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Le Favole della Buona Notte
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Le Favole della Buona Notte
E-book143 pagine2 ore

Le Favole della Buona Notte

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Info su questo ebook

Le Favole della Buona Notte: mai titolo potrebbe essere più spiazzante per il lettore che volesse cercare un buon viatico per un sonno sereno. Psicopatici, sadici, serial killer… l’autore, con parole semplici e incisive, si diverte a immaginare realtà in cui la maschera che troppo spesso copre la facciata di molti comportamenti umani cade inesorabilmente, mettendo a nudo la vera natura di ognuno: homo homini lupus, dicevano i latini e leggendo questo libro verrebbe quasi spontaneo augurarsi di incontrare un lupo in carne e ossa, piuttosto che alcuni dei personaggi che popolano queste pagine. Sono storie che colpiscono dritto allo stomaco e lasciano il segno e che ci ricordano che c’è un lato oscuro e crudele insito sia nell’uomo che nella natura; allo stesso tempo, tuttavia, lasciano aperto in molti casi uno spiraglio di speranza per l’avvenire, che sia racchiuso in una palingenesi globale o nel gesto rivoluzionario dell’uomo che, anche di fronte a un mondo pervaso dal male, alla fine decide di scegliere il bene.

Enrico Ilaros Majerna è nato nel 1994 a Torino, dove tutt’ora vive. Laureato in Scienze Internazionali e in Cooperazione Internazionale, è interessato ai temi di risonanza globale e alla loro comprensione. Fin da piccolo ha sviluppato una passione per la lettura, soprattutto per il genere fantasy e per la fantascienza, ma, nel corso degli anni, si è approcciato ai più svariati generi. Scrive racconti da quando frequenta il liceo ed essi riflettono i suoi gusti letterari e i suoi interessi riguardo al percorso di studi intrapreso.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830673694
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    Anteprima del libro

    Le Favole della Buona Notte - Enrico Ilaros Majerna

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Parte Prima

    Il vento gelido sferza la mia carne, raggelandomi il sangue, attanagliandomi l’anima. Cammino in un canale di aria creato dal grigio cemento disposto su ogni lato a parte quello dei cieli. Se il cielo fosse la terra, l’inamovibile roccia sarebbe porticato

    e soffitto, mutando la bellezza del cielo in un monotono

    e freddo passaggio che porta alla meta ultima, oltre l’ingannevole orizzonte. Metto un piede davanti all’altro perché devo compiere il mio avvicinamento verso lidi sublimi e misteriosi.

    È il percorso obbligato sotto l’ombra degli edifici, con il vento

    che incupisce ogni pensiero e porta a fermarsi per un effimero senso di riscaldamento dal gelido sferzare. I veri momenti

    felici son quelli in cui la grande sfera luminosa appare

    negli intervalli tra i palazzi. La luce che colpisce riscalda riportandoci il senno. In quella ardua camminata, è un ricordo che si stabilirà nei recessi della nostra mente, aspettando

    il momento di tornare alla luce per sentire ancora il calore della felicità. Son attimi passeggeri, da godersi il più possibile prima che svanisca la magia. Gioia nell’oscurità.

    Pestis eram vivus,

    moriens tua mors ero

    Nelle pianure più interne dell’oltremare i guerrieri di fede velati di bianco marciavano verso una fortezza solitaria che svettava su un basso colle, torreggiando sull’immensa distesa pianeggiante. Al di sopra del forte, una nube nera come la pece attirava lo sguardo degli ignari soldati che procedevano nella sua direzione. Arrivati alle porte della grande costruzione notarono con sgomento la totale mancanza di una difesa e, inoltre, la grande porta aperta all’entrata degli stranieri. I guerrieri dalle pesanti armature e dai cavalli bardati si introdussero nella desolata città apparentemente morta da tempo. Appena all’interno le loro narici sentirono il fetore di carne bruciata e camminarono attraversando una leggera coltre di fumo come quello visto stagliarsi sopra la fortezza. Uno di loro si addentrò nelle vie della città e sentì un lamento provenire da una piccola abitazione in pietra con il tetto in legno. Si avvicinò alla porta e la aprì; nel tempo di un battito di ciglia, una figura vestita di scuro gli si avventò addosso. Credendolo un infedele, il soldato che portava la croce rossa sul petto, scaraventò l’ombra nera contro una sedia facendola cadere rovinosamente a terra. Quando egli vide il viso della persona davanti al lui inorridì alla visione del volto martoriato da piaghe di quella che una volta, pensò, doveva essere una donna e preso dalla paura di quella immonda creatura sguainò la spada e infilzò nel ventre la povera dama martoriata da chissà quale misteriosa maledizione. A quanto pare non fu l’unico a trovare questi esseri pestilenti. Tutti i suoi compagni d’armi trovarono all’interno di alcune case queste figure di nero vestite ma per paura di ciò che li affliggeva fecero una strage di uomini, donne e bambini innocenti il cui unico peccato era quello di essere sopravvissuti. Nella piazza principale trovarono uno spettacolo sconcertante. Un ammasso di esseri umani bruciati uno sopra l’altro che emanavano, oltre l’odore acre della carne ormai carbonizzata, un fastidioso e pungente fetore di putrefazione. L’aria era quasi irrespirabile e i cavalieri provavano difficoltà ad attuare il normale ciclo respiratorio a causa dei pesanti ed ermetici elmi che ognuno di loro portava in capo. Uno dopo l’altro portano gli uomini uccisi quel giorno all’ammasso di cadaveri e rinnovarono il fuoco che poco tempo prima lambiva quella pira putrefatta. Quella notte stabilirono il loro accampamento al di fuori della grande fortezza. La sera un leggero vento freddo lambiva la pianura e trasportava la nera nube rinnovata di morte verso le tende degli ignari soldati che prendevano un meritato riposo, ma il fato non era dalla loro parte. La strage insensata di innocenti poteva far infuriare non solo il dio d’oltremare, ma anche il Signore misericordioso degli incauti fedeli che senza pensare avevano compiuto una carneficina. E fu così che la misteriosa pestilenza si introdusse come un velo di fumo grigio all’interno dell’accampamento. Le anime dei corpi bruciati portarono la loro vendetta nei pagliericci dei cavalieri entrando nei loro corpi come un parassita che non può vivere senza essere succube di altro essere.

    I Giorno

    Il risveglio si consumò tra urla di stupore e di disperazione: le prime piaghe nere cominciavano ad apparire su numerosi soldati. Il primo dei cavalieri di Dio a morire lo fece durante la notte tra il contagio e l’alba dell’inizio della fine ed era colui che per primo si addentrò nelle profondità della città e uccise la povera e indifesa donna pestifera. Fu subito allestito un lazzaretto per i contagiati. In poche ore sempre più uomini venivano attaccati dalla pestilenza e sempre un numero crescente di loro perdeva la vita per mano delle anime degli innocenti. Era chiaro che chi contraeva la malattia moriva nel giro di due ore al massimo, a parte uno. Questo assiduo fedele la sera aveva pregato il Signore suo Dio di perdonarlo per aver partecipato allo scempio di quel giorno e gli promise che piuttosto avrebbe dato la vita sua e di altri per compensare la strage di innocenti. Forse aveva aizzato Iddio contro il suo accampamento e nel suo letto nel lazzaretto pensava che era sua la colpa di ciò che stava accadendo, ma avendo più tempo degli altri malati per pensare prima di morire capì che non era colpa sua ma era successo tutto per mano dei suoi compagni e che lui era stato graziato perché si era confessato e aveva chiesto perdono e, a quanto pare, gli era stato accordato. Ma aveva segnato il fato di tutti gli altri perché nella sua preghiera strinse un patto più col demonio che con Dio, la cui merce di scambio per la salvezza era la vita dei suoi confratelli. Intanto che egli pensava sempre più uomini venivano baciati dalla Morte e la loro vita spirava in pochi lamenti, fastidiosi per chi non era ancora stato contagiato dalla Vendetta.

    II Giorno

    Il risveglio del Pentito fu relativamente felice. Con sua somma serenità si accorse che la maggior parte delle piaghe si erano trasformate in cicatrici che si sarebbe portato dietro per tutta la sua vita, lunga o breve che fosse. Capì così di essere stato salvato da se stesso e dalla misericordia di Dio o peggio, dalla perfidia del Demonio. Si accorse con piacere che riusciva a camminare e quando uscì dal lazzaretto sguardi di sgomento e sorpresa seguirono i suoi passi in quello che per lui era diventato un mondo nuovo. Intanto la pestilenza continuava ad imperversare e a chiudere gli occhi dei fedeli. Il sopravvissuto predicava il pentimento ai suoi compagni ma in cuor suo sapeva che ormai era troppo tardi per tutti loro e che il loro fato era segnato, tuttavia cercava comunque di dargli una speranza. A mezzo dì, uscì dall’accampamento per fare una passeggiata all’aria pulita e non intrisa di morte e bruciato, visto che il loro comandante, quella mattina, aveva dato l’ordine di bruciare i corpi dei primi morti e quindi il loro olezzo lo infastidiva più dell’odore acre del pesce e dell’acqua putrida di un porto. La nube che due giorni prima sovrastava la fortezza ora proiettava la sua lugubre ombra sopra il suo accampamento, un presagio che poteva significare solo una cosa: morte. Quando rientrò si accorse che la pira cresceva di dimensione in modo allarmante. La velocità del contagio era aumentata e la pestilenza era diventata sempre più mortifera. Durante la notte urla strazianti di dolore si alzavano dalle tende dei soldati velati di bianco. La Morte baciava sempre più uomini e metteva fine alle loro sofferenze.

    III Giorno

    L’odore della

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