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Human/: Corpi ibridi, mutanti e fluidi nell'universo del possibile
Human/: Corpi ibridi, mutanti e fluidi nell'universo del possibile
Human/: Corpi ibridi, mutanti e fluidi nell'universo del possibile
E-book471 pagine7 ore

Human/: Corpi ibridi, mutanti e fluidi nell'universo del possibile

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Info su questo ebook

All’inizio erano i cyborg, simboli di una corporeità rivoluzionaria ed emancipata.
Ma la narrativa fantastica, continuamente soggetta lei stessa a trasformazioni che devono far fronte al mondo rigido là fuori, adesso ci concede più corpi, infiniti corpi possibili che possiamo mettere in mostra, con cui possiamo combattere, rinnovarci e infine affacciarci al mondo.
Al centro di questa antologia di racconti sono presenti individui che vanno incontro a mutamenti definitivi, attraversano la soglia, abbandonano le vecchie spoglie sottomesse a obblighi e timori, e finiscono per appartenere ad altre specie, altri generi, altri mondi. In tutti gli universi creati dagli autori e dalle autrici di HUMAN/ vige una sola regola: dobbiamo diventare ciò che desideriamo. Nei futuri, o nei passati, che possiamo ancora creare non esistono binarismi, ma solo creature e identità possibili.
Chi sceglie di immergersi nelle pagine di questo volume sceglie di imparare ad abbracciare la materia, per scoprire che è, per fortuna, non solo umana, ma molto più imprevedibile di quel che sembra.
 
LinguaItaliano
Data di uscita7 set 2021
ISBN9788831982351
Human/: Corpi ibridi, mutanti e fluidi nell'universo del possibile

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    Anteprima del libro

    Human/ - Alice Bassi

    HUMAN/

    © Alice Bassi, Carlo Benedetti, Andrea Cassini, Antonia Caruso, Diletta Crudeli, Linda De Santi, Maurizio Ferrero, Erica Gigat, Simone Giraudi, Michela Lazzaroni, Francesca Mattei, Elena Giorgiana Mirabelli, Lucia Perrucci, Valentina Ramacciotti

    Illustrazione di copertina a cura di Le Nevralgie Costanti

    Progetto grafico di copertina a cura di Denis Pitter

    Logo Moscabianca Edizioni realizzato da Veronica Carratello

    Editor che hanno lavorato a questa antologia: Andrea Cafarella per i racconti di Andrea Cassini, Michela Lazzaroni e Francesca Mattei; Diletta Crudeli per il racconto di Valentina Ramacciotti; Leonardo Ducros per i racconti di Elena Giorgiana Mirabelli e Lucia Perrucci; F.T. Hoffman per i racconti di Maurizio Ferrero e Simone Giraudi; Andrea Viscusi per i racconti di Alice Bassi, Carlo Benedetti, Linda De Santi ed Erica Gigat.

    © 2021 Moscabianca Edizioni

    ISBN 9788831982351

    www.moscabiancaedizioni.it

    info@moscabiancaedizioni.it

    HUMAN/

    Indice

    Copertina

    Frontespizio

    Nota aз lettorз

    Una mutazione interessante. Prefazione di Antonia Caruso

    Alice Bassi, Il giardino del diavolo

    Michela Lazzaroni, Sorelle d’Acqua

    Valentina Ramacciotti, Luce

    Francesca Mattei, Nutrirla

    Carlo Benedetti, Meditazione Obbligatoria

    Maurizio Ferrero, Simbiosi

    Lucia Perrucci, Aquarium

    Erica Gigat, Key-code

    Andrea Cassini, Il Re Demone del Sesto Cielo

    Simone Giraudi, Paura di nuotare

    Elena Giorgiana Mirabelli, Alien Brain

    Linda De Santi, Venere di nylon

    Mutarsi in moltitudine. Postfazione di Diletta Crudeli

    Biografie

    Nota aз lettorз

    In questo volume, per esigenze legate al tema stesso dell’antologia, abbiamo scelto di adottare le soluzioni tipografiche proposte dal portale «Italiano inclusivo» (www.italianoinclusivo.it) – e ormai ampiamente utilizzate – nei racconti in cui compaiono individui o creature che non si identificano nei due generi binari di maschio e femmina.

    Queste soluzioni prevedono l’utilizzo della schwa (ǝ) per declinare le parole al singolare, e della schwa lunga (з) per declinare le parole al plurale.

    Così facendo, ogni parola che nell’italiano standard si declina al maschile e al femminile – articoli, pronomi, sostantivi, aggettivi, participi passati – può essere declinata anche in modo non connotato per genere.

    Buona lettura a tuttз,

    La redazione

    Una mutazione interessante

    Prefazione di Antonia Caruso

    Avevo appena attivato il conglomerato biotech piattangolare per musica, gattini e cospirazioni.

    Una sui fermenti lattici che possono prendere il controllo del sistema nervoso dei pappagalli, renderli superintelligenti e farli parlare sempre e solo in rima baciata. Una su una base segreta sotto le Eolie dove addestrano delfini assassini.

    Indossavo lenti a contatto speciali trovate in un demi-black-market che mi avevano fatto lacrimare gli occhi. Rischi di serie C del capitalismo avanzato, mi servivano a creare un’illusione di avanzamento tecnologico che mi avrebbe fatto dimenticare le demi-mediocrità della mia demi-vita. Quelle veramente buone, veramente di qualità, le vendono solo nel Qatar.

    Mentre uno sphynx inseguiva un punto rosso a zero-G, una piccola scossa mi aveva lasciata senza pensieri. Era stata una sensazione strana, quella di non pensare. Lo schermo del conglomerato aveva iniziato a glitchare, congreghe di bit disfacevano la rappresentazione mimetica del felino.

    Poi le unghie, le mie unghie sbiancavano e si muovevano, onde cheratinose, fluttuazioni di materia. Diventate tutte mosche bianche, si distaccavano dagli alloggi preposti. Le mie dita molli, conglomerati banali. Le mosche erano volate via, a parte una che era rimasta lì. Non sembravano molto forti ed energiche, appena cariche di vita. Forse le mie unghie non erano abbastanza forti, forse avevo carenze di calcio. Forse le ho ancora.

    Dopo qualche tentativo di volo le mosche si erano disciolte nell’aria, lasciando un alone tridimensionale nel punto in cui erano. Un paio si erano scontrate ed erano cadute in pezzi ed erano tornate unghie. Solide e immobili.

    La mosca rimasta mi si era posata su una cornea, lasciandosi assorbire dalla lente, poi dall’occhio stesso. Percepivo la sua presenza, mi stava comunicando qualcosa.

    Ero stata indicata per aprire questa raccolta di olografie testuali di corpi ibridi, mutanti e fluidi nell’universo del possibile.

    Ho abbandonato gattini e cospirazioni biosemantiche, ho iniziato a pensare a cosa avrei potuto aggiungere. Quali figmenti interpretativi inediti ed esplicativi, didattici, eruditi, consapevoli, avrei potuto porgere a chi legge, con immotivata falsa modestia, che non fosse già abbastanza esplicito nel titolo e poi nella fusione criptica tra materie organiche e inorganiche.

    (Moscabianca, com’è mutata l’idea di mutazione? E quella di ibridazione?)

    I corpi che nascevano, corpi prima ancora che individui, umani o animali, che nascevano mutati avevano bisogno di una interpretazione per poterli inserire in un discorso coerente.

    Anche le interpretazioni che dalla nostra prospettiva a) occidentale b) contemporanea consideriamo primitive, bislacche, insensate, pazzerelle posseggono una coerenza interna che non sappiamo cogliere. Aggiungo: che non vogliamo cogliere perché ci fa comodo così, sono funzionali all’idea che il qui-e-ora è il miglior momento possibile per condizioni socioeconomiche. Grazie capitalismo che curi le mutazioni, senza però specificare quanto il capitalismo provochi le mutazioni. Due esempi: Chernobyl e la talidomide.

    Ci saranno state probabilmente zone non delineate, confini non netti tra normale e anormale, tra un corpo sano e uno mutato, strano, dubbi-e-paure. I corpi deformi potevano essere letti come segno di sventura o come segno di buona fortuna, o semplicemente i corpi deformi accadevano. (Mosca-dentro, vedi che non uso mai la parola mostro, che deriva dal latino monere, cioè avvertire).

    I ricordi, di sogni, di appunti di viaggio, le voci che giravano e si contorcevano, si fondevano con i pensieri e le emozioni di chi faceva da tramite, poi, trasformavano le visioni periferiche e non perfettamente a fuoco in corpi mutanti.

    Storici antichi hanno scritto e raccontato degli Arimaspi, giganti con un occhio solo che abitavano vicino al Mar Nero, popolazioni dell’Etiopia senza naso o con una enorme gamba o con quattro occhi, gli Astomi che vivono in India e non hanno la bocca. E poi le sirene che sono state sia donne-uccello sia donne-pesce, gli unicorni, i pesci-isola, le mandragore, i basilischi.

    Poi sì Martin Lutero e Filippo Melantone hanno inventato l’asino-papa e il vitello monaco per sfottere il papato romano, e l’incisore Lucas Cranach ne ha fatto una crepitante illustrazione.

    (Moscabianca, questo era un aneddoto troppo succoso per tralasciarlo. Mi sto giustificando, lo so).

    Gli homunculi, esseri umani creati alchemicamente in bocce di vetro, e il Golem, il gigante di argilla delle leggende ebraiche che prendeva o perdeva la vita grazie al linguaggio, erano fantasie di creazione della vita. Fino al mostro di Frankenstein, quando a questa fantasia creatrice, maschile, è stata impiantata la scienza, l’elettricità, le prove, gli errori, la violenza. Nella mutazione, casuale, immaginifica, si installa la volontà. (Moscabianca, serve sempre ricordare che la genealogia parte da Mary Shelley?)

    La mutazione diventa ibridazione e poi l’ibridazione diventa genetica ed eugenetica, ma prima era una tecnica per ottenere i cavalli più forti e resistenti e veloci e i cani col miglior fiuto o forza. Alla fine i chihuahua sono dei lupi mutanti.

    (Ora vengo al punto, mosca).

    Dove c’è sopravvivenza, c’è violenza. Tutti i racconti di questa raccolta parlano di violenza – sono pochi quelli che non la contemplano –, di ibridazioni, di materia, di crescita.

    Nella crescita possiamo trovare il discrimine tra la materia organica e quella inorganica. La programmazione atomica di ciò che dovrebbe essere.

    Sappiamo già cosa dobbiamo fare, siamo inarrestabili, vortichiamo virginali. Voi invece non sapete cosa fare, eppure reagite. Dai, un minimo reagite. Reagite all’immensità della vostra inconsapevolezza. Agite la reazione o reagite. Possiamo, potremmo, possiamo congiungerci in un’unica congerie galattica. A patto che vi diate una svegliata, care le nostre materie inorganiche.

    E loro.

    Loro non potevano rispondere, tipo senza una coscienza. La coscienza della crescita, della effettiva progressione narrativa. Tipo cresci cresci cresci decadi marcisci muori, che ha in sé la narrazione primigenia, a volte senza colpi di scena, a volte con dei bug.

    Se avessero avuto una coscienza potrebbero non aver voluto questa fusione fantasmatica incoerente. Regni separati, fluidi non newtoniani e sovradeterminazione.

    (Mosca, a questo punto faccio entrare in scena non-Newton come ologramma onirico espandibile per ragguagliarmi sul suo esperimento bionarrativo di materia interrata e lasciata crescere. Sempre con l’idea che la terra, anche in maniera organicamente romantica, possa far crescere qualsiasi cosa. Amniotica).

    Ho provato con una vite. Ho provato con una ricevuta. Ho provato con una zampa di pesce. Ho provato con un tortellino. Ho provato con un mallo di pesce, un mallo di noce. Ho provato con altra terra. Ho provato con la sabbia. Ho provato con del mercurio. Ho provato con un pesce. Ho provato con dell’albedo e della rubedo, con delle transazioni bancarie, con dei feti, con dei semi – ma erano rotti. Non è mai cresciuto niente. Perché?

    Non-Newton, non mi stai aiutando, gli direi. Non è che forse sei la negazione stessa della vita?

    Non credo proprio, ma non direi nemmeno che sono qui per aiutarti.

    Non dirlo, infatti. Ora vattene.

    Ah, e comunque sono non-Newton, non anti-Newton.

    Va bene. Non ho mai pensato fossi anti-Newton.

    La negazione di un termine non determina il suo opposto sul piano della qualità.

    Come per esempio nell’opposizione normale/non-normale.

    La scelta del termine normale non è neutra.

    Va bene.

    Comunque sì. Non-normale non vuol dire anti-normale.

    Ma potrebbe.

    Potrebbe, sì.

    È semplicemente un’altra cosa.

    Quindi non sei un agente di morte.

    No.

    Ma non hai saputo far nascere niente dai vasetti, dai tuoi esperimenti.

    Sono esperimenti di pseudo-vita o anche non-vita, non anti-vita.

    E le ibridazioni tra due termini?

    Un canelupo non è l’anti-gattoleone. Le ibridazioni non hanno opposti perfetti. Il binarismo non funziona.

    Non funziona mai.

    Non ne sarei così certo.

    Va bene.

    Posso andare?

    Forse è meglio. Ma mi ha fatto piacere che ti ho inventato. Ci rincontreremo.

    (Mosca-dentro, è tempo di salutarci).

    Ho pianto una lacrima bianca, ed era la mosca, scomposta. Poi ne ho pianta un’altra per lei, ed ero io che comunque avevo già gli occhi irritati dalle lenti. Poi ne ho pianta un’altra per me, perché mi ero unita con una parte di me, estranea ma mia. Non mi era mai successo di riceverne qualcosa di così estraneo ma così intimo.

    Erano tre lacrime, le ho poggiate lì da una parte e le ho dimenticate fino alla settimana successiva, quando le ho regalate a un corriere che si era perso nel comprensorio dove abito. In cambio mi ha dato un hamburger umido, non ho potuto accettarlo.

    (Mosca-fuori, chiudo).

    Tutto questo panegirico per introdurre i racconti di questa raccolta senza raccontarli, senza nemmeno dare un indizio palese ma solo indizi neurali, per non rovinare il sense of wonder di scoprire qualcosa, di aggirarsi nei percorsi psicoemotivi di altre persone, altri racconti, altri corpi celati. Ho cercato di ammorbidire un sentiero neuronale per accogliere le mutazioni, i conflitti, le nascite, le morti, qualche amore, le sette, la materia, il sudore, le secrezioni, i cavi, le fluttuazioni, tanta acqua, tanto sangue, cibo, incomprensioni, comunicazioni, metallo carne metallo carne metallo pagine parole storie lettere.

    Non tagliatevi con la carta di queste pagine, non sapete mai cosa potrebbe uscirne.

    Alice Bassi

    Il giardino del diavolo

    Vi ha certamente del grandioso in queste considerazioni sulla vita e sulle varie facoltà di essa, che furono in origine impresse dal Creatore in poche forme od anche in una sola; e nel pensare che, mentre il nostro pianeta si aggirò nella sua orbita, obbedendo alla legge immutabile della gravità, si svilupparono da un principio tanto semplice, e si sviluppano ancora infinite forme, vieppiù belle e meravigliose.

    Charles Darwin, L’origine delle specie

    Le spore del fungo arrivarono sulla nave cargo sotto lo scarpone destro di uno dei macchinisti. Si era dovuto mettere alla guida del camion alle tre del mattino, con la barba incrostata di ghiaccio pigiata a forza nella maschera antigas, per arrivare in orario al lavoro. Dopo il fine settimana passato a rastrellare foglie e trapiantare bulbi in giardino, si sentiva i muscoli induriti come il fango congelato che gli scricchiolava sotto le suole.

    Era sempre stata sua moglie a occuparsi delle piante, finché non si era ammalata. Quando il medico aveva pronunciato la parola inoperabile, lui ne era quasi impazzito. Lei, invece, aveva iniziato a sistemare le sue cose con grande calma. Aveva lavato le tende, spolverato le mensole in alto, preparato tutte le ricette che si era sempre ripromessa di provare fin da prima del matrimonio. Insieme avevano scelto la musica e ogni dettaglio del funerale. Gli appunti, inclusa la scelta sul suo fine-vita, stavano scritti sul modulo della revivo S.r.l. poggiato sopra il comodino.

    Quel fine settimana, mentre il marito pacciamava in giardino, lei era rimasta a letto a fissare il soffitto. Negli oblò della maschera antigas gli occhi scintillavano di una vitalità folle, lo stesso lucore allucinato dei cavalli quando fiutano l’acqua. Dieci minuti dopo il bacio del marito, alle 2:47 del mattino del 3 marzo 2038, smise di respirare.

    Ignari, prima di mezzogiorno l’uomo e le spore di Amanita muscaria salparono per l’Adriatico insieme a un carico di fertilizzante d’esportazione e di tce stipati in bidoni gialli destinati al porto di Neum, in Bosnia.

    Nel pomeriggio, il tempo migliorò. Il caldo sciolse il fango, che inzaccherò il ponte. Qualcuno scivolò, cadde, si issò con le mani per rimettersi in piedi e le strofinò, bestemmiando, sui calzoni.

    Non mancava molto all’avvistamento della terraferma quando i marinai si prepararono allo sbarco della merce. I fusti di fertilizzante e tce vennero spostati, sollevati, spinti. Non tutti usarono i guanti. I visori delle maschere erano appannati per il sudore e il fiato.

    Nel fervore generale, nessuno si accorse della nave cargo bosniaca ormeggiata alla fonda. La prua del mercantile ci si schiantò contro a una velocità di crociera di 25 nodi. Il metallo della nave bosniaca si squarciò, gemendo e contorcendosi mentre l’altro cargo la eviscerava.

    Mentre gli esseri umani gridavano e correvano per recuperare il salvabile, i fusti già allineati sul ponte rotolarono e vomitarono il loro contenuto. Inturgidite dall’acqua, le spore di Amanita sui coperchi presero a germinare in un brulicante crescendo. A centinaia fagocitarono minuscole tracce di fertilizzante. Altre migliaia scovarono saporite molecole di fosforo. Eccitate, si scambiarono queste informazioni, mentre la petroliera si inclinava su un fianco e si squarciava all’altezza delle stive. Una gargantuesca ondata cupa si spanse sull’acqua come l’oscurità sull’Egitto, impedendo al sole di raggiungere le alghe e il plancton sottostanti.

    Ma qualcos’altro, contornato di sottilissime ife simili a ciglia che si allungavano, proliferavano e s’intrecciavano con simbiotica gioia, ci riuscì.

    E Dio vide che era cosa buona.

    non siamo soli anche se siamo soli

    Cronache di un’evoluzione annunciata

    Due di ogni specie di uccello, di ogni specie di animale e di ogni creatura che si muove sulla Terra verranno con te perché siano mantenuti in vita (Genesi 6, 18-21). Queste sono le parole con cui Dio, secondo l’Antico Testamento, stabilì le regole su chi meritasse di salvarsi dal Diluvio Universale. Noè obbedì. Dopo giorni di nubifragio, scandagliando la superficie piatta del mare, decise di liberare una colomba, nella speranza che potesse riportare notizie dal mondo distrutto. C’era ancora qualcosa, oltre l’arca?

    La risposta non si fece attendere. La colomba tornò. Nel becco recava un rametto d’ulivo. Noè e i suoi giunsero a una terra emersa e, come primo gesto libero, egli piantò una vite, simbolo di rinascita. Eppure, di essa non c’era traccia negli ordini impartiti da Dio.

    Ma allora da dove proviene quella vite? E come ha fatto l’ulivo a salvarsi? Per la religione cristiana – e non solo – le piante sono, dunque, il simbolo che la vita è ancora possibile, eppure non vive a loro volta, alla stregua dei sassi?

    Buffo, dato che la biomassa del pianeta è composta, per una percentuale che va dal 99,5 al 99,9 percento, da vegetali. Noi esseri umani, insieme agli animali, non rappresentiamo che lo 0,1-0,5 del tutto. La Grande Mutazione del ’38 ci ha chiarito ulteriormente le idee: siamo noi gli estranei su questo pianeta. E siamo irrilevanti.

    Pubblicato da a. tonelli alle 17:53 del 07/06/2051

    I suoi sogni avevano l’odore dell’acqua. Si ramificavano nel buio umido come radici, tra vaghe ombre che una volta, molto tempo addietro, avrebbe riconosciuto.

    Era una strana sensazione, ma aveva sentito parlare di sogni lucidi e per un anno intero, da ragazza, aveva sofferto di paralisi notturne. Prendeva sonno regolarmente, talvolta con l’ausilio di una pastiglietta di lavanda, ma a metà della notte spalancava gli occhi, intrappolata, schiacciata dal peso delle tenebre sopra di lei. Il corpo rigido, una prigione di carne, nervi e ossa. Cercava di dimenarsi, di urlare, ma le ombre erano intelligenti e, viscide, le annodavano stracci neri ai polsi e alle caviglie, le coprivano il volto come fosse morta.

    Sono viva! cercava di gridare, muta.

    Ma le urla erano gusci d’uovo aguzzi che si decomponevano nel terriccio dentro la sua gola. Ogni volta era come vivere, da coscienti, la propria autopsia.

    Il medico l’aveva rassicurata. «Questi attacchi durano al massimo un paio di minuti», le aveva spiegato, «anche se a te sembra di viverli per molto più tempo. Hai appena traslocato, non hai mai vissuto da sola. È molto stress tutto in una volta. Passeranno».

    Allora perché, adesso, dopo tanti anni, si sentiva come allora? Eppure viveva una vita tranquilla, scandita dai ritmi naturali. Aveva settantadue anni, abbastanza per risparmiare sul biglietto del teatro ma non così vecchia da non distinguere il palco per la cataratta. Negli ultimi anni aveva avuto diversi problemi ai polmoni, e per questo aveva traslocato di nuovo, spostandosi in un delizioso cottage a poche decine di metri dalla riva del mare. La sua nipotina l’andava a trovare spesso. Si chiamava…

    Rimase immobile, ascoltando sé stessa. Affondò la sua domanda nelle tenebre, ma nemmeno loro avevano la risposta.

    Non ricordo il suo nome.

    Un’ondata di panico la risalì dalle punte dei piedi. La avvolse nel gelo, facendole raggricciare la pelle in una sensazione terrificante e ignota di accartocciamento. Uno per uno, percepì ogni pelo, ogni capello vibrare e rizzarsi, per poi richiudersi. L’aria era dolorosa. Il buio era spaventoso. Il suo stesso corpo l’agghiacciava.

    Mia nipote!

    Nell’oscurità la raggiunse una carezza, ed era buona. Poco a poco, si abbandonò a quel singolo dito che le sfiorava la fronte, come lei aveva sempre fatto con Briciolo, il suo gatto, per farlo addormentare. Ricordare perlomeno lui, le sue fusa, la fece sciogliere. Si riaprì al mondo, a quel tocco lieve e dolce, intermittente, e si rasserenò.

    Sei viva, le disse una vibrazione maschile, a sinistra e sopra di lei, ma anche accanto. Stai tranquilla.

    Chi sei? provò a chiedergli. Sei un dottore? Sono in coma?

    Il polpastrello si scostò. Tornò poco dopo, tremolante come se si fosse proteso con fatica.

    Te lo spiegherò domani.

    Lei riprese sonno nell’oscurità dolce e fresca, cullata.

    non siamo soli anche se siamo soli

    Cronache di un’evoluzione annunciata

    Per secoli abbiamo vagato, nomadi sulla Terra, cacciando e spostandoci in un’altra zona florida. È stato l’avvento della coltivazione a farci piantare le radici, una scelta che ha portato alla nascita delle grandi civiltà della storia. La stessa che le piante, i funghi e i licheni avevano già compiuto quasi 600 milioni di anni prima.

    Oggi, sappiamo che in questo lunghissimo tempo i vegetali hanno escogitato e affinato tecniche straordinarie per sopravvivere. Se non puoi muoverti, devi trovare modi alternativi per proteggerti dai predatori e cibarti. Per esempio, servirti di altri esseri spacciando droga.

    Avete letto bene. Uscite in terrazzo e osservate i vasi: se ne avete uno con un trespolo di pomodori succosi, siete di fronte a uno spacciatore della peggior specie. Il pomodoro, infatti, se attaccato da troppi bruchi, produce una sostanza neuroattiva che li rende cannibali. Loro la adorano, ma presto ne diventano dipendenti. Iniziano a mangiarsi a vicenda finché il numero dei bruchi torna tollerabile. Solo allora il pomodoro smette di secernere droga. Pensateci, la prossima volta che vi preparate una pastasciutta. Soprattutto se ci aggiungete del peperoncino.

    Vi siete mai chiesti perché continuate a mangiarlo, a proposito? Il piccante stimola i recettori del dolore. Sudiamo. Eppure, ogni anno si coltivano sempre più peperoncini, selezionando specie che contengono dosi via via più esplosive di capsaicina. Il motivo è semplice: ogni volta che il cervello percepisce la capsaicina, secerne endorfine e ci regala una scarica euforica di piacere. Sarebbe tutto normale, se anche gli altri animali fossero sensibili a questa sostanza. Ma non è così. Gli unici siamo noi che, tronfi della nostra superiorità, crediamo di non essere manipolati da nessuno, mentre continuiamo ad aiutare i peperoncini a moltiplicarsi sul pianeta.

    Ma c’è qualcosa di molto più inquietante…

    Pubblicato da a. tonelli alle 15:22 del 09/06/2051

    Si risvegliò con un tepore piacevole che le pervadeva tutto il corpo. Aveva ancora le palpebre abbassate, ma la luce le scaldava le gambe, il busto, i piedi. Caramellata, le venne in mente. Il sole mi sta caramellando la pelle.

    Mugolò. Non era una parola che usava spesso, e per questo ne fu sorpresa. Provò a ricordare l’ultima volta in cui l’aveva udita e, subito, si sentì formicolare il cervello dall’odore intenso del fieno, dei cavalli caldi di sole innervositi dalle mosche. La fiera di San Felice, realizzò, e quegli afrori di stallatico e bestiame vennero glassati dal profumo zuccherino e amaro delle mele caramellate. Sorrise, stiracchiando le estremità, mentre si rivedeva a passeggiare mano nella mano con sua nipote, nove anni, maglietta rossa e treccia bionda spettinata, intenta a addentare il guscio croccante di un frutto.

    «È difficile da mangiare, nonna».

    «Apri di più la bocca. Così. Come il lupo della fiaba, ricordi?»

    «E dai! Mi fa paura…»

    «Ma no, è solo una storia. Quando chiudi il libro, puoi tornare al mondo reale, dove nessun lupaccio cattivo è pronto a divorarti, e nemmeno a travestirsi da me. Tutto funziona secondo la legge naturale di Dio, che non permette aberrazioni. Non è confortante?»

    «E allora noi?»

    «Cosa intendi?»

    «Sul Youtg hanno detto che da una grossa nave sono uscite delle cose schifose. Dicono che le alghe sono diventate strane, e anche i pesciolini. Hanno detto che se le alghe muoiono…»

    «Alice…»

    «… moriremo tutti anche noi. Perché loro ci fanno respirare».

    «E la mamma te lo fa guardare spesso, il Youtg?»

    «Sì! A pranzo, sul tablet. Poi mi mette i cartoni».

    «Alla mamma parlo io, d’accordo? Tu non pensarci. Non devi credere a tutte le stupidaggini di Internet. Il mondo non è un posto spaventoso. Vedrai che presto altre navi andranno a pulire l’acqua. Gli oceani sono enormi, sai? Scommetto che, quando sarai grande, non esisteranno nemmeno più le maschere antigas. La natura avrà sistemato tutto quanto».

    «Davvero, nonna?»

    «Ma certo. Andiamo, adesso. Lo vuoi un bel bombolone con la cioccolata? La mela la andiamo a regalare a qualche cavallo al recinto, che ne dici?»

    Sua nipote sorrise e lo stesso fece lei, crogiolandosi al sole e in quelle memorie. Il nome era tornato: Alice. Aveva sempre amato portarla alla fiera, anche se ogni volta finiva per correre dappertutto, sudare e nascondersi nel recinto degli animali, dove lei, con un fuoco liquido al posto dei bronchi, finiva per ritrovarla intenta a cercare di convincere i cavalli – sempre meno, negli ultimi anni, e sempre più rachitici – a ignorare i ciuffi d’erba giallastra tesi dagli altri bambini e nutrirsi del suo. Quando non ci riusciva, stava a osservare il fortunato con il broncio.

    Quest’anno comprerò del trifoglio e della biada al negozio in paese, si disse. Alice ne sarà contenta.

    Immersa nel calore e nel buio, si sforzò di rammentare l’insegna della bottega che vendeva quelle cose. Non ci riuscì. Provò a rievocare il nome del paesino in cui viveva. Zero anche quello. Eppure, di Alice ricordava tutto: l’odore biscottato del suo sudore, il fatto che sua figlia la sbolognasse sempre a lei come una valigia che ti trascini dappertutto senza mai disfarla. Quanto era passato dalla loro ultima gita? San Felice si teneva in ottobre, di questo era certa. Provò a concentrarsi sul tepore che l’avvolgeva come una coperta. La sensazione le fece sbocciare pensieri di primavera. Sei mesi, dunque, forse sette.

    Ma cos’è successo nel frattempo? Dove sono finiti gli altri ricordi?

    Di nuovo si sentì agitata, minacciata da quei dubbi inquietanti, e un brivido la fece ripiegare rapidamente su sé stessa.

    Buona, stai tranquilla, è tutto a posto.

    Ancora quella voce. Ancora quel polpastrello proteso a carezzarle la testa, come sua nipote quando infilava tutto il braccio nei buchi della recinzione fino alla spalla, pur di ingolosire le bestie e far notare il suo mazzo d’erba.

    Chi sei? Perché non ci vedo? Toglietemi questa roba dalle palpebre! Cos’è, scotch?

    Il dito si fermò un momento. Poi, con titubanza, riprese a carezzarla, e la voce rispose: Non mi ricordo ancora cos’è lo scotch. Forse lo saprò domani.

    Ma di che stai parlando? Sei un medico o no?

    Non lo so… No.

    Che vuol dire che non lo sai? Perché non riesco a muovermi? Dove mi trovo?

    Alla mia destra. Sei la prima che riesco a toccare.

    Di nuovo, si sentì raggelare e rimpicciolire.

    Non toccarmi! Ho più di settant’anni, cosa vorresti farmi?

    Ti prego. Sono anni che cerco di raggiungerti. Tu sei la più vicina all’acqua. La sento. Sempre. Ho così sete…

    Qualcosa in quelle parole le fece venire la nausea. Tentò di gridare, ma non le uscì un suono. Allora provò a divincolarsi, ma il suo corpo rimaneva immobile, imprigionato in qualcosa di peggio delle paralisi notturne di cui aveva sofferto da ragazza.

    E mentre quel dito viscido, spugnoso, le scivolava sulla fronte, sul naso, sulla bocca, lei, d’un tratto, realizzò.

    Anni.

    In una frazione d’istante, sentì

    (Sono anni che cerco di raggiungerti)

    quella parola precipitare dentro di lei come un sasso in un pozzo. Ne venne attraversata, poi increspata, mentre le implicazioni si propagavano in tutto il suo organismo in una duplicazione modulare e innumerevole. Aveva dormito in ospedale per anni. Due, dieci? Cosa poteva essere successo? Provò a concentrarsi sull’ultimo ricordo che aveva, quello di Alice alla fiera. Dopo il bombolone… avevano giocato con gli animali? Poteva essere, ma non ne era sicura. Sentì puzzo di tubi di scarico. Smog. Alcuni anziani seduti su una panchina con delle maschere antigas della revivo. Lei e Alice a una fermata del bus. Tutti salivano, scendevano, e loro mai. Stavano… aspettando sua figlia? Sì. Aveva detto sarebbe passata di lì con la macchina per riprenderle tutt’e due. Ma era quasi buio, ormai, e lei non… Oh, quanto era difficile ricordare. C’era stato un litigio?

    Ti odio! No, non ci vengo a dormire da te! Non ti voglio qui! Non voglio te!

    Alice che scappava. Lei che la rincorreva per tutta la fiera e le bancarelle che chiudevano. Il pensiero di essersi dimenticata la maschera a casa. La bimba non c’era più, non c’era, non c’era. Sentiva il cuore battere forte, il respiro entrarle e uscirle dai polmoni in un fischio sempre più doloroso. Un sapore ferroso e dolciastro nel naso, nella gola, in bocca.

    Poi, il buio.

    Lo stesso in cui si trovava adesso.

    Per un attimo ricercò ciò che l’avrebbe tranquillizzata: odore di disinfettante, il pulsare ritmico di un cardiogramma. Era già stata in ospedale. Ricordava gli altri anziani nei letti vicini, il raschiare dei rantoli nella camerata, i materassi vuoti al mattino che venivano subito rioccupati.

    Ma in quel buio non c’era niente. Non un odore, né un suono.

    Non mi sento battere il cuore nel petto.

    Restò attonita, tramortita dalla scoperta mentre il terrore veniva estirpato da lei come una radice da un terreno incolto. Al suo posto, nella cavità venutasi a creare, iniziò a sentirle: piccole dita che formicolavano, la sfioravano e si aggiungevano a quelle dell’uomo che, forse, non era un dottore. Non si domandò se erano tutte sue. Non quando le dita divennero più di dieci.

    Sete… sete… ho così sete… sete!

    L’urgenza di quei filamenti le penetrò nel cranio, insinuandosi nei suoi seni nasali. Simili a spermatozoi, li sentì fecondarle le cavità oculari. Si attorcigliarono alla sua ugola rattrappita come piante di pomodoro attorno a un bastone.

    Come sei umida… Dio, avevo così… sete!

    Lei si lasciò invadere, infestare, mentre ogni sua reazione si spegneva.

    non siamo soli anche se siamo soli

    Cronache di un’evoluzione annunciata

    Pensate a un’acacia. Il suo miele è il più famoso. Sapevate che alcune di esse possiedono interi eserciti? Gli basta offrire alle formiche cibo, alloggio nelle loro cavità vegetali e bevande gratis, nella forma di un nettare di cui vanno pazze, e quelle in cambio le difendono dagli aggressori, siano essi vegetali, insetti, ma anche giraffe e persino elefanti, se si azzardano ad avvicinarsi per brucare. Si vedono spesso acacie che sorgono al centro di cerchi perfetti di terreno in cui non cresce nulla, chiamati dalle tribù locali giardini del diavolo.

    Un dettaglio inquietante: il nettare secreto dalle acacie non contiene solo zuccheri, ma anche alcaloidi e aminoacidi non proteici che esercitano una funzione di dipendenza e controllo sul sistema nervoso degli animali, regolandone il comportamento. Come il pomodoro, anche le acacie decidono quando e se secernere tali sostanze, e modulano la produzione di nettare in caso di pericolo per trasformare le formiche, all’istante, in un esercito di tagliagole.

    Pensate se lo facessero con noi. Certo, non ci sono acacie dappertutto. Ma se vi dicessi che c’è qualcosa che un giorno potrebbe evolversi e imparare a trasferire le sue capacità a tutte le piante?

    Pubblicato da a. tonelli alle 16:03 del 13/06/2051

    La fusione micorrizica tra l’esemplare 78 (Larix decidua) e l’esemplare 422 (Mimosa pudica) avvenne alle ore 15:38 del 14 maggio 2052 e generò l’equivalente di un nuovo universo. Nessuna deflagrazione spettacolare, però, tanto che perfino l’addetto al controllo del monitor che mostrava l’interno della Serra Paradiso 3 nello stabilimento madre della revivo non si accorse di niente. Mezzo morto di sonno dopo un turno di nove ore giù all’obitorio biorganico, aveva continuato a masticare la sua porzione di patatine grandi con bacon accompagnate da birra giapponese mentre avviava gli spruzzatori di fertilizzante sulla serra.

    Eppure, invisibili nel sottosuolo, due coscienze urlavano, godendo di un potente orgasmo. Stelle a milioni esplodevano e si ricreavano nella loro mente vegetale mentre il piacere continuava a propagarsi, a ondate, in ogni apice e peduncolo del loro essere. Le ife di Amanita muscaria ci mettevano del loro, titillando le radici come capezzoli. Ciascuno schizzo di fertilizzante che colpiva il terreno era come il getto della doccia puntato sulla clitoride: un massaggio intenso che scatenava, nelle radici di entrambi, pirotecnici impulsi elettrici.

    In quel brodo parossistico di piacere, lei lo conobbe come mai aveva fatto prima con un altro uomo, e lui conobbe lei meglio e più in profondità di sé stesso. Lei si rivide all’ultima cena di Natale con la famiglia riunita: tutti che litigavano, zii cugini nipoti mamme fratelli cognate che si rinfacciavano oscenità con le dita puntate gli uni verso gli altri, mentre Alice, nascosta sotto il tavolo, giocava con la bambola. Rivide sé stessa, a capotavola, scoppiare a ridere e zittire tutti. «Che c’è, mamma?» si sentì dire, mentre teneva fermo e penetrava gli orifizi umidi e segreti dell’esemplare maschio 78. «Niente, tesoro», aveva risposto lei. «Solo che nessuno di voi sarebbe nato se io, tanti anni fa, non mi fossi fatta una scopata!» La risata aveva contagiato tutti, moltiplicandosi e rifrangendosi come le diramazioni di un rizoma.

    La sentì di nuovo adesso, mentre le ife si attorcigliavano alle sue vene. Vide la scena familiare distorcersi e mutare, mentre anche la pelle dei suoi parenti si muoveva, spaccandosi e lasciando fuoriuscire liane vegetali. Fiori sbocciarono al posto degli occhi. Sentiva ridere Alice sotto la tovaglia per il solletico. E, tra i nipoti e i figli, vide un uomo che non aveva mai conosciuto. Rideva e germinava come gli altri, e la sua barba era incrostata di ghiaccio. Dagli scarponi dipartivano scie di licheni e funghi multicolori simili a splendidi tumori che gli striavano la tuta da lavoro. Le sue braccia erano rami che gonfiavano le maniche.

    Sei tu? domandò all’esemplare 78, tremando tutta, mentre questi l’avviluppava in un abbraccio muscolare, fondente, che la fece piangere e orgasmare allo stesso tempo.

    Ero io, rispose lui. Lascia che ti mostri.

    Lei lo abbracciò a sua volta. I filamenti di micorrize accorsero a saldarli insieme, secernendo enzimi viscosi come la polpa delle foglie di aloe.

    La comunione di menti separò la luce dalle tenebre. Lei gridò quando conobbe di colpo la verità su chi fossero e dov’erano, e lui fluì libero tra i ricordi della donna, commuovendosi per tutte le volte in cui, con sua moglie, avevano provato a procreare una bimba carina e brillante proprio come Alice. Era per questo che si era ammalata di cancro, alla fine: per le decine di tentativi di…

    Fecondazione in vitro, gli suggerì la mente di lei, e lui ricordò cosa fosse. I vocabolari dei loro microcosmi collisero e, incandescenti, si plasmarono in una nuova lingua che non conosceva distinzioni di genere, né binarismo.

    Nella schiuma bioluminescente di pensieri condivisi, l’esemplare 422 trovò un’immagine: l’uomo con la barba e una donna pallida che scrivevano insieme il testamento di lei. Li vide baciarsi e piangere, come si erano baciati e avevano pianto il giorno del loro matrimonio. Sul foglio, che l’uomo poggiò sul comodino accanto al letto, lesse:

    testamento botanico

    Bolzano, 28 gennaio 2038

    Io sottoscritta, Sofia Melis, nel pieno delle mie facoltà fisiche e mentali, dispongo le mie volontà attraverso questo testamento.

    Nomino erede del mio patrimonio il mio coniuge, Ruggero Mennea, dipendente della società revivo S.r.l., con sede a Venezia Mestre, e dispongo che la stessa usufruisca della somma di euro 12.451,98 presente sul mio libretto postale per coprire le spese della mia inumazione in urna biologica (tipo 3, seme di acacia). Con questo documento accetto ogni clausola del contratto di fine-vita con la revivo S.r.l., comprese quelle vessatorie…

    Era tua moglie? gli domandò.

    Sì. Eravamo entrambi dipendenti della revivo, ma da quando lei si era ammalata era rimasta a casa dal lavoro.

    Cos’è davvero la revivo? Credevo si occupasse solo delle maschere antigas per gli anziani. Sì, anche di urne biologiche, ma era un settore di cui parlavano soprattutto gli attivisti…

    Ti faccio vedere.

    Si sentì respingere e, per un momento, fu di nuovo sola. Nella sua coscienza apparvero due grosse navi ondeggiare sull’acqua; la sentì mentre, in un corpo maschile che non era il suo, correva per il ponte, schizzando da sotto gli scarponi sprizzi di una sostanza densa, scura, rigurgitata da fusti gialli che rotolavano dappertutto. Udì le urla di chi scivolava, sputando i solventi e il fertilizzante che cuocevano i volti e i palmi delle mani. Cadde a sua volta e gridò, con la pelle che friggeva e si lacerava. Si gettò in mare mentre la nave s’inabissava e bruciò vivə per il sale che sfrigolava sulle piaghe, uomo e donna al contempo, sé stessa e altro senza distinzione. Sulla superficie dell’acqua punteggiata di cose che si contorcevano nella coltre cupa di tce che si spandeva, vide galleggiare una stria multicolore fuoriuscita da uno dei fusti, simile a fantastici anemoni che si diffondevano. Ora le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque, pensò. Poi la chiazza di solvente lə inglobò e il suo ultimo pensiero fu un’esplosione di dolore e di fuoco.

    Quando mi sono svegliato ero al buio, riprese la voce dell’uomo. Per lungo tempo ho creduto, come te, di trovarmi in coma, ed ero fiducioso che avrei riaperto gli occhi. Ma i giorni erano tutti uguali. Centinaia di giorni. E, più passava il tempo, più ho iniziato a ricordare. Quello che hai visto…

    … era il tuo ultimo ricordo da vivo.

    Sì.

    Seguì il silenzio.

    Mi dispiace, disse lui.

    Mia figlia parlava spesso delle urne biologiche. Diceva che farsi sotterrare così, al

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