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A stasera e fai il bravo
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A stasera e fai il bravo
E-book213 pagine2 ore

A stasera e fai il bravo

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Info su questo ebook

Amsterdam, un sabato mattina del novembre 1942. Mamma Lena dà un bacio in fronte a Salo che sta entrando a scuola e gli dice: "A stasera e fai il bravo". A sei anni quelle parole sono i titoli di coda della vita serena di Salo Muller, che in questo libro racconta il suo inferno, dai contorni non ancora definiti a quell'età, e forse per questo ancora più doloroso. Mamma Lena e papà Louis sono vittime di uno dei tanti rastrellamenti voluti dalle SS in Olanda: finiscono deportati ad Auschwitz e Salo resta orfano. La resistenza olandese lo nasconde, lo aiuta a trovare alloggi di fortuna e famiglie che si fanno carico di lui. Alla fine della guerra lo attende una nuova partenza in un mondo libero: lo accolgono gli zii e dopo problemi di salute e di adattamento, trova la sua strada diventando fisioterapista dell'Ajax di Johan Cruijff, negli anni d'oro dal 1960 al 1972. Ma la pienezza della sua vita diventa la testimonianza: "Com'è possibile che sia accaduto? È una domanda che mi assilla ancora oggi. ...Ora però è giunto il momento di condividere questa storia, la storia della mia vita. Servirà a qualcosa? ... Non so rispondere, ma devo condividerla una volta per tutte".

... è giunto il momento di condividere
questa storia, la storia della mia vita.
Servirà a qualcosa? Mi sentirò più sollevato?
Sono domande che sorgono spontanee.
Non so rispondere, ma devo condividerla
una volta per tutte".
Salo Muller


LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2021
ISBN9788863458183
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    Anteprima del libro

    A stasera e fai il bravo - Salo Muller

    Torneranno i tulipani

    In memoria di Nedo Fiano (1925-2020)

    La memoria è futuro e pace. Soprattutto se viene da un uomo coraggioso e tenace come Salo Muller. Classe 1936, Salo parla, scrive, combatte perché ogni attimo possa diventare eterno. Suo padre, sua madre e quasi tutta la famiglia sono stati inghiottiti dai campi di sterminio. Non erano più nessuno in quanto ebrei e li hanno dispersi nel vento. Così, la vita di Salo è diventata memoria: sulle tracce di Primo Levi, ci ricorda che «è avvenuto quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire». Salo come Primo Levi, come Liliana Segre, Sami Modiano o Nedo Fiano. Ma Salo anche come colui che sta lottando affinché le società ferroviarie d’Europa, responsabili di aver trasportato gli ebrei a morire verso i campi, indennizzino gli eredi di quei sei milioni di innocenti che pesano sulla coscienza della storia.

    Amsterdam, un sabato mattina del novembre 1942. Mamma Lena dà un bacio in fronte a Salo che sta entrando a scuola e gli dice: «A stasera e fai il bravo». A sei anni quelle parole sono i titoli di coda della vita serena di Salo e sono il titolo del libro in cui racconta il suo inferno, dai contorni non ancora definiti a quell’età, e forse per questo ancora più doloroso. Il volume, che viene tradotto ora per la prima volta in italiano, è stato pubblicato nel 2005, dopo tre anni di scrittura: da anni Salo andava raccontando nelle scuole e in incontri pubblici la sua infanzia sfregiata. «Ho conservato – scrive con lucida amarezza – le lettere della Croce Rossa, lunghe una sola riga ciascuna. In una il nome di mia madre, Lena Blitz, nata il 20 ottobre 1908 e morta ad Auschwitz il 12 febbraio 1943. Nell’altra quello di mio padre, Louis Muller, nato il 20 luglio 1903 e morto ad Auschwitz il 30 aprile 1943».

    Mamma Lena e papà Louis sono vittime di uno dei tanti rastrellamenti voluti dalle SS in Olanda: finiscono deportati prima al campo di Westerbork e poi ad Auschwitz. Eppure, si sentivano, pur ebrei, Amsterdammers a tutti gli effetti come si credevano cittadini olandesi i 140mila ebrei del Paese, attivi nel settore tessile e in quello dei diamanti. Poi, proibizione dopo proibizione, divieto dopo divieto, perdono spazi, libertà, vita. Salo Muller racconta questa discesa agli inferi, che ricorda, per certi versi, il percorso tutto in discesa che si compie nel Museo Ebraico di Berlino. La struttura architettonica voluta da Daniel Libeskind è la fisicità della caduta: la percentuale di ebrei olandesi eliminati dai tedeschi, quasi l’80% del totale, è la più alta nell’intera Europa occidentale. Pure loro come tutti gli altri olandesi nel 1940 si trovarono impreparati di fronte all’invasione tedesca.

    Le pagine di Muller, anche nel ricostruire il clima di inizio anni Quaranta, sono cronaca pura, nessun fronzolo, nessun abbandono, per questo sanno incidere nei pensieri e possono essere perfette per i ragazzi: fotografie, istantanee, pezzi di storia in capitoli brevi e potenti. I tedeschi privano gli ebrei dei loro possedimenti – case, botteghe, negozi, terreni –, gli ebrei non possono usufruire di treni, tram, biciclette, taxi e telefoni pubblici, e l’avversione antisemita è tollerata sempre più apertamente. Il clima di quei giorni fa rabbrividire riletto oggi, fra degrado sociale, rigurgiti antisemiti e manifestazioni con le svastiche al petto.

    In quella temperie, Salo resta orfano senza accorgersene. La resistenza olandese lo nasconde, lo aiuta a trovare alloggi di fortuna e famiglie che si fanno carico di lui. I pollai sono i suoi nascondigli e gli armadi spesso diventano i suoi letti. Qualche settimana, qualche mese, e poi si cambia, ogni nuova famiglia un nuovo nome, un nuovo straniamento, una nuova partenza e un nuovo abbandono, fino ai mesi in Frisia, nel Nord dei Paesi Bassi, dove zio Omke e zia Beppe gli fanno da genitori e lui diventa Japje: «Mi sembrava di vivere in un mondo tutto mio, ma pensavo spesso a mamma e papà. Ancora non capivo perché non li avessi più rivisti né come mai in tutto quel tempo non avessi ricevuto loro notizie. Mi mancavano tanto anche zia Ju e zio Louis. Nel frattempo, avevo compiuto otto anni e già lavoravo sodo in campagna». Viveva ogni giorno come un sacrificio e, a posteriori, aveva preso coscienza delle tante zone grigie, quelle che separano vittime e aguzzini, sfiorandoli molto di frequente.

    Il tempo sospeso, l’infanzia annichilita da momenti atroci come assistere a una fucilazione per rappresaglia: Salo è un ragazzino minuto, troppo basso e magro per la sua età. Prega perché i genitori tornino, ma quando l’Olanda viene liberata si ritrova ad aspettare senza domani. Invece, lo aspetta una nuova partenza in un mondo libero: lo accolgono la zia Ju, sorella della mamma, e lo zio Louis. Combatte contro asma, debolezze e fantasmi, è uno studente ribelle e senza pace. Trova la sua strada – e che strada – grazie a Jan Rodenburg, docente al corso serale per diventare massaggiatore: dal 1960 al 1972 sarà il fisioterapista dell’Ajax di Johan Cruijff, che, con il suo calcio totale, porterà il pallone nella modernità.

    A parte l’ansia e l’asma, tutto bene ma le paure di Salo diventano ossessioni. Certo, ha molto dalla nuova vita: i successi con l’Ajax, una bella famiglia con Conny e i loro ragazzi ma è impossibile tornare alla leggerezza della batteria che nonno Barend gli aveva regalato a quattro anni. Così, con il tempo, la vita dell’ex massaggiatore dell’Ajax è diventata testimonianza e lotta. Anche contro le ferrovie. E Salo, prendendo spunto da quanto avvenuto in Francia nel 2014, ha chiesto e ottenuto dalla Nederlandse Spoorwegen (NS), la società olandese dei trasporti ferroviari, un risarcimento per i sopravvissuti e per gli eredi delle vittime della Shoah. Ora che la sua battaglia è diventata un nuovo libro, Mijn gevecht met de Nederlandse Spoorwegen, la volontà è di estendere la richiesta alle ferrovie tedesche. I suoi pensieri sono irrevocabili e senza appello: «Do la colpa alla compagnia ferroviaria per aver trasportato consapevolmente ebrei nei campi di concentramento e per aver ucciso quegli ebrei in modo terribile. Non posso arrendermi perché questo mi fa male ogni giorno. Ogni giorno ci penso e mi fa male. E voglio che quel dolore finalmente passi».

    Ma potrà mai passare un dolore così feroce, così eterno? Intanto, scolpite nel vostro cuore questo libro e lo sguardo mite e fermo di Salo, che parla di passato per costruire un futuro con i tulipani in fiore.

    Maria Luisa Colledani

    Prefazione

    Dopo aver ricordato mia zia, la mia seconda madre, durante il suo funerale, avvertii una sensazione strana. Mi guardai intorno. Ero nell’auditorium del cimitero ebraico di Muiderberg con mia moglie e i nostri due figli. C’era poi mia sorella (in realtà cugina) con la sua famiglia, qualche altro cugino e alcuni cari amici e conoscenti. Erano gli ultimi frammenti di una famiglia un tempo enorme.

    Come sempre mia moglie era al mio fianco, anche se sola. Sì, era sola, l’unica superstite della sua immensa famiglia, che di fatto era stata spazzata via nella Seconda guerra mondiale. Lei era quindi l’ultimo minuscolo frammento rimasto.

    Alla fine non siamo altro che frammenti infinitamente piccoli che cercano di resistere in mezzo alla folla. Forse, grazie ai nostri figli e nipoti, questi piccoli frammenti si faranno più grandi. Tutti pensieri che affiorarono nella mia testa in pochi istanti, prima che il feretro venisse condotto all’esterno, nella neve.

    Dedico questo libro all’uomo e alla donna che, provando e riprovando, mi hanno educato e fatto diventare la persona che sono. A voi, Ju e Louis. Ma lo dedico anche ai miei veri genitori, a zii e zie, cugini e cugine, e all’intera famiglia di mia moglie – a chi ha trovato la morte nelle camere a gas. A mia moglie Conny, e ai miei figli e nipoti perché non dimentichino. E a tutte le persone che rischiarono la loro vita per salvare la mia.

    A Conny vanno anche i miei ringraziamenti. Sebbene l’abbia lasciata sola per lunghe serate, mi ha sempre incoraggiato a portare a termine questo libro. E un grazie va anche all’editore Gerton van Boom, che l’ha pubblicato in una nuova veste.

    Salo Muller

    Introduzione: morti ad Auschwitz

    Ogni volta che leggo l’inizio di Ondergang (Sterminio) del professor Jacob Presser mi vengono i brividi alla schiena. L’autore scrive: «Questo libro narra la storia di un omicidio. Un omicidio di massa di una portata senza precedenti, premeditato e perpetrato a sangue freddo. Gli assassini erano tedeschi, le vittime ebree».

    Come si spiegano le deportazioni e lo sterminio che seguì? Chi furono i barbari responsabili di tutto ciò? Nessuno tentò di fermarli? Perché non furono di più gli ebrei a fuggire o a nascondersi? Sei milioni di persone finirono ammazzate senza pietà. Uccise, gassate. Anche i miei genitori.

    Sì, fu uccisa quasi tutta la mia grande famiglia, e anche quella di mia moglie. Ho conservato le lettere della Croce Rossa, lunghe una sola riga ciascuna. In una il nome di mia madre, Lena Blitz, nata il 20 ottobre 1908 e morta ad Auschwitz il 12 febbraio 1943. Nell’altra quello di mio padre, Louis Muller, nato il 20 luglio 1903, morto ad Auschwitz il 30 aprile 1943. Non furono uccisi subito, erano giovani e sani. Mia madre era una bella donna, dagli splendidi capelli neri, mio padre un uomo alto e slanciato. Ho ancora una foto di noi tre, scattata in spiaggia a Scheveningen, in cui sono seduto sulle ginocchia di mio padre, con mia madre che sorride.

    Alzai la testa e li vidi in piedi sul palco dello Hollandsche Schouwburg. Non mi lasciarono stare con loro. Gridavo perché volevo la mamma, ma mi impedirono di raggiungerla. Mi portarono all’asilo dall’altro lato della strada, dove passai quattro giorni e quattro notti a piangere e strillare che volevo la mamma e il papà. Non servì a nulla. Non li avrei mai più rivisti. Furono deportati al campo di Westerbork e poi, non molto tempo dopo, ad Auschwitz.

    Com’è possibile che sia accaduto?

    È una domanda che mi assilla ancora oggi. Reprimo la rabbia ma soprattutto l’enorme dolore che si è impadronito di me. Non passa giorno senza che pianga.

    Non serve a nulla. Eppure sento di dover riportare l’ordine dentro di me. Devo trovare la pace, senza farmaci, senza visite mediche, senza palliativi. Tutto ciò che c’era da leggere su quell’immensa tragedia, l’ho già letto fino alla nausea.

    Ora però è giunto il momento di condividere questa storia, la storia della mia vita. Servirà a qualcosa? Mi sentirò più sollevato? Sono domande che sorgono spontanee. Non so rispondere, ma condividerla una volta per tutte.

    Non ho organizzato il libro in ordine cronologico. Nel corso del racconto ha trovato posto tutto ciò che ricordo, non tanto disposto per data, quanto rievocato laddove servisse alla narrazione. Ed è così che lo ricordo, a più di settant’anni da quello sterminio.

    — 1 —

    Ignorati dal mondo

    Giovedì 29 ottobre 1929, una data che preannunciava sciagura. La Borsa di New York crollò a picco e nel giro di ore moltissimi investitori persero tutti i loro soldi.

    La mattina in abiti firmati, la sera in mutande. Gli scambi economici internazionali e il commercio andarono in tilt, il denaro non valeva più nulla. Le imprese edili e le fabbriche dichiararono bancarotta, i negozi chiusero i battenti e per la moltitudine di operai e semplici cittadini iniziarono tempi bui. Lo Stato introdusse misure per porre un freno all’aumento incontrollato dei prezzi. L’intera linea politica era volta a fermare il crash, la crisi, concetti che sarebbero diventati noti in tutto il mondo. Centinaia di migliaia di persone persero il lavoro e si misero in coda per ricevere i sussidi di disoccupazione. Lo storico Lou de Jong in seguito scrive: «La disoccupazione di massa divenne forse il fattore più importante nella realtà sociale degli anni Trenta e durante l’occupazione tedesca fu uno dei principali elementi a occupare i pensieri di molti: uno spettro che, una volta evocato, si era annidato nella coscienza popolare».

    Per dare un’idea di quella realtà: se nel dicembre 1930 i Paesi Bassi contavano ufficialmente 136mila disoccupati, nel 1933 raggiunsero quota 380mila, una cifra spaventosa, dei quali solo 135mila avevano accesso a forme di sostegno economico. Un anno prima dello scoppio della guerra, nei Paesi Bassi i disoccupati ammontavano a circa 406mila.

    Per la petite histoire della mia famiglia è opportuno ricordare quei tempi difficili. I disoccupati erano abbandonati a loro stessi, ogni giorno tiravano a campare. Mancavano i soldi per qualsiasi cosa, figurarsi per un bene di lusso come un giornale. E di conseguenza si sapeva a malapena cosa stesse accadendo nel mondo. Sempre nelle parole di Lou de Jong: «Ignorata dal mondo, la gente iniziò a ignorare il mondo».

    Malgrado la disoccupazione di massa e il rischio della guerra, era la lotta quotidiana per la sopravvivenza ad avere la priorità. Nessuno riusciva a stimare correttamente la gravità della situazione, anche perché si credeva che i Paesi Bassi sarebbero rimasti neutrali anche in caso di guerra.

    In Germania gli sviluppi politici e sociali si susseguirono a tutta velocità. Nel novembre 1918 i tedeschi pacifisti piantarono la bandiera della repubblica sulle macerie della Prima guerra mondiale. L’imperatore Guglielmo II subì una sconfitta schiacciante e fu esiliato nei neutrali Paesi Bassi. Ma il Paese aveva anche pagato un conto salatissimo: oltre due milioni di morti, il 13% del territorio andato perso, divieto di riarmo e isolamento internazionale. Nell’inverno tra il 1918 e il 1919 il vento cambiò di nuovo. Gruppi estremisti di destra e sinistra presero d’assalto i già precari accordi di pace e generarono un caos ancora più diffuso. Per motivi strategici il giovane Partito Comunista di Germania si appropriò di obiettivi dell’estrema destra. Uno dei suoi leader fece leva sull’antisemitismo che animava parte della fazione opposta. Il 9 novembre 1923 Adolf Hitler diede la prima scossa al Paese tentando un colpo di Stato (Putsch) a Monaco con le

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