per esempio, sta nell’improvviso malfunzionamento della rete di connessione globale – Nuvola – che ha una penetrazione capillare e una gestione centralizzata. Ed è di questi giorni (marzo 2021), nel mondo reale, il blocco di WhatsApp, Instagram e Messenger che ha precipitato una quantità di utenti nel panico da isolamento. Guerrieri si spinge un passo più in là, seguendo però il medesimo meccanismo e mantenendo una plausibilità assoluta e la coerenza riconoscibile con le forme del nostro reale.

    Nel mondo non troppo futuro di Non muoiono le api, Nuvola è l’entità padrona, che fornisce diagnosi mediche e scodella informazioni. La si usa per ordinare cibi, seguire lezioni, raccogliere dati, lavorare, convocare a riunioni, comprare qualunque cosa e partecipare a competizioni (soprattutto quelle). È quietamente invasiva e impercettibilmente tiranna. Pilota tutto, ma con strategie invisibili. Rende schiavi gli utenti, convincendoli di essere padroni. Il concetto centrale è: si può fare a meno di Nuvola, ma perché si dovrebbe? È così comoda, e si prende cura di ogni cosa, risparmiandoci la fatica di usare le gambe. E la testa. Sa che cosa desideriamo e ce lo propone prima ancora che iniziamo a desiderarlo. E non si arrende finché non ottiene una nostra risposta.

    Così si articola, in modo linearissimo, la configurazione dell’ipotetica rete immaginata nel romanzo di Guerrieri. E personalmente non sono terrorizzata dall’invenzione in sé – che molti definiranno prevedibile e persino scontata (sebbene non lo sia affatto) – ma dalla sensazione di familiarità che mi ha trasmesso questa parte iniziale della storia, perché essa deriva dalla consapevolezza che tutto questo sta già accadendo, e non è in alcun modo materia futura.

    In altri termini, lo sappiamo già, anche se ci piace farcela raccontare come un’ipotesi futura: il meccanismo di controllo delle nostre opzioni esiste già. E nulla logora lo spirito critico più dell’impressione di una scelta che in realtà non c’è, e che quindi non si paga mai, come si dovrebbe, con una assunzione di responsabilità.

    Da questo punto di vista, quel che Guerrieri racconta funziona con le stesse regole di straniamento cognitivo che troviamo, per esempio, in Il cerchio (Dave Eggers, 2013), e prima di allora anche in Microservi (Douglas Coupland, 1995). Però è una distopia, e dunque si spinge oltre, delineando alcuni rischi possibili e mettendoli in atto nella narrazione. Difficile ignorare la lezione di Orwell in questo sviluppo. L’evocazione dell’oppressione esercitata dal teleschermo si evolve qui in una tecnologia sofisticata che tuttavia funziona sulla base del medesimo meccanismo: la diffusione di informazioni manipolate, il totale controllo di movimento e comunicazione, l’effetto gregge incoraggiato dalla diffusione del panico (e anche questo sappiamo bene che cosa significa). La sfida, in un contesto così concepito, è quella di riuscire a raccontare le piccole storie, ovvero quel che accade alla gente comune quando bruscamente tutto cambia.

    Guerrieri lo fa scegliendo tre voci e frantumando in questo modo la tranquillizzante omogeneità di una narrazione unica. È un atto di coraggio strutturale che funziona benissimo e moltiplica felicemente le prospettive della storia. Gli sguardi attraverso i quali si vede il mondo cambiare sono differenti per età, genere e appartenenza di classe.

    C’è Andrea, la prima a occupare la scena, con un capitolo brevissimo e saettante. I suoi cinque anni misurano il mondo in termini di presenze e assenze, applicando la struttura del gioco alla comprensione del reale. Gli affetti umani somigliano al legame con i suoi giocattoli preferiti – la tigre e l’orso – e tuttavia il suo istinto la induce in breve tempo a comprendere quanto sia più fragile la vita umana di quella delle cose. Andrea si accorge presto che tutto è cambiato e anticipa tutti nella comprensione del fatto che la natura resiste al cambiamento e sopravvive, a dispetto e anche senza la collaborazione del genere umano.

    Poi c’è Anna, quietamente madre e al tempo stesso figlia di una madre anziana. Fragile solo in apparenza, indifesa soltanto per definizione, Anna sfodera una capacità di resistenza insospettabile, nascosta e femminile, nel senso che essa si esprime nella cura ostinata delle persone anche nei contesti e nelle situazioni nelle quali questa cura è impossibile. Il suo è il percorso più complicato, scandito da tappe che si tracciano sul suo corpo e lo segnano, rendendolo in parte irriconoscibile e simbolicamente e praticamente molto diverso da quello che era.

    Che è poi quel che sempre accade alle donne.

    Infine, c’è Leonard, che odia la grande città pietrificata, ama Kaleb, vuole fare il giornalista e ha un rapporto complicato con suo padre. Leonard è un ponte e uno strumento di transizione. È il primo a offrire una rappresentazione attendibile della città fatta di luoghi anonimi, misteriosamente identici nella loro cifra di benessere, dove tutti abitano, felici e sedati, fino al momento del disastro. Ma è proprio a Leonard che la città si rivela segretamente dotata di memoria nelle biblioteche conservate per dimenticanza, nei musei chiusi ma non distrutti o nei quartieri rimasti com’erano perché abbandonati. Nulla si cancella mai veramente, e da queste tracce, forse, è possibile ricostruire una forma diversa di stare al mondo.

    Da tutti i personaggi emerge anche una necessità corale che sta nell’improvviso rendersi conto dell’inconsapevolezza come fragilità, una debolezza che consente a forme di potere dispotico di affermarsi in modo spesso silente. L’inconsapevolezza è il vero garbuglio che le piccole comunità resistenti delle cittadelle cercano di portare alla luce, non tanto per dipanarla, ma per esibirla come difficoltà da aver sempre presente per diventare capaci, come scrive Donna Haraway, di vivere con il caos (Staying with the Trouble, 2016). Si tratta, insomma, di prendere coscienza della presenza immanente del caos in un universo in apparenza ordinato. E a questo universo appartengono anche api e fantasmi, animali resistenti e presenze intangibili.

    Quest’ultima è forse la novità poetica più interessante del romanzo di Guerrieri: la relazione differente che i personaggi stabiliscono con l’essere vivi. Andrea, che è la prima a vedere i cerchi di luce e profili familiari, è una piccola fiammiferaia distopica che impara ad accendere il cerino dell’assenza per consolarsi di quello che non riesce a comprendere o ad accettare. Per questa strada, lei come altri personaggi si riconcilia con quel che ha perduto e con quello che non può ottenere. E per questa strada, diventa grande.

    Alla fine dei conti, Non muoiono le api, come tanta buona letteratura di fantascienza, racconta di quello che stiamo vivendo, non nei fatti ma nel metodo, nel processo. Racconta la facilità con cui si passa dalla vita normale alla condizione di schiavi. E racconta che magari, per salvarci, si ha solo bisogno di procurarsi in autonomia gli strumenti per capire quel che ci accade, per evitare che il sassolino, appunto, diventi una valanga.

    Agli occhi grigi dei nostri fantasmi,

    perché il loro ricordo risplenda.

    E qui assistono a un prodigio improvviso e mirabile a dirsi:

    per le carni imputridite in tutto il ventre dei buoi

    stridono api, e infrante le costole fervono fuori,

    e si estendono immense nubi e già confluiscono

    al sommo d’un albero, e pendono a grappoli dai flessibili rami.

    Virgilio, Georgiche, Libro iv, 554-558.

    PARTE PRIMA

    1

    Leonard

    Odio la capitale, con questi palazzi tutti uguali, colate di asfalto e cemento. Non c’è un albero. Mio padre aveva detto che il governo avrebbe costruito parchi e aree verdi. Io però vedo soltanto materia inorganica, che immagazzina e trasmette calore.

    L’atmosfera non mi dà respiro. La suite regola automaticamente l’aria condizionata facendo una stima tra la mia temperatura corporea rilevata dal phone, il clima esterno e non so quali altri parametri, ma sta di fatto che per me è sempre troppo fiacca, e né i vari aggiornamenti né il form che ho compilato per le segnalazioni sono serviti a nulla.

    Mi manca M, dove ancora esistono alberi, prati, e la campagna tutt’attorno è più estesa dell’area urbana. Gliel’ho chiesto più volte, se possiamo tornare, ma lui ha sempre evitato di rispondermi. La nostra vecchia casa gli ricorda lei.

    Guardo oltre il vetro e vedo solo il colore grigio, per chilometri. Dentro, invece, predomina il bianco, se non fosse per il logo azzurro della company che ha finanziato tutto questo e che è ovunque: sulle pareti, sul divano, sul soffitto.

    Mi siedo sul sofà che sovrasta la grande città pietrificata e rileggo l’ultimo pezzo che ho scritto. Uno dei siti con cui collaboro mi ha chiesto un articolo sul nuovo servizio di consegna con Nuvola, che può portarti a casa qualsiasi cosa che deduca tu voglia, senza nemmeno bisogno di ordinarla. Aspettiamo di provare se il servizio funziona. Ecco, c’è un ordine in sospeso: lo apro. Voglio ricevere un gustoso piatto di spaghetti per pranzo? Posso cliccare o no. Sì, certo che lo voglio, è proprio ciò che stavo pensando stamattina… Il mio ordine è in arrivo tra undici minuti. Guardo l’ora, forse è un pelo presto ma va bene, accetto.

    Sento la porta che si apre e mi volto. Mio padre si fa avanti, le ampie spalle ricurve e la fronte sudata. Il suo completo costa moltissimo, come le scarpe e il phone. Passa lo sguardo su ogni oggetto nella stanza prima di arrivare a me.

    «Ciao, sono tornato».

    «Lo vedo, papà».

    «Sì, già. Ecco… Ma tra un minuto devo connettermi per un meeting».

    «Certo».

    Nella suite, mio padre vive e lavora allo stesso tempo, grazie agli enormi phone a parete, uno nel suo studio e l’altro qui in sala da pranzo, proprio davanti a me. Annuisce e fa per scomparire in corridoio.

    «Papà?»

    Torna indietro. Ultimamente ha davvero un pessimo aspetto.

    «Vuoi qualcosa da mangiare?»

    Guarda l’ora sul phone, come se si fosse dimenticato dei pasti.

    «Sì. Grazie. Magari».

    «Cosa ordino?»

    Ci pensa qualche secondo.

    «Non lo so».

    Si richiude la porta alle spalle mentre comando: «Hamburger». So che li ama anche se non dovrebbe mangiarli, per via della carne eccetera. Oggi però avrà un bell’hamburger per pranzo. Tempo di consegna: tre minuti. Lo sento parlare nell’altra stanza, strilla perché ha sempre timore che il phone non recepisca i comandi.

    «Ehi, Leo…»

    Si è aperta una videochiamata.

    «Ehi, ciao. Dove sei?»

    Kaleb si guarda intorno, indossa una t-shirt spiegazzata e un cappellino con la visiera.

    «Agli uffici della frontiera».

    «Di nuovo?»

    Annuisce, ha le labbra screpolate.

    «Ti avrei accompagnato».

    «Nah, non c’è bisogno».

    Suonano al citofono.

    «Scusami un momento».

    Rimanendo in chiamata, ritiro il pacchetto caldo e torno a sedermi sul sofà.

    «Wow. Spaghetti, eh?»

    «Tu hai mangiato qualcosa?»

    «Scherzi? È prestissimo ancora».

    Sento di nuovo il rumore del citofono.

    «Scusami».

    Mi alzo e torno alla porta. Il rider ha una mano fasciata e lo sguardo stremato. Mentre percorro il corridoio, Kaleb mi fa notare che ho due gambe e potrei uscire a comprarmi il cibo da solo.

    «Con questo caldo? Si muore anche qua dentro!»

    Busso alla porta dell’ufficio di mio padre.

    «Papà?»

    Lo sento continuare a parlare al phone, apro la porta di qualche centimetro e appoggio il suo pranzo per terra.

    Torno in sala da pranzo.

    «Il signor Buselli è a posto ora?»

    «Smettila».

    Mi sporco la maglietta con il sugo, subito. Kaleb scoppia a ridere, i suoi denti bianchissimi a contatto con le labbra carnose, che si arricciano nel sorriso, mi fanno uscire di testa.

    «Ti amo», gli dico.

    Non risponde mai anch’io, anche se so che è così.

    «Devo andare».

    Dietro le sue spalle, una fila di persone si accalca davanti a un ingresso.

    «Mi chiami dopo?»

    «Sì».

    Nuovo servizio di consegna senza selezione con Nuvola: cinque stelle. Invio l’articolo. Comando: «Notizie nel mondo» e mi metto comodo mentre il phone della sala inizia la ricerca.

    2

    Andrea

    Usciamo dal supermercato, io e la mamma con il carrello. Abbiamo comprato tutto il cibo della lista, ma il lievito no.

    «La nonna non sarà contenta», dico.

    Piove molto forte e ci arriva l’acqua addosso, è calda e sporca. Quando siamo entrate non pioveva.

    «È meglio tornare a casa, Andrea. È un piccolo tornado».

    Io ne ho già visti tre: uno è questo qui, uno l’ho visto dalla finestra della cucina e un altro quando io e il papà una volta siamo andati in bici al parco. La mamma mi mette una mano sulla testa, ha il profumo dello zafferano, è un profumo caro che le ha regalato il papà.

    «Sali in macchina».

    Apre la portiera davanti e mi carica su, mi mette la cintura anche se siamo ancora ferme. Ha i capelli tutti stropicciati.

    «Ti aiuto a rimettere via il carrello?»

    Da dietro al vetro non mi sente, apre il baule e ci carica tutte le buste. Il vento entra nella macchina e dei pezzettini di cose si appiccicano da tutte le parti.

    «Mamma?»

    Le sale su il vestito, le si stacca la maschera dalla faccia ma la prende e se la rimette. Porta via il carrello e torna tenendo la gonna giù. Poi entra in macchina e si siede vicino a me.

    «Cos’è quella?»

    Mi prende una cosina dalla maglietta, io non me ne ero accorta. È gialla e nera. È un’ape, io le riconosco perché alcune sono arrivate sotto al tetto della nostra casa. È morta. La mamma tira un po’ giù il finestrino e la butta fuori.

    Mette in moto, ma poi vediamo un carrello che va veloce spinto dal vento e si ribalta. La mamma spegne la macchina.

    «Aspettiamo che finisca. È più prudente. Qui il supermercato ci ripara. Va bene?»

    «Sì».

    «Hai paura?»

    «No».

    Mi prende la mano e me la stringe.

    «La tua mano è piccolissima», me lo dice sempre tutte le volte.

    «Lo so, mamma».

    «Il tuo naso è carinissimo».

    Mi bacia sul naso. Le prendo la faccia con le mie mani.

    «La tua faccia è grandissima».

    Appoggiamo la fronte contro la fronte.

    «La tua faccia è carinissima», le dico.

    Casa nostra è abbastanza vicina. Mentre ci andiamo, vediamo dei rami per terra, un cassonetto rovesciato, un palo storto. La mamma gira a sinistra. Il papà ci vede dalla finestra e viene a scaricare. Mentre portiamo le buste in casa, il vicino che tira su le foglie cadute con l’aspiratutto ci guarda e fa di no con la testa, perché fare la spesa non è vista come una cosa buona. I poveri fanno la spesa. Quelli che non hanno niente da fare. E poi è pericoloso per le malattie. Io e la mamma però ogni tanto ci andiamo, il sabato, per fare una cosa diversa. E poi perché la mamma dice che così imparo delle cose che mi possono servire.

    Portiamo tutto dentro. La nonna ci guarda e mi sorride dalla sedia che si muove. Io vado da lei, le schiaccio la faccia sulla pancia.

    «Ci siamo dimenticate il lievito».

    La nonna fa un sospirone di uffa e guarda la mamma con il broncio.

    «Va bene. Fa lo stesso».

    Mi scompiglia i capelli.

    Il papà ha preparato la pizza, lo capisco dall’odore. Vado in cucina e guardo dentro il forno. Sta crescendo, ma la pasta è ancora molle e bianca. Dopo ci mette il pomodoro. Lui e la mamma portano giù, nella dispensa, le cose della spesa che si conservano a lungo, come per esempio il vino e la birra, le scatole di legumi, le noci da schiacciare, il riso e la pasta. Poi mettono nel frigorifero i formaggi, l’insalata, le mele e il cavolo.

    Io apparecchio. La nonna ha il suo posto in cima al tavolo così ci sta con la sua sedia. Il papà fa partire la musica dal suo phone nella casa. Lui e la mamma ballano una canzone, la nonna ride con la sua vocina che scricchiola. Anche io ballo, mi prendono in braccio e mi fanno volare.

    Suona il drin del forno, la pizza è cotta. Ci mettiamo a tavola.

    «È superbuona, papà».

    «Lo so, ho seguito un corso di cucina di venti ore!»

    La mamma ci mette il sale e lui si incavola.

    «Perché ci aggiungi il sale?»

    «Mi piace».

    «Fa male, lo sai».

    La mamma però se ne frega.

    «La tagli da sola, Andrea?»

    «Sì, ci riesco».

    La nonna fa un po’ fatica ma alla fine ci riesce anche lei, non vuole che gliela tagliano la mamma o il papà.

    «Anche io voglio fare da sola quel poco che riesco a fare. Come Andrea».

    Le piace la pizza, ma deve bere molta acqua per mandarla giù.

    «Hai usato quella nuova farina biologica che ho ordinato la scorsa settimana?» chiede la mamma.

    «Sì».

    Vogliono sempre mangiare le cose biologiche perché le altre hanno molti veleni, ormai lo so, oppure sono un po’ finte e noi non le vogliamo.

    «Costa tantissimo», dice il papà.

    «Be’, lavoriamo per questo, no? Per mangiare decentemente».

    Mangiare decentemente è una cosa importante ma non è facile, non è che puoi andare al supermercato e prendere qualsiasi cosa. Tipo, la carne non la prendiamo quasi mai. Solo nelle eccezioni. Fa molto male, infatti se ne mangi tanta poi ti ammali. Come anche le cose chimiche, le cose non biologiche e le cose non decenti.

    Dopo mangiato, ci mettiamo tutti nella sala. L’albero di amarene del nostro giardino profuma, ha tutti i fiori sopra. Con il vetro aperto si sente molto bene ma la nonna non può perché lei non sente gli odori, si è presa una malattia al naso tanti anni fa, prima che io nascevo.

    «Dimmi di cosa sa, Andrea».

    «È come i biscotti, il profumo della mamma e la maglietta del papà ma tutti insieme. È buonissimo».

    «Ancora, ancora, per favore».

    «È anche come lo zucchero».

    «Meno male che ci sei tu, che mi fai sentire le cose».

    Anche le gambe non funzionano più, ma perché è vecchia. Le piace sempre quando io le dico gli odori.

    «E tu di cosa sai? Vieni qui».

    Vuole fare finta di annusare ma io le dico di no perché invece vado sul divano fra la mamma e il papà e sto benissimo con loro, sto benissimo così.

    3

    Anna

    L’estate sta per arrivare. Per fortuna abbiamo un giardino sul retro, dove Andrea può giocare al sicuro tra l’amareno e le ortensie, anche se lo spazio non è molto. Telefono alla madre di Elena per chiederle se la bambina vuole venirci a trovare oggi pomeriggio. La sua voce tentenna.

    «Ci sono i nonni da noi, oggi. Elena non può, sarà per la prossima volta».

    Scorgo la testolina di Andrea attraverso la porta aperta che dà sul giardino e mi si stringe il cuore.

    «Va bene, arrivederci».

    Stefano sta lavorando sul divano, con il phone fra le mani. Mi guarda come per dire: non posso. Annuisco. Mia madre sonnecchia, verifico le ultime notifiche sul mio phone e rispondo a tutte il più velocemente possibile. «Andrea, ora viene la mamma a giocare con te».

    Mi basta finire di inviare un paio di messaggi ai clienti di alto profilo per conto della Garden River Plus. Negli ultimi anni stiamo avendo una crescita esorbitante: ognuno porta in palmo di mano il fazzoletto di verde che è riuscito ad accaparrarsi a caro prezzo e le company come la nostra, che si occupano di articoli da giardino, sono fra le più ricche. Gli altissimi livelli di gradimento che ho ricevuto dai clienti il mese scorso mi sono stati convertiti in pause di tempo bonus da usare con la famiglia.

    Andrea sta muovendo i suoi animali sull’erba. Non esistono più giocattoli del genere, glieli abbiamo regalati noi. Alcuni erano miei, altri di Stefano. La decisione di non liberarcene è stata provvidenziale, perché sono i giochi che preferisce in assoluto.

    «Che animale sei tu, mamma?»

    «Non saprei… un gatto?»

    Andrea mi squadra con la testa inclinata, non è convinta.

    «Mmmh… fammi pensare. Un criceto?» provo.

    «Tu sei molto più forte di un criceto».

    Comando: «Animali».

    «Non lo puoi guardare dal phone!»

    Lo metto subito via, come se fossi io la bambina sgridata dalla mamma.

    «Mi dai un aiuto?»

    Scuote la testa. «Lo sai tu».

    «E tu sei sempre la nostra tigre?»

    Si alza e corre da me con l’indice puntato dritto davanti a sé, facendo un ronzio con le labbra.

    «Ma anche un’ape!»

    «Gialla come la tua testolina, amore?»

    «Gialla e nera. Però posso essere anche una tigre, perché quella lo sono sempre. E poi tutte e due hanno le strisce quindi sono un po’ uguali. Tu invece devi essere un animale che va veloce, perché sai correre. E un animale forte perché sei forte. E che diventa cattivo quando si arrabbia perché ti incavoli».

    Le accarezzo la testa.

    «Io? Ah, è così? Io mi incavolo, secondo te?»

    «Sì. Ti incavoli molto se qualcuno fa qualcosa che non va».

    Come mi conosce bene mia figlia, anche se ha solo cinque anni.

    «E poi con una treccia sulla schiena».

    Ci penso, giocherellando con la treccia che Andrea ha appena chiamato in causa.

    «Sono un coccodrillo!»

    Andrea mi guarda a bocca aperta.

    «Un coccodrillo! Cosa ne pensi?»

    Annuisce.

    «E ora ti mangio con la mia bocca enorme piena di denti! Scappa via, apina, con me non hai scampo!»

    Andrea lancia un grido e inizia a correre in cerchio nel giardino, mentre io la inseguo pensando alle mie povere, costosissime, ortensie.

    «Ti mangio, ti divoro! Hai capito!»

    «Aaah!»

    Andrea scappa verso la porta, io la raggiungo, la sollevo in aria e sprofondo la faccia nella sua felpa che sa di bucato, mentre lei grida, scalcia e ride fino a far svegliare mia madre che dorme.

    Il phone inizia a vibrare, devo rispondere ai messaggi dei clienti. Sul viso di Andrea si dipinge la delusione per la fine del gioco, ma poi corre da mia madre.

    «Lo sai che la mamma è un coccodrillo?»

    «Lo sospettavo. Andiamo in cucina, prepariamo un frullato, ti va?»

    Andrea saltella verso la cucina e mia madre la segue. Non vuole sfruttare i comfort della tecnologia, così, anziché utilizzare una sedia connessa a un phone, ha ancora i pulsanti sul bracciolo che azionano le ruote. Ci abbiamo messo una vita per trovare un modello vecchio come quello.

    Dalla cucina, sento le pentole che franano e mia mamma che rimprovera la bambina. Poi il rumore del frullatore. Lancio un’occhiata a Stefano, che lavora concentrato, la sua mandibola leggermente squadrata, l’ombra di barba sulle guance, il naso dritto e perfetto.

    A volte questo mondo mi sembra un po’ piccolo, un po’ stretto. Casa, lavoro, giardino… come se ci fosse stato cucito addosso. Ma poi penso che ho loro, Andrea, Stefano, mia madre. Le persone che amo sono con me, e in fondo questo è tutto ciò che conta.

    4

    Leonard

    «Papà?»

    «Mh».

    «Ti stai sporcando».

    Stacca gli occhi dal phone e si accorge della chiazza di pomodoro che si allarga sulla sua camicia firmata. Tale padre, tale figlio. Sembra che nessuno di noi sia capace di mangiare senza imbrattarsi. Lui però non dice nulla. È una delle cose che non sopporto, non si arrabbia, non reagisce. Si lascia scorrere tutto addosso, non vuole soffermarsi su niente.

    «Papà?»

    «Cosa c’è?»

    «Be’, fa’ qualcosa, no? Mettici, che so, l’acqua o lo spray. Il borotalco sennò, il vecchio metodo della mamma».

    Mi guarda. Lui non la nomina mai.

    «Te l’ha prescritta il dottore questa schifezza? Riso integrale con salsa di pomodoro? Sei stato più contento ieri, no? Quando ti ho ordinato quell’hamburger».

    «Sai che non posso mangiarlo. Chissà con che animali li fanno…»

    «Già. Ma l’hai mangiato».

    Non controbatte, ha due occhiaie gonfie. Mi dispiace porgli domande dirette che suonano sempre accusatorie mentre è in questo stato. Ma

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