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Aspettando Godot al Café de la Paix
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E-book243 pagine3 ore

Aspettando Godot al Café de la Paix

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Info su questo ebook

Una miriade di critici, letterati, studiosi, scienziati, psicanalisti, ha cercato nei decenni di decriptare Aspettando Godot di Beckett inseguendo quello che sembra un enigma allegorico spregiudicatamente celato da un abile e furbo burattinaio, rifiutandosi di rivelare chi fossero veramente i personaggi e cosa volessero comunicare, secondo i dettami del romanzo giallo.
In Aspettando Godot al Café de la Paix, l’autore si cala nei panni di un detective metafisico, sulle tracce evanescenti dell’inafferrabile Godot, Vladimiro ed Estragone. Per far ciò ha dovuto scendere negli abissi della sua psiche alla stregua di Orfeo, penetrare in dimensioni parallele utilizzando doti sciamaniche, contrastare le malvagie intelligenze che vogliono dominare questo piccolo mondo periferico e risolvere contemporaneamente i molteplici enigmi matematici, cosmologici, esoterici mimetizzati nella pièce.
Al termine di questa magica e allo stesso tempo fantascientifica indagine, in cui si sovrappongono le dimensioni del diario di vita e quelle del giallo metafisico, l’autore ha finalmente risolto il mistero dell’identità di Godot e scovato la sua base operativa…
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2016
ISBN9788899815172
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    Anteprima del libro

    Aspettando Godot al Café de la Paix - Eugenio Dario Lai

    l’Abisso…

    Preludio

    Io sono quello che sono. Ho attraversato 59 inverni.

    Le stagioni si sono alternate una dopo l’altra, le fresche primavere hanno anticipato le torride estati; i sepolcrali autunni hanno aperto la porta a gelidi inverni. L’involucro esterno del mio essere si è trasformato nel tempo; la mia carne, le mie ossa, il mio sangue sono morti e rinati innumerevoli volte, col ritmo cadenzato stabilito dalla Natura.

    Nel frattempo la mia mente ha macinato incessantemente pensieri, si è posta domande a cui è stato impossibile rispondere e ha elucubrato viaggi fantastici in luoghi senza confini.

    Sotto la pressione di queste continue metamorfosi psicofisiche sono incespicato e caduto in molte occasioni. Il dolore di queste esperienze mi ha portato a pensare di allontanarmi per sempre da questo tangibile e materiale pianeta. Solo quando mi sono trovato sull’orlo dell’abisso senza luce ho ripreso a volare, a sfuggire alla trama di un destino che mi pareva già segnato, cercando di illuminare tutti i reconditi angoli bui del mio pensiero. Ma non ero pronto, dovevo ancora schiantarmi contro i muri fabbricati dalla mia illimitata testardaggine, dal mio orgoglio, dalla mia ristretta visione del mondo, per giungere al limitare della comprensione.

    Infine, in un giorno baciato da un nitido arcobaleno, ho finalmente compreso l’essenza della mia inquietudine: da allora un raggio di luce, per quanto sottile ed evanescente, è sempre al mio fianco, fedele compagno di questa mia arruffata e tormentosa esistenza.

    Comunque, oggi non posso dire di essere padrone del mio destino e non mi permetto l’ardire di affermare che io so; anzi, mi rendo sempre più conto che la mia ignoranza è incredibilmente vasta.

    Ho accettato semplicemente di comunicare con il mio mondo sotterraneo, permettendo alla mente una temporanea connessione con il continuum spazio-temporale del pianeta che mi ospita e su cui vivo una vita quasi da intruso.

    Ma questo non mi consente – lo ribadisco – di affermare di essermi liberato di tutta la spazzatura esterna che la società produce, vendendola con i termini altisonanti di libertà, democrazia, socializzazione, realizzazione, uguaglianza, religione, amore.

    ***

    Questa comprensione non va a incidere sull’emergere di una forte e selvaggia istintività reattiva nei confronti di una società costrui­ta per porre forti limiti e condizionamenti agli esseri umani, utilizzati come polli da allevamento: in questa realtà schizofrenica la nuova ICT (Information and Communication Technology) diventa un’ulteriore invisibile barriera che ci avvolge viscidamente con fare demoniaco, ben più vasta e subdola di quella descritta da un famoso maestro del xx secolo a proposito del cerchio degli Jazidi.

    Nello stesso tempo avverto in me il mistico, anzi, un mistico allo stato selvaggio, concetto esposto dal poeta Arthur Rimbaud, nei riguardi dei poeti che attingono la loro vena da un serbatoio collettivo inconscio e perciò foriero di avventure nel senso più elevato della parola.

    Così mi ritrovo esposto a una dialettica dualità contrapposta quando, allo specchio, emerge l’osservatore imparziale, l’analitico, sospettoso e spietato scienziato che scorre in me, non alle prese con provette di vetro e pozioni miracolose, ma osservatore avido di sfuggenti ego e di pseudo-anime umane in via di estinzione.

    Questa dicotomia, questa profonda faglia geologica interiore emerge in certe notti, quando i cieli silenziosi diventano neri come la pece; allora, come un novello Mr Hyde avverto una furia che tracima impellente, senza ritegno: se la mia struttura fisica lo sostenesse, mi trasformerei in un licantropo feroce dallo sguardo vivido e penetrante – assassino – e ululerei al mondo intero la mia immensa rabbia.

    Tra infinite e orribili bestemmie, maledirei anche quegli dèi infernali che mi hanno vomitato su questo granello di sabbia, sperduto alla periferia estrema dell’universo, annegato in una disperata galassia.

    Queste colate di energia selvaggia, che emergono dalle voragini del mio essere, traggono origine dalle paludi marcescenti tipiche delle foreste tropicali: lì la forza vitale è più intensa, più irrequieta, e si nutre ancora dei conflitti primordiali che hanno forgiato l’iniziale globo incandescente del pianeta; lì si annidano le verità primigenie, solo sussurrate nella notte dei tempi da intuitivi sciamani, che percepivano il vero senso dell’impotenza umana di fronte alla straordinaria complessità e al mistero dell’esistenza nella biosfera.

    ***

    In quelle zolle umide e asfissianti cominciarono a forgiarsi esseri umani che, sebbene colmi di paura e terrore, erano consapevoli della difficoltà di sopravvivenza ambientale e della necessità di percepire in tutta la sua interezza lo scorrere della realtà che li circondava.

    Si svilupparono così individui più evoluti, sapienzialmente più avanzati, capaci di cogliere l’effimero del proprio pensiero e il limite dei propri sensi. E compresero che il vero tesoro era sepolto in loro; iniziarono così l’esplorazione, scendendo sempre di più negli abissi del loro cervello. Incontrarono molteplici forme di vita, insidiose e potenti, prima di scoprire l’incredibile moltitudine dei microscopici ego che abitavano in quelle profondità.

    ***

    Cominciarono a comunicare con questi ultimi, ad ascoltarli, subendone a tratti il fascino distruttivo e tragico. Osservarono le loro aspettative, le loro vacuità, i loro drammatici desideri, insulsi e devastanti. Riconobbero, in quelle indipendenti individualità, i frammenti dilaniati che emergevano all’improvviso nella propria personalità esteriore. Si accorsero che questi buffoni impazziti erano i veri padroni fantasmagorici del loro pensiero, capaci di cancellare la consapevolezza dell’attimo e deformare la percezione del tempo, di dominare in modo impertinente e imprevedibile le sensazioni e le impressioni da loro credute indipendenti e pure.

    Anche i loro dèi esterni erano i frutti degeneri della sudditanza imposta da quel pulviscolo abbruttito che si agitava dentro di loro!

    Riemergendo dal viaggio nel mare interno colsero la verità sulla realtà quotidiana, comprendendo quale rivoluzionaria scoperta avessero fatto.

    Il loro primo obiettivo fu di afferrare i principi creatori di questa situazione, comune all’intera razza umana; ne trasformarono la valenza, cancellarono le false personalità che costellavano il loro mondo intimo e, alfine, divennero esseri reali, sovrani di loro stessi, raccogliendo, filtrando, unendo, eliminando, fondendo tutti i fattori oggettivi presenti scoperti nel crogiuolo del proprio cosmo.

    Il processo alchemico fu lungo e complesso, ma li rese liberi dalle sconosciute, inconsce, turpi prigionie imposte loro fin dalla nascita da qualche invisibile guardiano cosmico.

    A questo punto cominciarono a guardarsi intorno, osservarono imparzialmente l’ambiente circostante e colsero solo pazzia e deformità intorno a loro. Si chiesero se vi era qualche speranza di liberare l’umanità dalle proprie ossessioni.

    Intuivano che l’esplorazione da intronauti era solo per i puri avventurieri determinati, perché era colma di insidie. La più demoniaca era quella di riemergere con la convinzione di avere percepito l’oggettività del proprio mondo, dopo aver soggiogato gli egotici frammenti della psiche, mentre in realtà si veniva sedotti dal lato tenebroso e diabolico della propria mente, sovrana incontrastata della follia umana.

    ***

    Alcuni di loro desistettero dall’impresa e si allontanarono, cercando silenzi e solitudine in angoli sconosciuti del pianeta, in cima ad altopiani montuosi o in verdeggianti praterie ai confini del globo.

    Altri ebbero compassione dei loro fratelli. Scelsero qualsiasi artificio per stimolare, incuriosire, avvicinare quella moltitudine di vuoti gusci psichici che si aggirava sul pianeta, pur sapendo quale impresa monumentale toccava loro e a quali rischi fisici si sarebbero esposti nel tentativo di divulgare questi segreti.

    Le informazioni furono frantumate, sminuzzate, oscurate, volutamente alterate, per permettere una più facile assimilazione per chi aveva occhi per vedere e orecchie adatte a intendere. Tracce storiche di questo approccio furono fuse nei miti, accennate nei testi sacri, mimetizzate nelle opere d’arte, nei templi, nei dipinti, nei libri.

    I secoli che passavano deformavano sempre di più gli indizi primigeni: solo rare pagliuzze d’oro brillavano per brevi attimi nella mente degli uomini più ricettivi, mentre il ruscello sotterraneo – anche se con difficoltà – continuava a scorrere.

    Anche nelle pieghe del xx secolo emersero solitari maestri disposti a sacrificarsi e riaccendere il fuoco della conoscenza. Come sempre l’umanità, ormai regredita a una folle moltitudine di irrequieti babbuini urlanti, reagì indispettita a questo refolo di Libertà.

    Soffocò rapidamente questi messaggi ancora sufficientemente integri e vomitò, al loro posto, impressionanti correnti di pensiero diseducativo, manipolando le informazioni spirituali criptate dagli antichi maestri e alterandone profondamente il significato, creando nuovi falsi ideali e vendendo a peso d’oro i concetti, proclamando un buonismo demenziale dilagante per l’intero globo. Secondo questi gretti soggetti la Libertà, con la L maiuscola, si poteva comprare anche al supermercato, cercandola sugli scaffali più in vista.

    La sinergia tra il potere politico, le innovazioni telematiche e le nuove avanguardie pseudo-spirituali di oggi, ha reso l’ipnotico messaggio ancora più alienante e demoniaco, fomentando il rischio di un non ritorno assoluto per questa umanità capace solo di autodistruggersi, dominata com’è dalla pura egotica ingordigia edonistica.

    Intanto, lassù nei cieli e quaggiù negli Inferi, qualcuno o qualcosa sorride soddisfatto. La produzione emozionale caotica aumenta, le energie psichiche attivano le dinamo dimensionali, la canalizzazione energetica è in continuo aumento e i silos cosmici verranno totalmente colmati. Per loro, che si proclamano i dominatori galattici, non c’è inquinamento ambientale che possa danneggiare la produzione…

    Prologo

    Godot l’ho incontrato sulla riva del fiume Po al compimento del mio ventiduesimo compleanno.

    Barbara, una ragazza dal nome evocativo, me lo aveva accennato in quel tranquillo pomeriggio di fine dicembre, parlando del cantautore Claudio Lolli e del suo testo musicale su quella figura sconosciuta. E già quella prima volta il mio corpo aveva reagito con brividi intensi alle parole forti espresse dal musicista. Da allora con metodica presenza quel nome è affiorato nel mio contesto quotidiano; era solo un richiamo flebile ai margini della mia esistenza, un fantasma culturale di qualche ancestrale ricordo perso nella nebbia del tempo, ma compariva in precisi momenti del mio viaggio attuale su questo pianeta.

    Un giorno, sette anni fa, un lucido e cosciente sogno irruppe nella mappa della mia vita. Lo analizzai con attenzione, con l’esperienza di chi ha colto un forte richiamo dal suo mondo interiore. Un viaggio onirico ai confini del mondo, dove un cielo di fuoco si preparava a riversare con violenza su una ridente cittadina islandese dense e velenose nuvole di ceneri vulcaniche e gas, che lasciava presagire un inquietante cambio della mia vita. La conferma oggettiva di quell’apparente fantastico e irreale sogno non si fece attendere: dodici mesi dopo uno sconosciuto vulcano islandese di nome Eyjafjallajökull paralizzò il traffico aereo europeo tra l’aprile e il maggio 2010. Il destino mi aveva dato un ultimatum e, per l’ennesima volta nella mia esistenza, mi imponeva un metafisico viaggio nelle tenebre della mia mente senza che io avessi la minima idea di quale strada avrei dovuto percorrere. Non dovetti aspettare molto per cogliere il segnale indicatore. Passarono solo due mesi dall’inaspettato messaggio dal profondo quando riapparve, intenso come non mai, Samuel Beckett, col suo Aspettando Godot; mia figlia doveva sostenere un esame universitario in lingua inglese proprio su quella pièce e mi chiese di darle qualche spunto significativo sull’opera per stupire il docente. Non conoscevo il testo perché ero digiuno di quella lingua cosmopolita e non pensai neanche di cercare qualche informazione su internet ma, grazie a uno stringato riassunto fatto della ragazza, capii che in quell’opera teatrale c’era qualcosa di affascinante. Quando scoprii una singolare architettura matematico-geometrica celata nella pièce iniziai un vero viaggio, alla scoperta di quell’uomo scontroso e burbero, grande letterato e misterioso nunzio mai compreso compiutamente dall’umanità. Da quel momento la mia vita si intrecciò con l’esistenza di Beckett e ne venne stravolta: energie imponderabili emersero in modo prepotente e insistente da dimensioni parallele e tracimarono nella mia esistenza, già di per sé inusuale. Qui narro il bizzarro e sconcertante incontro tra questi due uomini.

    I. Torino, 2 ottobre 2009

    Era una serata di inizio autunno.

    Una luce ancora vivida abbracciava la città. Camminavo nella periferia settentrionale, in vie strette e rumorose intrise di contrastanti odori di cibo, segnali inconfondibili delle diverse etnie che convivono nel formicaio urbano addensato sulle rive del Po. Avevo un appuntamento con un vecchio amico, George, per andare a teatro: Samuel Beckett, Aspettando Godot. Non avevo avuto fino a quel momento particolari interessi per quel tipo di teatro: pur conoscendo superficialmente il testo, ero lì più che altro per far piacere a una cara persona conosciuta nell’adolescenza.

    «Aspettando Godot», borbottavo, parafrasando l’inconfondibile ritornello della pièce, mentre mi muovevo verso il teatro.

    Ero piuttosto nervoso: quella sera non so cosa avrei dato per rientrare presto a casa, ma un fastidioso senso del dovere misto a curiosità aveva preso il sopravvento. Guardai l’orologio: ero in leggero anticipo, rallentai il passo e mi guardai intorno. Una tiepida e birichina brezza si era infilata nel dedalo delle viuzze e trascinava allegramente sull’asfalto corroso manciate di foglie secche, portandole a spasso come cagnolini mansueti. Il miagolio lontano di un gattino attirò la mia attenzione per un attimo, poi la sgommata di un’auto guidata da un imprudente ragazzino mi riportò alla cruda e imprevedibile realtà della vita di ogni giorno. Scosso dall’imprevisto allungai la falcata, chissà se quell’episodio preannunciava qualche evento futuro… L’esperienza negativa si dissolse come neve al sole quando incrociai il mio amico, a pochi passi dal teatro. Era da un po’ di anni che non ci incontravamo, ma quando misi a fuoco il suo sguardo trasparente e il suo particolare e inconfondibile sorriso, mi si scaldò il cuore e subito la mente aprì la cassapanca dei ricordi: ci conoscevamo da ragazzini, ne avevamo combinate delle belle. La mia istintiva tensione si allentò e lo seguii fiducioso: «Vedrai quanto sono bravi i miei due amici che interpretano i protagonisti della pièce, vedrai come Aspettando Godot ti sorprenderà e sconvolgerà».

    ***

    Il primo impatto con il piccolo teatro era però stato desolante. La struttura era vecchia, decadente, corrosa dal tempo e impregnata da un pungente odore di muffa. Eravamo stati tra i primi a entrare e a calpestare quel pavimento polveroso e vetusto. George, entusiasta come non mai, mi aveva letteralmente trascinato tra le file delle zoppicanti sedie disposte un po’ a casaccio per poi suggerirmi di posizionarci strategicamente vicinissimi al palcoscenico, le cui assi erano logore e sudice.

    Che bella serata mi attende!, avevo pensato, disorientato da un ambiente così degradato e disarmonico rispetto al tenore della rappresentazione. Invece, sorprendentemente, il prosieguo dell’evento aveva modificato il mio umore altalenante, merito di attori coinvolgenti, calati perfettamente nell’atmosfera surreale e rarefatta dell’opera. Gli spettatori, dapprima intimoriti dallo spessore e dall’importanza del testo, erano diventati via via più partecipi, si immedesimavano nelle gag, ridevano dell’assurdità delle situazioni proposte, si schieravano per Vladimir o Estragon, ridacchiando beffardi per la durezza del destino abbattutasi su Pozzo nel ii atto: avrebbero voluto essere loro a maltrattare l’orgoglioso e tracotante signorotto, diventato improvvisamente cieco e fragile, miserevole e tremebondo, un pusillanime ridotto a una larva umana senza più memoria.

    ***

    Anch’io ero stato coinvolto dalle emozioni, sentivo qualcosa dentro di me che cercava di emergere, avvertivo sensazioni non ben definite che bussavano alla superficie della coscienza. Assalito emotivamente in modo così diretto, avevo cercato di difendermi con una maggiore concentrazione interiore, chiudendo gli occhi alla ricerca di un respiro profondo e rilassante. Avevo esplorato innumerevoli percorsi meditativi nel corso della vita e mi ero trovato a osservare stupefacenti dimensioni alternative, alcune delle quali abitate da fantastiche forme di vita intelligenti, tuttavia quella sera mi ero trovato impreparato alla visione che mi si presentò all’improvviso.

    Una verdissima radura, circondata da una foresta impenetrabile, dove due enormi corvi dalle piume nere iridescenti stavano strappando brandelli di carne da un uomo riverso a terra, ormai morente. Ma la cosa sorprendente accadde un attimo dopo: il corvo alla destra della mia visione si voltò verso di me, come se intuisse che lo stessi osservando. Ebbi solo il tempo di intravedere i suoi crudeli e luminosi occhi – composti da migliaia di piccole celle color rubino simili all’organo visivo delle mosche – fissarmi ferocemente e osservare i suoi lucidi artigli piantati saldamente nel terreno. Poi, senza preavviso, sferrò un attacco violentissimo.

    Una massa scura di piume si fiondò verso di me a becco proteso. Una frazione di secondo dopo avvertii un dolore lancinante sulla fronte, che sovrastò tutte le altre mie percezioni sensoriali. La singolare fitta penetrò in profondità nel cervello, come se delle unghie adunche stessero scavando nella materia cerebrale o delle termiti stessero divorando i tessuti interni. In preda a un terrore ancestrale urlai con tutto il fiato che avevo in corpo. Un lontano e

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