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Il caldo era intenso
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E-book127 pagine1 ora

Il caldo era intenso

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Info su questo ebook

“Un giorno di fine giugno, rientrando a casa trovai mia moglie con un muso lungo come quello di un cavallo. Capii subito che non sarebbe stata una buona serata: nostra figlia si era chiusa in camera e non voleva parlare con nessuno, soprattutto con me. Le chiesi il perché. Lei mi urlò da dietro la porta che non era e non voleva essere la figlia di un terrorista […] Abitiamo in un piccolo paese dove tutti sanno tutto degli altri, dovevo immaginare che prima o poi sarebbe successo. Era giunto il momento che avevo a lungo rinviato. Ora dovevo affrontarlo”.                                                                                                                                                                                            
“Non siate troppo severe nel giudicare le scelte fatte nel passato, sforzatevi di capirle e di trarre dalla loro conoscenza la forza che ogni giovane deve avere. Studiate, allargate il più possibile le vostre conoscenze e la vostra capacità critica: il futuro è vostro, non permettete a nessuno di decidere per voi”.
LinguaItaliano
EditoreHarpo srls
Data di uscita18 dic 2020
ISBN9788899857578
Il caldo era intenso

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    Anteprima del libro

    Il caldo era intenso - Giorgio Galli

    Galileo

    Un giorno di fine giugno

    Un giorno di fine giugno del 2003, o forse del 2004, rientrando a casa trovai mia moglie con un muso lungo come quello di un cavallo. Capii subito che non sarebbe stata una buona serata. Nostra figlia si era chiusa in camera e non voleva parlare con nessuno, soprattutto con me. Le chiesi il perché. Lei mi urlò da dietro la porta che non era e non voleva essere la figlia di un terrorista! La sua professoressa di italiano aveva assegnato un tema sull’attentato alle Torri Gemelle di New York e una compagna di classe le aveva sbattuto in faccia, davanti a tutti, che lei era la figlia di un terrorista.

    Abitiamo in un piccolo paese dove tutti sanno tutto degli altri e quindi dovevo immaginare che prima o poi sarebbe successo. I nodi arrivano sempre al pettine. Era giunto il momento che avevo a lungo rinviato, ora dovevo affrontarlo.

    Comunarda, mia madre

    Il caldo era intenso, la poltrona sotto la quercia, fuori dal mio studio, sembrava un trono abbandonato in tutta fretta. La calura era insopportabile, il sole filtrava tra il fogliame e rendeva l’ambiente sottostante immobile come l’acqua nel pozzo. Il tempo si era fermato, tutto appariva irreale, solo le cicale e il caldo turbavano l’atmosfera. Mi parve che il corpo mi abbandonasse, scivolasse via. Percepivo però ogni rumore, ogni minimo fruscìo, mentre il calore della terra, che mi avvolgeva con i suoi vapori, mi dava le vertigini. In lontananza il rumore di un colpo di fucile, l’abbaiare di un cane, il suono di una campanella, il canto degli uccelli in volo. Mi resi conto di essere disteso su un morbido materasso di erba. Gli odori che mi circondavano erano di erbe, piante, fiori di campo; il profumo di frutti maturi che da fondovalle risalivano portati dall’umidità del lago erano talmente forti che ne sentivo il sapore in bocca, il cielo era sempre lì, immobile come una lastra di piombo, il suo peso greve mi paralizzava a terra. Gli uccelli continuavano a volteggiare e i miei occhi seguivano a fatica le linee che tracciavano in cielo. All’improvviso un fruscio, sempre più vicino, poi l’odore di un profumo conosciuto mi avvolse. Spalancai gli occhi: «Mamma!».

    Ora la vedevo, mi sorrideva, avrei voluto che il tempo si fermasse. Mi guardava come solo lei sapeva fare: il verde dei suoi occhi, il suo sorriso erano ancora gli stessi, stesse erano le labbra che avevano baciato la mia fronte e le mani che, mi resi conto, erano quelle di un bambino. Non eravamo più sul prato: mi guardai attorno e vidi centinaia di donne e bambini che, come noi, erano sdraiati sulla strada formando un tappeto umano. Sopra i marciapiedi c’erano gli uomini: i loro volti li conoscevo quasi tutti, lo sguardo austero e profondo, pulito. Uomini forti, orgogliosi e segnati dal tempo che li divorava tutti i giorni, tutto l’anno, per tutta la vita, nei campi.

    I loro occhi brillavano di una strana luce: «è la luce dell’unica cosa di cui sono padroni: la Dignità», mi disse mia madre sorridendo. Le mani erano nodose, livide per il sole, il freddo e il vento, sembravano rami di ulivi secolari. Al collo avevano fazzoletti rossi: a me sembravano centurioni romani pronti alla battaglia.

    «Mamma, perché siamo qui?».

    «Perché tu hai un dovere! Non dimenticare mai, sempre dovrai ricordare che ai soprusi bisogna ribellarsi, resistere. Resistere significa difendere la libertà, ripensare a cosa è civile, cosa è umano, cosa è giusto. Non dimenticarlo mai, un giorno ti servirà anche a difendere la tua arte».

    «La mia arte?».

    «Sì, la tua arte. Sarà faticoso, difficile, incontrerai delusioni, ma dovrai tener duro, vivrai un viaggio straordinario, che non tutti hanno la fortuna e la forza di affrontare. E, come tutti i sognatori, potrai mostrare cose che sono invisibili agli occhi di chi guarda ma non vede».

    Mentre la ascoltavo, ne respiravo il profumo, i ricordi si sovrapponevano. Comunarda! Quante volte mi aveva raccontato la storia del suo nome, un nome del quale era orgogliosa e che le era stato tolto " dagli omuncoli del regime nel 1932, quando le fu sottratto e modificato all’anagrafe in Maria". Avevano paura di un nome che lei, però, continuò orgogliosamente a portare, resistendo alla barbarie fascista.

    Attorno a noi intanto lo scenario era mutato. Automezzi blindati, immobili come piramidi nel deserto, circondavano la folla. La mascherina con il marchio FIAT in bella vista sembrava una bocca spalancata, non prometteva niente di buono, assomigliava a un grosso calabrone dall’aspetto accigliato. Disposti uno a fianco all’altro, come su una griglia di partenza, sembrava aspettassero il via. Le portiere si aprirono e una lunga fila di uomini in divisa armati di scudi, manganelli, caschi con le visiere abbassate si dispose davanti a noi.

    La luce del sole rifletteva sul vetro delle visiere, rendendo impossibili vedere i loro volti. Noi ragazzini eravamo terrorizzati, le persone intorno non sapevano che fare, si guardavano l’un l’altra, cercando di capire ciò che sarebbe accaduto. Alcuni fra i manifestanti ci invitavano a stare calmi, che mai ci avrebbero fatto del male, specialmente ai bambini e alle donne. La nostra, dicevano, è una protesta pacifica, è un nostro diritto essere qui. Gli ufficiali ci ordinarono con tono minaccioso di sgomberare la strada, i manifestanti risposero che volevamo solo giustizia per i braccianti morti. Io mi strinsi a mia madre, ricordo bene il calore del suo corpo, emanava un profumo di sapone di Marsiglia. Il battito del cuore si accordava con il mio in un unico strumento, batteva così forte che si sentiva senza appoggiare le orecchie sul petto, le sue parole calme mi sembravano una ninna nanna. Un attimo dopo si scatenò il finimondo: un ordine preciso, netto come un colpo d’arma da fuoco e gli uomini senza volto partirono alla carica. Le donne si irrigidirono diventando un corpo unico con noi bambini. Calci, pugni, manganellate, un caos di corpi, grida, minacce, un groviglio di braccia. Vidi mio padre cercare di avvicinarsi, cercai mia madre tra la folla. Attorno urla di dolore, pianto, il tonfo dei manganelli che colpivano alla cieca. Mio padre era vicino, cercava di afferrarmi per mettermi in salvo. Una manganellata lo colpì in piena faccia, il suo sangue schizzò tutto attorno. Lo visi portare via da alcuni compagni che lo presero sotto le braccia e lo trascinarono come un fantoccio. Il bianco candido della camicia e il suo bel fazzoletto rosso erano un tutt’uno con la maschera di sangue del suo volto. Due giorni dopo lo dimisero dall’ospedale, con una denuncia per manifestazione non autorizzata. Per un mese o forse più non parlò con nessuno per il dolore, per come gli avevano ridotto la bocca, ma la cosa che più lo faceva soffrire era l’umiliazione che gli avevano inflitto davanti a suo figlio. «Non ho mai vinto!», le sole parole che pronunciò.

    Mia madre passò cinque giorni in carcere con la stessa accusa di mio padre e in più con l’aggravante di lesione e oltraggio a pubblico ufficiale. Non era la prima volta che finiva in prigione. Era stata arrestata nel 1935 per aver cantato assieme ad altre donne l’inno di Mameli, dal fascismo considerato repubblicano e quindi contro il regime.

    La vita di mio padre era cambiata nel 1945, dopo la Liberazione. Fu allora che decise di lasciare la certezza del posto fisso per tornare a lavorare nei campi. Lo fece con gioia e con la certezza di fare la scelta giusta, la più dignitosa. Per tredici anni, fino al 1943, era stato uno dei capi squadra nell’azienda del conte Maselli, uno dei più importanti imprenditori romani. E per tutto quel tempo era stato perseguitato dal commissario politico del partito fascista dell’azienda: non era iscritto al PNF e per questa ragione ogni tanto veniva licenziato. Per essere riassunto, qualche giorno dopo, dall’ingegnere del conte. Nel 1945, quando l’azienda riprese l’attività, tutti gli operai vennero richiamati al lavoro. Anche mio padre si presentò, ma ad accoglierlo c’era quello stesso figuro che lo aveva vessato e che adesso, con la stessa immutata arroganza, invitava gli operai a prendere la tessera di un altro partito. Fu allora che decise che no, il lavoro non l’avrebbe accettato e sarebbe tornato a fare il contadino.

    L’aquilone

    Domenica di fine ottobre, l’aria era ancora calda, il vento giusto. «Papà, che colla useremo per attaccare la carta sui due pezzetti di canna?».

    Con il suo coltellino, mio padre aveva preparato l’intelaiatura, ora veniva la parte più difficile: «Con la colla che il nonno mi ha insegnato a preparare quando avevo la tua età: un cucchiaio grande di farina, mezzo bicchiere di acqua e chiara d’uovo, mescola bene e avrai una colla straordinaria. Tu, intanto, scegli i colori». Il primo fu il giallo, perché mi ricordava il colore del grano, poi il rosso, come il cappotto della mamma e, ancora, l’arancione e il rosa. Le mani di papà si muovevano rapide, sicure. L’aquilone prendeva forma: «Ma papà, è un pesce! I pesci non volano!».

    «Sii paziente, un giorno li vedrai volare anche t», rispose con un sorriso. Dallo zaino prese una scatola: era un astuccio di colori a tempera. Mi incantai a guardarli, affascinato. E da quel giorno i colori sono entrati nella mia vita per non lasciarmi più. «Adesso tocca a te - disse - decoralo come vuoi, usa la fantasia».

    Mi guardava compiaciuto mentre decoravo la carta disegnando squame di pesce di varie tonalità. Ero felice.

    Arrivò il momento di farlo volare. Ci provavo senza riuscire a farlo alzare da terra. Preso dallo sconforto mi arresi. «Non mollare mai, figlio mio, nella vita si vince e si perde, l’importante è non rinunciare mai, non perdersi d’animo». Afferrò il filo e l’aquilone prese vita: saliva leggero sempre più in alto, le foglie sembravano danzare al suo passaggio accarezzate dal vento e i miei colori splendevano alla luce del sole. All’improvviso una sbandata verso destra fece perdere quota all’aquilone che adesso scendeva veloce verso terra. Ma con un colpo secco

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