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Novembre in Karabakh
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E-book489 pagine6 ore

Novembre in Karabakh

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Info su questo ebook

Mentre Armenia ed Azerbaijan si contendono da anni la piccola regione del Nagorno Karabakh, a Parigi, tra le aule del Conservatorio Nazionale, il professor Vincent Auteuil incrocia la sua vita con un gruppo di giovani studenti indisciplinati, tra i quali Sarkis e Nadir, rispettivamente originari delle due nazioni.

Toccare con mano le tragedie della guerra, porterà i giovani musicisti ad una realtà disumana, dove si ritroveranno adulti, senza nemmeno rendersene conto.

Le differenze sociali e le diverse appartenenze etniche, guidano i vari protagonisti lungo strade non sempre facili e solamente l'amore per la musica guiderà il gruppo verso la giusta armonia.
LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2022
ISBN9791221431667
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    Anteprima del libro

    Novembre in Karabakh - Fabio Silvestri

    Capitolo 1

    Edward Hearp se ne stava comodamente seduto sulla poltronicina in finta pelle azzurra, della sala d’attesa al Medical East Coast di Boston. Erano da poco passate le dodici e al di là della grande ala circolare sulla quale si affacciavano i vari ambulatori, i corridoi brulicavano di gente e infermieri. C’era tuttavia un rispettoso silenzio, interrotto di tanto in tanto dalla voce lontana di un interfono ad annunciare le chiamate e dal calpestio sommesso dei tacchi, ovattato dalla moquette blu del pavimento.

    Alle pareti bianchissime erano appese immagini di dipinti famosi e poster che invitavano la prevenzione alla salute; nell’aria poi, si respirava un profumo di pulito e di disinfettante per nulla fastidioso e i pazienti attendevano il proprio turno, consultando le pagine dei social network oppure sfogliando riviste.

    Edward teneva in mano una copia di The Atlantic e, senza particolare interesse, leggeva qualche titolo qua e là o le didascalie riportate sotto le foto.

    Poi un articolo catturò la sua attenzione: c’era una grossa immagine che occupava buona parte delle due pagine. Era una foto in bianco e nero che immortalava una distesa di disperati coperti di stracci, sporchi e visibilmente sofferenti, in mezzo a quello che pareva un campo profughi. Si trattava di un’immagine forte, difficile da ignorare, per non parlare dei volti in primo piano, quelli di bambini il cui dolore era incredibilmente tangibile.

    Ci mise qualche istante prima di focalizzare il titolo, che campeggiava sopra di essa: Il genocidio dimenticato riportava il grassetto e subito dopo prese a leggere l’articolo.

    Parlava del genocidio armeno, avvenuto esattamente cento anni prima e con avidità scorse le prime righe, riportando di tanto in tanto gli occhi sui volti e sui dettagli della fotografia, passando anche a quelle più piccole che riempivano l’articolo, delle pagine successive.

    Erano state scattate da alcuni soldati che scortavano i prigionieri, forse spinti da un barlume di coscienza, nel tentativo di lasciare una testimonianza alle generazioni future.

    Edward aveva origini armene e sapeva di quel massacro, tuttavia nel corso degli anni si era distaccato parecchio da quel capitolo della sua vita, specialmente da quando era arrivato a Boston e la sua carriera musicale, aveva preso una svolta importante.

    Eppure quell’articolo gli lasciò un amaro in gola che non aveva mai provato; avrebbe voluto chiudere la rivista e guardare le ultime notifiche sul cellulare, ma non vi riuscì.

    Non si accorse nemmeno quando l’infermiera si affacciò alle file di poltroncine e lo chiamò:

    «Signor Hearp?»

    «Signor Hearp?» ripeté.

    Edward tornò in sé e si affrettò ad alzarsi.

    «La dottoressa Taylor la sta aspettando» aggiunse attendendolo davanti alla porta, spuntando il suo nome dalla cartelletta degli appuntamenti.

    Edward ripose la rivista sul tavolino insieme alle altre, ma mentre raggiungeva l’infermiera, vi diede un ultimo sguardo, quasi non riuscisse a staccarsi da quella foto.

    «Buongiorno signor Hearp» disse la dottoressa da dietro alla sua scrivania, mostrando un sorriso brillante.

    «Buongiorno a lei» fece eco Edward sedendole di fronte.

    La dottoressa Taylor con fare composto, spulciò il plico che teneva sul tavolo, spostò qualche foglio qua e là, scosse lievemente la testa, poi levandosi gli occhiali e mostrando i suoi bellissimi occhi verdi disse:

    «Signor Hearp, la situazione è più grave di quello che credessimo.»

    Edward senza scomporsi rispose:

    «Mi dica di che si tratta.»

    «Vedo dalle sue analisi che ci sono dei valori preoccupanti e…»

    A quel punto la dottoressa non riuscì più a trattenersi ed esplose in una risata cristallina, alla quale si unì anche Edward.

    «Caroline non sei proprio capace di mentire» le disse scherzosamente.

    «Hai proprio ragione» concordò placando la sua risata.

    Edward e Caroline stavano insieme da ormai cinque di anni; non avevano ancora pensato a sposarsi, d’altro canto lei era appena diventata responsabile di cardiologia al Medical East Coast e lui stava per essere celebrato come uno dei più grandi pianisti degli Stati Uniti.

    Erano entrambi molto impegnati così quando ne avevano l’occasione, lui andava a prenderla alla clinica per pranzare insieme, proprio come quel giorno.

    «Come stai stella di Boston? Oggi è il gran giorno» gli domandò.

    A Edward non piaceva vantarsi e negli anni, aveva conservato la sua solita umiltà, anche ora che stava per fare il suo debutto come pianista alla Boston Symphony Orchestra.

    «Mi sento tranquillo, perché mai dovrei agitarmi?» rispose.

    «Beh io al tuo posto me la farei sotto» convenne Caroline poi, alzandosi e togliendosi il camice, disse:

    «Io ci sono, possiamo andare.»

    Caroline aveva il fisico da modella e i leggins neri, le fasciavano le cosce tornite, mettendole in risalto i glutei tonici, risultato di un’adolescenza di ballerina e delle ore trascorse in palestra.

    Si sciolse i lunghi capelli castani che ricaddero dolcemente lungo la schiena, in un gesto estremamente intrigante.

    Edward la fissò orgoglioso e si sentì fortunato ad averla come compagna; Caroline infatti, era più grande di lui di tre anni e credeva che avrebbe potuto tranquillamente ambire ad un fidanzato o un marito migliore di lui, magari un importante uomo d’affari o un medico, qualcuno insomma più vicino a lei.

    Tuttavia non dava peso a quei pensieri; Caroline aveva scelto lui e questo gli era sufficiente.

    Se ne andarono a pranzo al solito ristorante italiano, all’incrocio con la Brookline Avenue e la Kilmarnock Street: un locale carino e ordinato, dove il cibo era buono anche se in realtà, nessuno dei due si era mai chiesto quanto le ricette fossero fedeli alla vera cucina italiana.

    «A che ora hai le prove generali?» domandò Caroline.

    «Alle 17» rispose Edward.

    «Veramente non sei teso?» insistette.

    Edward sorrise divertito e rispose:

    «Ma certo, non è mica una passeggiata!»

    «Cerco solo di non pensarci, ho sempre fatto così fin da bambino: prima di ogni esame, concerto o concorso, cercavo di distrarmi e non pensare a nulla.»

    «Io invece ricordo che fino all’ultimo esame della specialistica, ero sempre molto ansiosa, non so come fai.»

    Caroline allora prese il calice e disse:

    «Facciamo un brindisi?»

    «A cosa brindiamo?» chiese Edward.

    «Al più grande pianista di tutti i tempi» propose Caroline, ma Edward corresse con un sorriso di modestia:

    «Macché… io sono solo uno dei tanti…»

    «Brindiamo a noi invece, al nostro amore e alla tua carriera» propose.

    All’improvviso però, Edward sgranò gli occhi ed esclamò:

    «Lo smoking! Devo ritirare lo smoking in tintoria, me ne sono dimenticato!»

    Caroline guardò l’orologio, era l’una e un quarto e sapeva che non era tardi; era una donna estremamente organizzata e riusciva ad incastrare perfettamente ogni impegno durante la sua giornata.

    «Non preoccuparti, vado io, dammi l’indirizzo. Tu intanto vai a casa a rilassarti» propose.

    Edward annuì rassicurato, chiese il conto e pagò.

    Il suo appartamento era al 218 di Commonwealth Avenue, in uno stabile il cui stile imitava il neoclassico, fatto di intonaci bianchi e ampie finestre circondate da colonne.

    All’interno del grande open-space il pianoforte a coda Bösendorfer, al centro dell’ampio spazio, rapiva subito l’attenzione e per un attimo lo stile moderno e il bianco minimale dell’intero appartamento, parevano scomparire.

    Il parquet in legno chiaro, come anche il tavolo e i pochi ripiani della cucina incastonati nella muratura, facevano da contorno alle pareti spoglie e alla scala a chiocciola di metallo che portava al piano superiore, costituito da un grande soppalco che si sviluppava in tutto il perimetro.

    Edward appese il cappotto e la sciarpa all’appendi abiti accanto alla porta d’ingresso, accese il bollitore del caffè e si sedette al pianoforte.

    Non aveva certo intenzione di ripassare il concerto per la sera, così si mise a giocherellare sui tasti, ma proprio in quel momento, sentì squillare il telefono.

    Non conosceva il numero anzi, il prefisso internazionale era francese. Riceveva spesso telefonate dall’estero, così rispose senza titubanza:

    «Pronto?»

    «Edward?» fece la voce dall’altro capo.

    Era una voce femminile che Edward non conosceva, anche per via dell’accento francese.

    «Sì, sono io, chi parla?»

    «Sono Valerie Blanc, ti ricordi me?»

    Dopo un attimo di riluttanza e di silenzio, Edward rispose:

    «Valerie, sì mi ricordo: che vuoi?»

    Il suo tono non era molto conciliante, tuttavia Valerie non vi diede importanza.

    «Come stai?» domandò la donna.

    Edward non aveva voglia di parlare con lei e continuò con un certo distacco:

    «Io sto bene, ma non mi avrai mica chiamato solo per sentire come sto?»

    «Perché fai così? Perché ci vuoi escludere dalla tua vita? In fin dei conti non ti abbiamo fatto niente di male» obiettò Valerie, che si affrettò ad aggiungere:

    «Si tratta di tuo fratello: il mese scorso è stato ricoverato per un intervento allo stomaco, ma ora sta meglio e oggi sarà dimesso. Mi chiedevo se avevi voglia di parlargli.»

    Edward era profondamente seccato da quella telefonata: avrebbe voluto chiudere la conversazione, eppure non se la sentiva, non era così maleducato.

    «Beh mi fa piacere che stia meglio, ma non mi interessa parlargli, non lo conosco nemmeno: che gli dovrei dire? Ciao sono tuo fratello, noi non ci siamo mai conosciuti, però volevo sapere come stai: ti pare logico?» esternò con durezza.

    Valerie non sapeva che altro aggiungere di fronte a tanta indifferenza, così tagliò corto e si congedò:

    «Mi dispiace Edward…In bocca al lupo per stasera…»

    Edward ripose il telefono sul piano e andò a prendere la sua tazza di caffè, scuro in volto più che mai.

    In quel mentre arrivò Caroline con la custodia dello smoking, la stese delicatamente sul tavolo e si sistemò.

    «Smoking pronto! Adesso direi che è ora di rilassarci un po’ e…»

    Caroline colse la sua assenza, gli andò vicino e gli chiese:

    «Edward che è successo?»

    Lui la guardò con uno sguardo a metà tra la rabbia e il fastidio poi, dopo attimi di interminabile attesa, rispose:

    «Mi ha appena chiamato Valerie.»

    Capitolo 2

    Era il 12 novembre 2015 e alla Symphony Hall di Boston, quella sera, era tutto pronto: il pubblico in sala era gremito e non c’era più un posto libero, la gente vociava impaziente per l’inizio e ovunque rilucevano i riflessi brillanti di diamanti e rubini, che le signore sfoggiavano elegantemente ai loro décolleté.

    L’orchestra stava accordando gli strumenti prima dell’inizio, in un apparente accozzaglia di suoni che andava dai La strofinati dagli archi, fino ai fraseggi veloci dei fiati; le luci in platea vennero abbassate e il grande trapezio del palcoscenico, con il suo muro fatto di canne d’organo, brillava quasi fosse rivestito d’oro.

    L’ingresso del direttore venne accolto con un applauso contenuto ma importante, al quale rispose con un inchino e un sorriso; salutò il primo violino con una stretta di mano, infine fece il suo ingresso Edward Hearp.

    Quella serata non solo inaugurava la nuova stagione concertistica, ma segnava anche il suo debutto e quello del nuovo direttore d’orchestra Roger Nelson.

    La critica era sempre molto scettica di fronte ai cambiamenti, specialmente se si trattava di giovani musicisti, come nel loro caso, tuttavia entrambi credevano nelle loro capacità e in ciò che facevano, nonostante si trattasse di una scaletta ambiziosa.

    Il programma della serata infatti, prevedeva l’esecuzione del Concerto per pianoforte in la minore Op.54 di Schumann e i poemi sinfonici di Liszt Mazeppa e Prometeo, per concludere con il preludio del Tannhäuser di Wagner.

    Edward era elegantissimo e non tradiva la benché minima emozione; andò a ringraziare il pubblico, Roger Nelson e il violinista, quindi si sedette al pianoforte sistemandosi nella posizione perfetta e diede il suo ok al direttore.

    Vincent Auteuil, alzò il volume del televisore per non perdere nemmeno una nota del concerto e non appena le mani vigorose di Edward, riversarono nel teatro la possente cascata di accordi dell’inizio del concerto, il dolby surround del salotto, riempì il cuore di Vincent, il suo petto e le pareti piene di foto e diplomi.

    Vincent avrebbe voluto essere a Boston in quel momento e percepire quelle note in tutto il loro colore e profondità, tuttavia gli impegni con le lezioni al conservatorio lo avevano forzato a quella platea digitale fatta di schermo e casse.

    Aveva sentito parlare molto di Roger Nelson e di come avrebbe diretto l’apertura della stagione; come sempre i suoi colleghi più conservatori e qualche giornalista avevano lasciato commenti pacati, un poco scettici del tipo:

    Vedremo… oppure Un po’ troppo ambizioso per la sua portata e ancora Non lo ritengo all’altezza.

    A giudicare invece da ciò che stava ascoltando e da come stava dirigendo la nuova promessa del pianoforte, Edward Hearp, Vincent era entusiasta: le sue aspettative infatti non erano state tradite.

    Le ore della notte trascorrevano e Vincent, completamente rapito dalla direzione sinfonica del collega americano, non si rese nemmeno conto di come il mattino fosse oramai alle porte.

    Quando il concerto terminò e spense il televisore, fece per andare a letto, ma proprio in quel momento sentì suonare la sveglia e sua moglie Monique uscì dalla camera.

    «Che diavolo ci fai ancora sveglio?» domandò sorpresa.

    Vincent si sentì in colpa, quasi avesse fatto qualcosa di sbagliato, per cui rispose con titubanza:

    «Ho guardato il concerto… della Symphony Hall…»

    «A quest’ora?»

    «Sì, ho preferito guardarlo in diretta» rispose.

    «Scusa ma non potevi guardarlo oggi in replica?» ribatté.

    Monique però lo conosceva molto bene e conosceva già la risposta, così sviò la discussione e andò in bagno.

    «Vado a farmi una doccia che è meglio…» disse con un pizzico di malizia, sperando che Vincent cogliesse il messaggio e la raggiungesse.

    Erano sposati da diversi anni, tuttavia la loro vita di coppia era arrivata ad uno stallo e i loro momenti di intimità erano sempre meno frequenti.

    Si erano conosciuti quando Vincent era ancora sposato e lei era diventata la sua amante e dopo la fine del matrimonio, avevano preso a frequentarsi regolarmente, fino a che avevano deciso di sposarsi.

    Monique, ripensando al loro trascorso, non sapeva dire se Vincent la stesse tradendo con un’altra; lo vedeva sempre perso nel suo lavoro e nelle lezioni e anche quando era a casa, preparava l’orchestrazione dei suoi concerti.

    Anche Vincent era un direttore d’orchestra, non famoso come Roger Nelson, però le sue doti erano notevoli e il conservatorio di Parigi, gli aveva offerto una cattedra stabile per insegnare teoria musicale e direzione.

    Il suo stile era un perfetto connubio tra moderno e tradizionale: riusciva infatti a donare alle sue rappresentazioni, una solida base classica in cui tutti potevano ritrovarsi, con la magistrale aggiunta di sfumature e denotazioni più moderne, senza esagerare; nei confronti dei solisti poi, era intransigente, non ammetteva esasperazioni nell’esecuzione, tantomeno eccessi emotivi.

    Eppure, nonostante avesse diretto nei migliori teatri internazionali, non aveva mai sfondato a pieno, ma sapeva benissimo che nessuno era profeta in patria; a lui non importava, la sua vita gli andava bene così: in Europa era accolto sempre con calore e partecipazione e il poter insegnare a dei giovani musicisti e condividere con loro il vulcano della loro passione, era una ricompensa più che lauta.

    Ignorò lo sguardo allusivo di Monique e la lasciò andare, eppure si fermò un istante a spiarla dalla porta socchiusa del bagno: guardò le sue curve morbide, il suo abbondante seno e quei glutei lievemente imperfetti; amava quelle forme, le aveva sempre amate e su quella pelle un tempo aveva bramato passione e desiderio.

    In realtà non era cambiato nulla tra di loro, solamente che l’entusiasmo dell’essere amanti, era svanito, mettendo in risalto aspetti nascosti, del carattere di entrambi. Non avevano figli e probabilmente questa era una delle cause del loro appiattimento, d’altra parte Vincent aveva già un figlio, Amedé, avuto dalla sua prima moglie, Laurène quando erano giovanissimi.

    Anche Monique, completamente presa dalla sua carriera di direttrice di banca, preferiva non avere figli; non si sentiva adatta a fare la madre e non voleva certo mettere al mondo delle vite, per poi abbandonarle a tate e baby sitter.

    Vincent guardò quindi l’orologio: erano le sei e trenta del mattino e le lezioni sarebbero iniziate alle otto, per cui aveva tutto il tempo di prepararsi con calma. Decise però di non restarsene più in casa, così andò nel bagno in camera, si fece una doccia frettolosa e si vestì come suo solito, senza badare troppo agli accostamenti.

    «Vai già via?» domandò stupita Monique vedendolo pronto con la borsa a tracolla.

    «Sì, stamattina devo conoscere gli allievi del nuovo anno e voglio essere pronto» rispose, quindi salutò e uscì dall’appartamento.

    Vincent abitava esattamente di fronte al Conservatoire national supérieur de musique et de danse de Paris e avrebbe impiegato appena una manciata di minuti per entrare in aula, però quella mattina non aveva voglia di retarsene a casa, anche perché avrebbe rischiato di addormentarsi, pensò con ilarità; decise allora che sarebbe andato a fare colazione in una caffetteria, magari il trambusto di voci, sedie e tazzine, gli avrebbero fatto compagnia.

    Andò nella grande brasserie all’incrocio con la traversa successiva, dove sapeva che le colazioni erano deliziose, fatte di baguette calde, torte, croissant e salatini prelibati.

    Si sedette lontano dalle vetrate, su un tavolino all’angolo; sistemò il cappotto e la sciarpa sulla sedia accanto, diede uno sguardo veloce al menu e ordinò del tè con una fetta di torta ai mirtilli.

    Nell’attesa si mise a sfogliare la partitura di una sinfonia di Mozart, la K551 Jupiter: era una delle sue preferite ed era quella che sceglieva solitamente per la prima lezione.

    Erano quasi le otto quando uscì e pioveva; si maledisse per non avere con sé un ombrello, così si mise a correre come un pazzo, evitando automobili e passanti.

    Nella sala d’ingresso del conservatorio già brulicavano centinaia e centinaia di persone, tra insegnanti e studenti, alcuni emozionati per il loro primo giorno, altri invece si muovevano con dimestichezza, più avvezzi a quell’ambiente.

    Vincent continuò a correre, salendo le scale e avanzando lungo i corridoi, dove il vociare e le risate dei ragazzi, si mescolavano al suono confuso degli strumenti di chi già si scaldava per la lezione.

    Arrivò in aula con i folti capelli biondi, gocciolanti e scompigliati, imprecando e gettando il cappotto su un tavolo a fianco la porta; non si era reso conto che i suoi alunni erano già presenti e che lo stavano fissando con sorrisi trattenuti, sguardi interrogativi e occhiate incerte, quando all’improvviso sentì una voce:

    «In ritardo anche oggi monsieur Auteuil?»

    I ragazzi scoppiarono in una risata e Vincent guardò dritto davanti a sé: rimase stupito, quasi imbarazzato nel vedere Annabélle, seduta sul bordo della cattedra.

    Vincent cercò di ricomporsi come meglio poté, passandosi una mano tra i capelli e sistemandosi poi la giacca; in realtà il risultato non fu ottimale e il suo aspetto creò ancora più ilarità nei giovani studenti.

    Annabélle però, li zittì con un cenno della mano, poi andò vicino al collega e gli disse:

    «Vatti a sistemare, resto io qui per qualche minuto.»

    Vincent non aveva ancora aperto bocca e, con un solo cenno del capo, asserì e andò in bagno.

    Si asciugò i capelli con della carta, poi poggiò le mani al lavandino e si guardò allo specchio: si sentiva uno stupido, ridicolo, non tanto per le risate dei ragazzi, bensì per la presenza di Annabélle; aveva fatto la solita figura dell’imbranato, del goffo e dell’anonimo musicista da conservatorio.

    A parte le serate in cui indossava lo smoking, per il resto, non sapeva vestirsi con eleganza e per quanto ci provasse, il risultato non era mai all’altezza di certi colleghi. Pensò a Roger Nelson e ad Edward Hearp, loro sì che avevano stile, lui invece aveva una misera giacca in velluto a coste color senape e un paio di pantaloni verde scuro.

    Si fece infine coraggio e rientrò. Annabélle stava chiacchierando con i ragazzi e quando lo vide, annunciò:

    «Ragazzi, lui è il monsieur Auteuil, il vostro insegnate. Io vi saluto e vi auguro in bocca al lupo, perché avrete da sudare parecchio se vorrete soddisfare le sue aspettative.»

    Passando accanto a Vincent, aggiunse:

    «In bocca al lupo anche a te, ci vediamo per pranzo.»

    «Grazie, a dopo» fu l’unica cosa che riuscì a dire.

    Annabélle era una bella donna e, nonostante i suoi cinquantadue anni, aveva la fisicità e la freschezza di una ragazzina. Insegnava violino e Vincent era attratto da lei fin dal primo giorno che l’aveva vista; naturalmente non aveva mai avanzato proposte, visto che entrambi erano sposati, tuttavia non mancava mai di farle dei complimenti, sia sul suo aspetto, che sul suo stile.

    Anche quel giorno, vedendola uscire, non poté fare a meno di notare la sua gonna corta in pelle nera e gli stivali alti fino al ginocchio, che le donavano una sensualità incredibile.

    I capelli tinti di un lucente biondo chiaro, le ricadevano delicati sulle spalle e sulla camicetta bianca, molto misurata e per nulla provocante; eppure Vincent vedeva attraverso le pieghe del cotone e immaginava mondi sconosciuti.

    Quante volte si era immaginato insieme a lei, ad accarezzarsi e a baciarsi; quante volte avrebbe voluto levarle gli occhiali e perdersi in quei suoi occhi chiari, ma suo malgrado quelle erano e sarebbero rimaste solo delle fantasie.

    La porta si chiuse e Vincent in un attimo, ritrovò la serietà e si voltò verso i suoi alunni, guardandoli con uno sguardo che lasciò loro poco tempo per scherzare, tanto che tutti si ricomposero velocemente.

    Attese qualche istante, tenendoli inchiodati ad uno ad uno con il suo sguardo color ghiaccio, poi esordì:

    «Io mi chiamo Vincent Auteuil e come avete capito, sarò il vostro insegnate di direzione per i prossimi anni, benvenuti a tutti.»

    Capitolo 3

    «Dirigere un’orchestra non significa solamente muovere le mani qua e là, come se tutto fosse inutile e scontato. Sicuramente a molti di voi avranno chiesto: a che serve un direttore d’orchestra? vero? Beh non vergognatevi, a me continuano a chiederlo ancora oggi e sapete una cosa? La risposta è tanto semplice per noi, per quanto complessa per chi vi ascolta…»

    Nella grande aula il silenzio era surreale e gli studenti ascoltavano rapiti le parole di Vincent che, come suo solito mentre parlava, camminava avanti e indietro come un leone in gabbia.

    Non era rimasto nulla di quel goffo e impacciato insegnante che pochi minuti prima era entrato, bagnato fradicio: al suo posto ora c’era un uomo sicuro, dallo sguardo e dai modi penetranti, capace di attirare a sé l’attenzione di tutti.

    Era una dote quella, che aveva imparato con il tempo, con la pratica, con lo studio, con le figuracce, ma soprattutto lavorando con orchestre numerose e molti musicisti lo rispettavano proprio per la sua forza di persuasione e la straordinaria capacità di comunicazione.

    «…ciò che vi aspetta sarà tutt’altro che una passeggiata e se qualcuno di voi crede di essere il migliore, solamente perché possiede un’ottima cultura musicale e le sue doti di ascolto sono notevoli, siete partiti con il piede sbagliato anzi, vi consiglio proprio di uscire da questa stanza.»

    Vincent fece una pausa durante la quale guardò ad uno ad uno gli aspiranti direttoti di fronte a lui, indipendentemente dall’età o dal fatto che fossero maschi o femmine.

    Notò sorpreso che qualcuno era molto determinato e sosteneva il suo sguardo, alcuni si sentivano intimoriti da quelle parole, altri invece annuivano con la testa.

    «Vi svelo un segreto: quando sarete davanti ad un’orchestra, sia che facciate le prove o durante un concerto, non sarete voi a dovervi fidare di loro no, perché loro sono degli ottimi musicisti e conoscono la loro partitura alla perfezione; saranno loro a doversi fidare di voi, perché sarà grazie alla vostra bravura che arriverete insieme sani e salvi all’altra sponda dell’oceano. Sarà grazie a voi che anche loro si salveranno e non annegheranno nel vortice delle critiche; questo è un mondo spietato e la differenza tra morire o sopravvivere artisticamente, sta in un minuscolo dettaglio.»

    Vincent ripeté ancora una volta i suoi rituali: camminare avanti e indietro, parlare con decisione e schiettezza, fermarsi, guardare negli occhi gli studenti e continuare il suo discorso:

    «Il compito di ciascuno di voi non sarà semplicemente quello di leggere una partitura e farla riprodurre alla perfezione dall’orchestra, no. Voi dovrete essere il filo conduttore tra l’organico degli strumenti e il cuore di che vi ascolta, perché dentro la coscienza di ognuna di quelle persone sedute in sala, si nasconde la vera essenza di un concerto o di una sinfonia; ogni spettatore sa ciò che vuole ascoltare e più sarete onesti con voi stessi e con la musica scritta sul pentagramma, tanto più sarete bravi.»

    Vincent li guardò ancora una volta, poi disse accennando un sorriso:

    «Non avete capito nulla vero?»

    Qualcuno abbozzò un sorriso di risposta o una risata, riuscendo a stemperare l’austerità che si era accumulata nell’aula.

    «Fu la stessa cosa che risposi al mio maestro, oltre vent’anni fa» scherzò, andando dietro alla scrivania; si sedette, aprì la valigetta, estrasse la partitura della Jupiter e la mostrò ai ragazzi:

    «Inizieremo con questa e durante tutta la settimana lavoreremo sul primo movimento.»

    Vincent si servì della grande lavagna digitale sulla quale caricò la partitura salvata sulla USB, visualizzò la prima pagina e iniziò ad analizzare le prime battute.

    Spiegò loro come riconoscere i forti, gli accenti, l’ingresso preciso dei vari strumenti; utilizzò anche l’ascolto della sinfonia, diretta da grandi direttori del passato e del presente, per far comprendere al meglio le varie differenze.

    «Se ascoltate bene, ciascuno di loro ha scelto una diversa linea interpretativa, eppure nessuno di loro ha snaturato la vera essenza del brano.»

    Ascoltate diceva indicando un punto preciso, fate attenzione all'attacco aggiungeva, oppure sentite la cadenza dei contrabbassi e dei timpani nel ritorno al primo tema.

    La lezione andò avanti per ancora altre due ore, poi i giovani aspiranti direttori lasciarono l’aula per recarsi alla lezione di composizione con il professor Bernard e Vincent accolse i ragazzi del terzo anno, i quali si stavano preparando per la prova di concertazione di un’opera lirica.

    Il resto della mattinata andò avanti come di consueto e all’una circa, Vincent si infilò il cappotto e scese per andare a pranzo.

    Aveva smesso di piovere ma faceva parecchio freddo; non aveva voglia di andare al ristorante, quindi decise di andare a casa, così avrebbe potuto anche cambiarsi e sistemarsi.

    Stava per uscire, quando in lontananza vide arrivare Annabélle, con il suo solito passo affrettato e la sua ampia borsa a tracolla.

    Fece per andarle incontro, ma in quel momento sopraggiunse Olivier Dumont, il docente di pianoforte, un uomo minuto, asciutto, sempre in forma e con la mania dell’esercizio fisico. Aveva una personalità allegra e magnetica ed era incredibile la sua capacità nel catturare l’attenzione, soprattutto delle donne che, dopo solo poche battute, riusciva sempre a far ridere e a far confessare le loro più segrete passioni e fantasie.

    Vincent gli invidiava quella sua bravura, forse ancor più di quella da musicista e vederlo accanto a Annabélle, lo fece ingelosire: si immaginava che la stesse corteggiando, per via delle risate e degli sguardi con cui lei ricambiava le battute di Olivier.

    Scacciò quei pensieri, sentendosi ridicolo e anche patetico: d’altronde lui era sposato e anche Annabélle e dal momento poi che lei e Olivier erano praticamente coetanei, era naturale che avessero molte più cose da condividere, così si voltò ed uscì.

    Aveva appena varcato la grande vetrata d’ingresso e il vento gelido, carico di umidità, gli sferzò il volto facendolo stringere nelle spalle e cercare riparo nella sciarpa.

    Ad un tratto però si sentì chiamare:

    «Vincent! Vincent!»

    Ancora una volta quella voce fu inconfondibile: era Annabélle.

    Con il cuore gonfio di gioia si voltò e la salutò:

    «Annabélle! Anche tu in pausa?» domandò fingendosi sorpreso.

    «Sì, ho appena un’ora. Come è andata con i ragazzi del primo anno?»

    «Direi molto bene, quest’anno non vedo elementi esaltati, mi sono sembrati tutti più o meno disciplinati» rispose.

    Annabélle esternò un sorriso e per lui fu una cosa meravigliosa, eppure non sapeva che dire, avrebbe voluto invitarla a pranzare insieme e la sua mente viaggiava attraverso le fantasie più recondite; quello sarebbe stato il momento giusto per farsi avanti, ma si sentiva frenato ed impaurito.

    Che avrebbe detto Olivier? Come si sarebbe comportato? si domandò.

    Non dovette attendere troppo, perché poco prima di raggiungere la strada, il collega pianista li raggiunse e chiese:

    «Vi va di mangiare qualcosa assieme?»

    Annabélle acconsentì con piacere, mentre l’orgoglio di Vincent aveva accusato il colpo, quindi rifiutò cortesemente:

    «Vi ringrazio ma guardate come sono messo, vado a casa a sistemarmi. Ci vediamo più tardi per un caffè» e detto ciò si incamminò verso il suo appartamento.

    Era infuriato con sé stesso: se solo avesse avuto più coraggio…non ci sarebbe stato nulla di male nel pranzare con loro, ma sicuramente sarebbe stato eclissato dall’esuberanza e dalla personalità di Olivier.

    Avanzò spedito e a testa bassa, salì velocemente le scale e sbatté il portone alle sue spalle; accese il lettore multimediale sulla 5° Sinfonia di Beethoven, la solita che ascoltava quando era arrabbiato o sopraffatto da cattivi pensieri.

    Si spogliò velocemente, lanciando giacca, scarpe e camicia in mezzo al salotto, un po’ sul tappeto, un po’ sul divano ad angolo; corse in bagno a torso nudo e mentre il vapore della doccia avvolgeva l’angusto spazio, guardava scomparire il suo riflesso allo specchio.

    Entrando sotto il flusso dell’acqua, il suo corpo ebbe un sussulto di piacere e Vincent si lasciò inebriare, mentre la musica della filo diffusione lo accompagnava fedelmente.

    Il sapone scivolava in bolle leggere di schiuma attraverso le sue mani e dopo essere passato energicamente sulle sue braccia e sulle sue gambe e sulla testa, strofinò con naturalezza sul suo sesso.

    Fu un gesto consueto, senza alcun desiderio, eppure in quell’istante sentì vibrare i suoi muscoli e istintivamente il suo pensiero andò a Annabélle.

    Era dunque vero che ne era innamorato? La desiderava a tal punto?

    Tuttavia più elaborava quei pensieri, tanto più sentiva crescere il suo glande dentro la sua mano; si sedette, lasciando che la pioggia bollente della doccia lo cullasse e in breve si ritrovò ansimante ad occhi chiusi ad immaginare la bella Annabélle tra le sue braccia.

    Era talmente preso ed eccitato, che quel gesto liberatorio durò solamente pochi attimi e il flusso corposo del suo seme, esplodendo in sussulti di piacere, scivolò sulle sue gambe, poi via attraverso lo scarico della doccia.

    Vincent attese un poco prima di rialzarsi, poi si ripulì e uscì a rivestirsi.

    Passò con la mano sullo specchio, tracciando un solco sulla patina di vapore e restò ancora a fissarsi, mentre la musica di Beethoven andava senza sosta.

    Che senso aveva continuare a pensare ad Annabélle in quella maniera? si chiese; se veramente la desiderava, avrebbe dovuto farsi avanti e conquistarla, non rifugiarsi dietro allo spettro dei propri desideri; temeva tuttavia un rifiuto e al tempo stesso non voleva certo che la loro amicizia potesse interrompersi.

    Tornò alla realtà, si esaminò il viso e si accorse che quella mattina non si era nemmeno rasato, ed ora le sue guance erano ricoperte da un trasandato velluto color bronzò.

    Si rasò, si spalmò il solito dopobarba dalla fragranza pungente, infine si rivestì ed uscì per tornare al conservatorio.

    Fortunatamente le nuvole iniziarono a diradarsi e qua e là, lunghi coni di luce pallida, traforavano la coltre grigia del cielo.

    Vincent era al centro della Place de la Fontaine-aux-Lions quando, ad un centinaio di metri, notò un gruppo di ragazzi abbastanza agitati: c’era chi urlava, chi acclamava e chi guardava ridendo; sulle prime non capì cosa stesse succedendo poi però, avvicinandosi, vide che due di loro si stavano picchiando.

    Immediatamente si fece largo tra i curiosi più esaltati e, quando arrivò al centro di quel cerchio umano, si avventò sui due ragazzi.

    Uno di loro era disteso a terra, mentre l’altro tentava di schiacciarlo con le ginocchia sul petto. Vincent lo prese per il giacchetto e lo allontanò con forza:

    «Che diavolo state facendo?» li ammonì.

    Prese per mano l’altro, per rimetterlo in piedi, ma sfortunatamente non si accorse che il primo, cieco per la furia, era già partito con un pugno diretto all’avversario; Vincent riuscì a percepire a malapena quell’ombra avvicinarsi, poi sentì un colpo violento sulla tempia e il mondo attorno a sé si spense.

    Capitolo 4

    Erano le 6:30 del mattino quando la sveglia del telefono cellulare suonò, macchiando il buio della stanza di un alone azzurro e delle dolci note della Serenata per archi in Mi maggiore Op.22 di Antonin Dvoràk.

    Nadir mugugnò irritato e cercò a tastoni di centrare lo schermo e spegnerla; aveva fatto tardi quella notte davanti al computer e doversi svegliare, fu una tortura.

    Fece cadere il telefono dietro alla testiera del letto al che, imprecando, gettò la testa indietro contro il cuscino: ora era veramente costretto ad alzarsi. Accese quindi la luce, che stranamente gli parve molto più fastidiosa del solito poi, mentre i suoi occhi si abituavano, infilò la mano sotto al letto e, tra la maglietta sporca del giorno precedente e le scarpe da ginnastica, raccolse l’I-phone di ultima generazione.

    Finalmente silenziò l’allarme e rimase qualche minuto a strofinarsi gli occhi, nel tentativo di recuperare la lucidità.

    Diede uno sguardo attorno a sé, focalizzando il disordine che aveva lasciato: la coperta era scivolata al bordo del letto, abiti buttati sul divano all’angolo, bottiglie di acqua e di succo, lasciate sulla grande scrivania, tra il monitor e il pc, alcune vuote e altre a metà, cartacce di snack sparse vicino al cestino e, accanto all’impianto stereo, erano confusamente impilati diversi cd abbandonati da tempo.

    Incrociò lo sguardo con il poster di Johann Sebastian Bach, sotto al quale era sistemata la custodia del violoncello e la cartella con gli spartiti e i libri, l’unica cosa in ordine di tutta la stanza.

    Si impose di riordinare, altrimenti Josephine quella mattina avrebbe impiegato qualche ora in più nel sistemare la sua stanza; suo padre inoltre, gli aveva insegnato a rispettare le donne

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