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Andare a Kobânê: La condanna del fascismo dell’Isis e del regime di Erdogan nella storia e nella memoria delle vittime della strage di Suruç
Andare a Kobânê: La condanna del fascismo dell’Isis e del regime di Erdogan nella storia e nella memoria delle vittime della strage di Suruç
Andare a Kobânê: La condanna del fascismo dell’Isis e del regime di Erdogan nella storia e nella memoria delle vittime della strage di Suruç
E-book170 pagine2 ore

Andare a Kobânê: La condanna del fascismo dell’Isis e del regime di Erdogan nella storia e nella memoria delle vittime della strage di Suruç

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Era il 20 luglio del 2015. A Suruç, capoluogo dell’omonimo distretto turco confinante con la Siria, centinaia di ragazzi e ragazze, militanti della Federazione delle Associazioni Giovanili Socialiste e provenienti da ogni angolo del paese, si trovano nel giardino del centro culturale insieme a ciò che hanno portato con loro: libri, giocattoli e vestiti utili a dare un contributo alla ricostruzione di Kobânê, la città-martire della rivoluzione del Rojava, il luogo in cui l’autorganizzazione popolare ha dimostrato di poter tenere testa e addirittura sconfiggere le milizie fasciste dell’Isis.
«L’abbiamo difesa insieme, la ricostruiremo insieme», hanno scritto i giovani socialisti turchi su uno striscione: un messaggio di pace e solidarietà destinato a essere travolto da un violento attacco islamista quando, poco prima di mezzogiorno, la bomba di un attentatore sucida – probabilmente una ragazza diciottenne – uccide 33 persone, ferendone oltre cento. Immediatamente, sorda a qualsiasi dolore, sulla strage di Suruç cala la censura di Erdogan.  Gli stessi social network vengono oscurati dal regime del “Sultano”, senza riuscire, però, a impedire che tra l’opinione pubblica circolasse una domanda: come è stato  possibile, per un attentatore e la sua ingente quantità di esplosivo, riuscire ad attraversare il blindatissimo confine turco-siriano?
Oggi che Erdogan guida in prima persona l’offensiva turca contro la Siria del Nord, la storia e la memoria delle vittime di Suruç, raccolte da Arzu Demir, rappresentano un atto di accusa senza precedenti nei confronti dell’ipocrisia turca e dei suoi alleati europei e statunitensi. Perché “andare a Kobane”, per i giovani uccisi a Suruç  nel 2015, così come per un numero sempre maggiore di persone di qualunque nazionalità, continua a essere, più che un messaggio, una sfida lanciata a tutti i regimi che, arrogandosi con la forza il diritto di agire nel nome della “democrazia”, credono di poter continuare a soffocare le aspirazioni alla giustizia e alla libertà.
LinguaItaliano
Data di uscita9 set 2021
ISBN9788867183142
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    Anteprima del libro

    Andare a Kobânê - Arzu Demir

    PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA

    Il massacro di Suruç, che il 20 luglio 2015 ci ha portato via trentatré dei nostri rivoluzionari, ha avuto un’importanza storica sia per la Turchia e per il Kurdistan settentrionale, che per la vita, il futuro e l’esperienza di ognuno di noi rivoluzionari.

    Quello di Suruç fu il primo attentato realizzato dalle bande fasciste e integraliste di Daesh in Turchia/Kurdistan settentrionale. Con quel massacro il regime dittatoriale dell’Akp pose fine di fatto al processo di pace e riavviò la sua guerra contro il popolo kurdo.

    I fatti di Suruç hanno preso posto al centro della nostra vita; sia da un punto di vista personale che collettivo, esiste un prima di Suruç e un dopo Suruç.

    Dall’epoca del massacro a oggi, gli attacchi da parte dell’Akp ai popoli della Turchia e del Kurdistan settentrionale non sono mai usciti dall’ordine del giorno. Nei giorni in cui veniva preparata questa edizione italiana, la dittatura dell’Akp muoveva il suo attacco verso il cantone di Afrin della Federazione della Siria Settentrionale (Rojava) trascinando nuovamente i civili in mezzo alla guerra. E tuttavia alla resistenza contro l’occupazione turca partecipano tanti rivoluzionari provenienti dalla Turchia e da tante altre parti del mondo. Nei giorni in cui ho iniziato a scrivere queste parole ad Afrin sono caduti il combattente spagnolo Samuel Prada e il franco-bretone Olivier François Le Clainche, mentre l’olandese Sjoerd Heeger è caduto a Deir el-Zor dando la sua vita per la rivoluzione del Rojava.

    Queste tre morti hanno riportato ancora una volta all’attenzione il carattere internazionalista della rivoluzione del Rojava. I compagni uccisi a Suruç sapevano benissimo che questa rivoluzione non era qualcosa che interessava solo il Rojava, ma che li riguardava da molto vicino. Quello che li fece mettere in strada per un viaggio così pericoloso era proprio il carattere internazionale della rivoluzione.

    Nella prima parte del libro che vi trovate fra le mani trovano posto le testimonianze delle persone che per pura fortuna sopravvissero al massacro. Raccontano dei motivi per cui parteciparono alla campagna per la ricostruzione di Kobane della Federazione delle Associazioni della Gioventù Socialista (Sgdf) intitolata Insieme l’abbiamo difesa, insieme la ricostruiremo. Nella seconda parte invece trovano posto i racconti di vita delle ragazze che partirono per quella campagna, affascinate dal carattere femminile della rivoluzione del Rojava: Büşra Mete, Polen Ünlü, Hatice Ezgi Sadet, Ece Dinç, Duygu Tuna, Nazlı Akyürek, Nuray Koçak e Aydan Ezgi Şalcı.

    La differenza fra l’edizione italiana e quella turca è che in quest’ultima prendono posto anche i ricordi dei compagni del Mar Nero Alican Vural, Mert Cömert e Koray Çapoğlu, del circasso Ferdane e suo figlio Nartan Kılıç, dell’alevita arabo Okan Pirinç, dei giovani kurdi Emrullah Akhamur, Murat Yurtgül, Osman Çiçek, Kasım Deprem, Süleyman Aksu, Uğur Özkan, Erdal Bozkurt e Veysel Özdemir, degli anarchici Alper Sapan, Vatan Budak, Medali Barutçu, Serhat Devrim ee Evrim Deniz Erol, dei comunisti Cebrail Günebakan, Çağdaş Aydın e Yunus Emre Şen, Nazegül Bahar Boyraz, Cemil Yıldız e İsmet Şeker.

    Per questo motivo voglio scrivere qui qualche riga riguardante i martiri di Suruç di cui non si parla in dettaglio nell’edizione italiana.

    Alican Vural, Mert Cömert e Koray Çapoğlu si misero in viaggio verso Kobane come rivoluzionari del Mar Nero. Oltre a essere testimoni di una rivoluzione e compagni di sorte dei popoli del Rojava, quello che volevano cambiare era anche il destino delle loro regioni. Infatti la regione del Mar Nero è una regione in cui è forte l’influenza della mentalità sciovinista e fascista turca. Lì è persino difficile fare attività politica attraverso i normali canali democratici. Nonostante questo, Alican, Mert e Koray da lì decisero di partire per Kobane. Ognuno di loro aveva le sue particolarità. Mert per esempio. La provincia di Bafra, nella regione di Samsun, nella quale era cresciuto, è forse una delle province più conservatrici di tutto il Mar Nero. Quando partì per andare verso le terre della rivoluzione aveva dentro di sé la voglia di dimostrare che sul Mar Nero non ci sono solo sciovinismo e razzismo. Ci sono anche rivoluzionari. Mert era un ragazzo che era stato molto influenzato dalle proteste di Gezi Park. Del resto, gran parte dei giovani massacrati a Suruç nel 2013 avevano partecipato, a Istanbul o nelle loro province, alle proteste contro lo sradicamento di alcuni alberi nel Parco Gezi, che poi si trasformarono rapidamente in una grande sollevazione contro il potere.

    I familiari di Koray erano tesserati del partito fascista Mhp o dell’Akp. E tuttavia Koray era fra i manifestanti a Gezi. Inoltre era anche un tifoso del Trabzonspor e quando partì per Kobane aveva al polso il braccialetto della sua squadra e la bandiera del gruppo Trebisonda Rivoluzionaria (Devrimci Trabzonspor). Il 20 luglio quando fu ucciso al Centro Culturale Amara stringeva in mano la bandiera. Quella bandiera che portava sempre con sé in segno d’onore, quel giorno servì per avvolgerlo.

    I giovani anarchici Alper Sapan, Vatan Budak, Medali Barutçu, Serhat Devrim e Evrim Deniz Erol… ognuno di loro ha una storia a parte. Per esempio Serhat. Era cresciuto dentro le sollevazioni di Gezi. Era nato a Muş, una città kurda. Spesso scappava dalla sua famiglia per andare a Istanbul e partecipare alle manifestazioni. Quelli che erano in strada nel giugno del 2013, sicuramente hanno incontrato Serhat. Quelli che erano sulla barricata di Gümüşsuyu avranno sicuramente lanciato qualche pietra allo stesso blindato insieme a questo giovane ragazzo con in volto la maschera di Guy Fawkes. Era uno di quei saccheggiatori tanto odiati dal dittatore Erdoğan. Serhat non aveva una casa in cui stare a Istanbul. Di solito dormiva al parco Sibel Yalçın, nel quartiere più proletario di Okmeydanı. Quando faceva freddo invece, gli autobus cittadini diventavano la sua casa; andava e veniva dall’Asia all’Europa. Non erano in tanti a sapere queste cose. Non trovava mai i soldi per andare da Muş a Istanbul. Per trovare i soldi rivendeva i telefoni che il padre gli comprava. Per Serhat, Istanbul voleva dire movimento, rivoluzione. Serhat era andato a Suruç facendo l’autostop da Muş insieme a Evrim Deniz e Ömer Barutçu. Da quel viaggio è tornato indietro solo Ömer.

    Così come la rivoluzione del Rojava oggi è difesa da molte nazionalità ad Afrin, allo stesso modo tante nazionalità ieri ricostruivano Kobane. La mamma Ferda Kılıç e i suoi figli Sinem e Nartan erano circassi. Oltre a partecipare alla ricostruzione di Kobane volevano provare a costruire un ponte fra i popoli. Il loro obiettivo era di dire «in quanto circassi siamo vicini ai popoli del Rojava». Conoscevano bene la loro storia. In quanto membri di un popolo che aveva rischiato il genocidio, capivano bene i sentimenti di un popolo che cerca di rialzarsi, dopo esser stato vittima di massacri. Il loro dolore e le loro lacrime parlavano una lingua comune.

    Okan Pirinç invece era un arabo alevita che quando fu ucciso a Suruç non aveva ancora compiuto diciotto anni. Viveva ad Antakya (Antiochia) vicino al confine con la Siria e alla guerra. Era nel gruppo Kgö – Komünist Gençlik Örgütü (Organizzazione della Gioventù Comunista), gruppo giovanile del Mlkp, il partito Comunista Marxista Leninista. A ogni opportunità ribadiva che in quanto arabo alevita era suo dovere essere a fianco del Rojava.

    I giovani kurdi Murat ed Emrullah volevano dimostrare che anche i letterati possono fare qualcosa in Rojava. Murat era stato molto impressionato dalla rivolta di Gezi. Dopo Gezi vedeva in Kobane l’opportunità di fare nuovamente qualcosa.

    Osman Çiçek e Kasım Deprem erano originari di Suruç. Erano cresciuti in povertà nella città di confine di Akçakale. Akçakale e Suruç sono a un passo di distanza dalle terre della rivoluzione. Del resto la parola confine oltre a quel filo spinato e alle mine sotto terra non ha poi molto senso. Ognuno lì ha metà del suo cuore dall’altra parte. Anche per Kasım e Osman era così. Dall’altra parte in fondo c’era la loro terra, la loro patria. Il viaggio in cui si imbarcarono insieme alla Sgdf in fin dei conti era un viaggio verso la loro terra.

    Süleyman Aksu era un insegnante di inglese nella città kurda di Yüksekova, in provincia di Hakkari. Quando disse a suo padre che voleva andare a Kobane, il padre gli rispose che gli avrebbero potuto togliere la licenza da insegnante. Süleyman gli rispose: «Ma se non ci andiamo noi, chi ci va?». Nella sua ultima lezione disse ai suoi alunni che senza pagare un prezzo non si ottiene nulla. Era una lezione di umanità. Gli studenti di Süleyman capirono molto bene il suo messaggio e al funerale si presentarono con lo striscione «Abbiamo imparato la tua ultima lezione, maestro».

    Uğur Özkan era di Cizre. Erdal Bozkurt di Ağrı. Veysel Özdemir di Diyarbakır. Per loro dire Kobane è come dire Cizre, Ağrı, Hakkari. Volevano andare nella loro terra, privando di significato le linee di confine che gli Stati avevano tracciato fra di loro.

    Fra le trentatré persone uccise a Suruç c’erano padri e madri. Per esempio Nazegül Boyraz. Una donna piena di vita, conosciuta nel suo ambiente come la madre dei rivoluzionari. Eppure, oltre a essere una madre, era una donna che aveva fatto la rivoluzione nella propria vita. Il viaggio verso Kobane era per lei lo sforzo di mettere un mattone nella rivoluzione del Rojava così come nella sua personale rivoluzione. İsmet Şeker, partito dal quartiere Gazi di Istanbul, era un padre. Suo figlio Şiar Koçgiri che prendeva parte alla resistenza di Kobane era rimasto ferito il 22 gennaio 2015. Per ore lo Stato turco non gli diede il permesso di passare la dogana, e la sua situazione era grave. Şiar Koçgiri è morto in un ospedale a Diyarbakır nello stesso giorno in cui Kobane ritrovava la libertà, il 27 gennaio 2015. Dentro al padre rimase il desiderio di vedere le terre in cui suo figlio era andato a combattere. Avrebbe contribuito a ricostruire Kobane, e in particolare una clinica che potesse curare i combattenti e non lasciarli nella situazione in cui si era trovato suo figlio. Lui non poté contribuire a costruire quella clinica, ma con l’aiuto della solidarietà internazionale è stato possibile costruire un ospedale.

    Cemil Yıldız aveva cinquantotto anni quando si mise in viaggio. Era di Sinop, una città del Mar Nero. Aveva conosciuto il pensiero rivoluzionario ai tempi del liceo e da allora non l’aveva più abbandonato. Era membro del Mlkp. Il suo cuore batteva all’unisono con Kobane e il Rojava. Non era uno che poteva starsene seduto a Istanbul a guardare quello che succedeva nel Rojava. Lui doveva andare.

    Cebrail Günebakan per tutti i compagni era conosciuto come Cebo. Era cresciuto a Gülsuyu, uno dei quartieri più poveri di Istanbul. In questo quartiere ricco di attività di lotta, aveva conosciuto il pensiero rivoluzionario in giovane età. Aveva conosciuto la violenza dello Stato già da giovane. Quando conobbe la prigione per la prima volta aveva appena compiuto diciotto anni. Il motivo del suo arresto fu quello di aver partecipato alle proteste contro il massacro carcerario del 19 dicembre. Rimase per un anno e mezzo nella prigione speciale di Tekirdağ. Dopo essere stato rilasciato nel 2012, condusse delle attività giovanili a Muğla e a Izmir; nel 2013 tornò a Istanbul. Nel frattempo partecipava ai forum popolari aperti durante le barricate di Gezi, a Taksim, nei quartieri proletari. Nell’estate del 2013, mentre combatteva contro le bande di spacciatori attraverso le quali il governo dell’Akp portava il suo attacco ai quartieri proletari che si erano sollevati con Gezi, fu ferito con un colpo d’arma da fuoco. Senza che potesse completare il ciclo di cure, nell’ottobre dello stesso anno fu arrestato per la lotta che aveva condotto contro queste bande. Dopo sette mesi di prigione riprese la lotta da dove l’aveva lasciata. Membro del Mlkp e del Comitato Centrale del Kgö, nell’autunno del 2014 andò ad Adana per un lavoro politico. Anche lì era nel mirino della polizia. Il 15 dicembre del 2014, mentre apriva una tenda di veglia funebre per la combattente Mlkp Sibel Bulut, caduta a Kobane, rimase vittima di un attacco della polizia insieme agli altri compagni. Le telecamere ripresero la polizia che cercava di sfigurargli il volto. Dopo il fermo, Cebrail fu di nuovo rilasciato. Niente riusciva a fermarlo. Andò a Suruç una settimana prima per i preparativi della campagna Insieme l’abbiamo difesa, insieme la ricostruiremo. Lì si occupò lui di tutto quel che c’era da fare.

    Çağdaş Aydın si mise in viaggio da Istanbul, insieme a suo padre Fethi. Fethi, che se la cavò con qualche ferita nel massacro, fu costretto a portare la bara della figlia. Çağdaş non mancava mai all’evento del sabato per i desaparecidos nelle carceri turche. Era una persona coscienziosa. Quando a Soma trecentouno lavoratori persero la vita in miniera lei andò a Zonguldak e organizzò insieme ad altri due amici una manifestazione di protesta. Non poteva rimanere in silenzio davanti a un massacro.

    Yunus Emre Şen era di Van. Tutti lo chiamavano Keke. Keke, anche lui membro del Kgö, era fra gli eroi senza nome di Taksim. Presente in tutto ciò che accadde sulle barricate di Kızılay. Era un giovane militante sul cui volto non mancava mai il sorriso.

    Alcuni dei trentatré rivoluzionari che ci sono stati portati via da Daesh erano

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