L'angoscia
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Anteprima del libro
L'angoscia - Maksim Gorkij
autore
Un leggero malessere
Avendo finito le sue preghiere, Tihòn Pàvlovitsc si svestì lentamente e, grattandosi la schiena, si avvicinò al letto, chiuso interamente da cortine di cotonina a fiorami.
Dio ci tenga nelle sue sante mani!
mormorò, poi sbadigliò con forza, si fece il segno della croce sulle labbra, scostò le cortine e si fermò a guardare il corpo di sua moglie, grosso e coperto dalle pieghe molli del lenzuolo.
Dopo aver esaminato con attenzione e minuziosamente quell'ammasso immobile di carni schiacciate dal sonno, Tihòn Pàvlovitsc aggrottò fortemente i sopraccigli e disse sottovoce: Che corpaccio!
Poi si voltò verso la tavola, spense il lume e si rimise a brontolare: Ti avevo pur detto, bestiaccia, andiamo a dormire nel fienile… no, non ci è andata! Scostati dunque un poco, bestia!
E avendo lanciato a guisa di avvertimento un pugno nel fianco della moglie, le si coricò al lato senza però coprirsi con il lenzuolo, dandole per giunta una forte gomitata.
La donna mugolò, si mosse, gli voltò le spalle, e ricominciò a russare. Tihòn Pàvlovitsc emise un sospiro di noia e, attraverso la fessura delle cortine, si mise a guardare il soffitto, su cui tremolavano delle ombre formate dalla luna e dal lume costantemente acceso e posto in un angolo, innanzi all'immagine del Salvatore raccolto da Santa Veronica.
Unitamente al soffio tiepido della notte, penetrava dalla finestra aperta il mormorìo delle foglie, l'odore della terra e della pelle del cavallo baio, scuoiato quella mattina stessa e appiccicata contro il muro del granaio.
Si udiva pure un lieve rumorìo delle gocce che cadevano dalla ruota del mulino. Laggiù, nel bosco, dall'altro lato della diga, un gufo gemeva. Il suono, lugubre, lamentoso, spaziava lentamente nell'aria e, quando cessava, il fogliame degli alberi stormiva più fortemente, quasi che ne avesse avuto paura. Qua e là, risuonava il ronzio acuto di qualche zanzara.
Dopo aver seguito per qualche tempo con gli occhi le ombre che si muovevano sul soffitto, Tihòn Pàvlovitsc li diresse verso l'angolo più importante della camera. Agitata dal vento, la piccola fiamma della lampada ammiccava dolcemente e a quello scherzo di luce, la faccia bruna del Salvatore ora si rischiarava, ora si oscurava, tanto che a Tihòn Pàvlovitsc parve che il Signore pensasse a qualcosa di grande e di penoso. Sospirò e fece di nuovo il segno della croce.
Un gallo cantò in qualche parte.
Possibile che sia già mezzanotte?
chiese a se stesso.
Un altro gallo cantò, poi un terzo... e altri ancora. In ultimo, da qualche angolo dietro il muro, il Rosso gridò a squarciagola, il Nero gli rispose dal pollaio, e questo, messo sull'avviso, annunciò la mezzanotte a voce alta.
Maledetti demoni!
imprecò Tihòn Pàvlovitsc, dimenandosi incollerito, non riesco ad addormentarmi... Possiate crepare tutti!
Lanciata questa bestemmia, si sentì più tranquillo: la maledetta, incomprensibile tristezza che si era impadronita di lui dopo il suo ultimo viaggio in città, l'opprimeva meno quando andava in collera. Quando usciva dalla grazia di Dio, spariva quasi completamente. Ma tutto, in quegli ultimi giorni, andava così bene, che non c'era stato modo di andare in bestia per sfogarsi un po', non c'era stato alcun motivo per pigliarsela con qualcuno. Tutti facevano il loro dovere, avendo notato che «il padrone aveva la luna a rovescio.» Così l’angoscia, non sapeva per cosa, montava.
Tihòn Pàvlovitsc vedeva che la sua gente aveva paura di lui e, cosa mai accadutagli prima d'ora, sentiva di aver torto di fronte a tutti. Era profondamente scosso perché tutti avevano quei visi arcigni e cercavano di evitarlo, mentre quella sensazione penosa e incomprensibile che aveva portato con sé dalla città, si impadroniva sempre più di lui.
Anche Kusma Kossiak, il nuovo garzone, del governo di Orel, giovanotto molto gaio, burlone e vigoroso, dai ridenti occhi turchini, con due file di denti piccoli e bianchi come la spuma del mare, messi sempre in evidenza dal sorriso provocante, quello stesso Kusma che aveva una lavata di capo ogni cinque minuti, si era fatto rispettoso e ossequiente: non cantava più le sue canzoni che lo avevano reso famoso e non lanciava più i suoi frizzi mordaci, molte volte ben appropriati.
Osservando tutto questo, Tihòn Pàvlovitsc pensava con rammarico: «Sono diventato probabilmente un vero demonio!» E rimuginando su questo, si lasciava sempre più dominare da un non so che, che gli rodeva continuamente il cuore. Non riusciva a individuare cosa fosse.
Per tutta la sua vita, aveva goduto a sentirsi contento di se stesso e della sua prosperosa situazione, e si montava volontariamente la testa pensando alle sue ricchezze, al rispetto che i suoi vicini gli testimoniavano e a tutto quello che poteva elevarlo ai propri occhi.
I suoi, in casa, conoscevano questa sua debolezza, che poteva anche non costituire un'ambizione, ma soltanto il desiderio di essere soddisfatto, di inebriarsi il più possibile della sensazione di benessere e di salute. Questa disposizione di spirito suscitava in lui una specie di benevolenza su tutte le cose, e benché questo non lo riducesse a trascurare i suoi interessi, pure gli aveva creato fra i suoi conoscenti la reputazione di uomo di cuore e di buona indole.
Ed ecco che questo sentimento saldo e pieno della gioia di vivere, si era dileguato, si era spento, lasciando il posto a qualcosa di nuovo, di penoso, di incomprensibile e di oscuro che lo opprimeva.
Auf! Mio Dio!
mormorò Tihòn Pàvlovitsc, sdraiato accanto alla moglie, tutto intento a recepire i sospiri della notte, che penetravano