La politica mondiale del lavoro: Affrontare la globalizzazione
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Sandro Antoniazzi
Sandro Antoniazzi si è dedicato per trent’anni all’attività sindacale, prima nella FIM-CISL e poi nella CISL. Nel 1992, durante Tangentopoli, viene chiamato a presiedere il Pio Albergo Trivulzio e nel 1994 la Fondazione San Carlo. Presiede l’«Associazione Convivialità».
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La politica mondiale del lavoro - Sandro Antoniazzi
Sandro Antoniazzi
LA POLITICA MONDIALE DEL LAVORO
AFFRONTARE LA GLOBALIZZAZIONE
© 2021
Editoriale Jaca Book Srl, Milano
tutti i diritti riservati
Prima edizione italiana
gennaio 2021
Redazione Jaca Book
Impaginazione Elisabetta Gioanola
eISBN 978-88-16-80265-0
Editoriale Jaca Book
via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520
libreria@jacabook.it; www.jacabook.it
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INDICE
Introduzione. Per una coscienza mondiale del movimento dei lavoratori
1. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Un quadro di regole soft per il lavoro
2. Le multinazionali e le catene di valore. Un potere economico onnipresente
3. I lavoratori migranti. Anche le persone diventano mondiali
4. Il lavoro informale. La moltitudine eterogenea dei lavoratori mondiali
5. Il sindacato internazionale. La gigantesca sfida della globalizzazione
6. Il sindacato europeo. Uno squilibrio contraddittorio tra l’economico e il sociale
7. Conclusione. Un’altra società è possibile?
8. Bibliografia essenziale
9. Sigle dei Sindacati internazionali
A mia moglie Lea
e alle mie figlie
Chiara Tea e Amìna
che studiano e girano
il mondo
Introduzione
PER UNA COSCIENZA MONDIALE DEL MOVIMENTO DEI LAVORATORI
Questo libro è dedicato ai lavoratori e alla loro volontà di affrontare insieme, nelle forme possibili, i problemi che si incontrano oggi nel mondo del lavoro, forti della loro storia sindacale, sociale e politica e delle soluzioni che hanno via via trovato, con sacrificio e intelligenza alle sfide che incontravano. Oggi ne hanno davanti una nuova e più grande: il lavoro è diventato mondiale.
Il libro, affrontando alcuni fra i maggiori problemi internazionali attuali (multinazionali, migrazioni, lavoro informale e precario), intende sostenere che la scelta mondiale da parte del movimento dei lavoratori non è più rinviabile, non ha alternative.
Se una volta si parlava di internazionalismo come di un obiettivo del movimento dei lavoratori, oggi l’internazionalizzazione è una scelta del capitale e per i lavoratori diventa una scelta conseguente e obbligata.
Il mondo dell’economia e del lavoro è ormai immerso nella globalizzazione.
Le imprese migliori sono proiettate sui mercati mondiali pena la loro sopravvivenza: esportare, delocalizzare, creare filiali e connessioni, comprare aziende o associarsi, allargare la presenza sui diversi mercati è diventata prassi quotidiana. E il Paese accoglie aziende e investitori stranieri, che insediano attività, produzioni, servizi, reti di vendita. Nella sola città di Milano si calcola che siano 300.000 i lavoratori che fanno capo a gruppi stranieri.
L’Europa, che è stata costruita sull’idea della realizzazione di un mercato comune, ha favorito e accelerato questo processo, attivandosi per eliminare ogni ostacolo al libero mercato. Assistiamo così a un intreccio sempre più fitto e inestricabile di aziende, tecnologie, prodotti, merci, dei più diversi Paesi, di cui spesso è difficile conoscere composizione e provenienza.
I processi avanzano a una velocità impressionante e a loro è legato il nostro futuro come persone, come famiglie, come lavoratori, come Paese. Il movimento del lavoro fa molta fatica a stare al passo degli eventi, indebolito dalle trasformazioni intervenute e condizionato dalla molteplicità delle sue tradizioni e forme organizzative. Ma certamente non può limitarsi a un ruolo puramente formale e difensivo: questo è ormai il terreno su cui si decidono le sorti del mondo del lavoro, la condizione che detta i termini del confronto e i problemi da affrontare.
La globalizzazione, come dice la parola, coinvolge l’intero mondo con infinite conseguenze in ogni campo. Una globalizzazione priva di un qualsiasi orientamento ha provocato spesso danni rilevanti; in Occidente si sono smantellate intere industrie, depauperando città e regioni delle loro attività, mentre nei Paesi emergenti si sono messe in crisi tante economie già deboli e non attrezzate a reggere la concorrenza internazionale. Le politiche liberiste, attuate in molti Stati nella speranza di poter attrarre gli investimenti internazionali o per imposizione del Fondo Monetario Internazionale, hanno di frequente determinato spinte verso l’emigrazione o verso il lavoro informale.
Fra gli effetti positivi va sicuramente considerato lo sviluppo di diverse nazioni in precedenza marginali: il secondo e il terzo mondo sono entrati a tutti gli effetti nell’economia globalizzata, cioè nell’unica economia ormai estesa al mondo intero. In questo modo molte produzioni si sono trasferite in nuovi Paesi industrializzati, consentendo drastiche riduzioni dei costi. La Cina è diventata il maggior Paese produttivo del mondo e tutta l’area asiatica (India, Vietnam, Indonesia…) si è trasformata in una grande officina. Le multinazionali si sono sparse nel mondo intero e con l’aiuto della finanza e attraverso le catene di valore prelevano profitti ovunque sfruttando i bisogni e le debolezze degli stati e dei popoli. Tutto questo ha provocato squilibri economici e gravi problemi di occupazione e sociali in tanti Paesi.
Se ci si mette nell’ottica di affrontare la globalizzazione, i problemi che si presentano, anche limitandosi ai principali e più attinenti al lavoro, rivestono dunque uno spessore enorme. Un forte limite nell’affrontarli risiede nella stessa natura e tradizione del sindacato, quasi esclusivamente di carattere nazionale: nazionali sono l’organizzazione, i contratti, le leggi che riguardano i lavoratori, soprattutto in Occidente, e la solidarietà internazionale, di conseguenza, si presenta ancora modesta.
Già a livello europeo, un contesto relativamente omogeneo, le differenze tra i diversi Paesi sono tali da rendere estremamente difficile stabilire norme e regole di valore generale. Inoltre, il sindacato è uscito seriamente indebolito dalla diminuzione del tradizionale lavoro operaio in cui aveva le proprie roccaforti e trova molte difficoltà a organizzare i lavoratori delle nuove attività frammentate, articolate e spesso precarie. La precarietà, che si è rapidamente diffusa anche nei Paesi di antica industrializzazione, sembra assumere sempre di più un carattere distintivo nel lavoro globalizzato.
D’altronde i problemi aperti – se si intende operare d’intesa con i lavoratori e i sindacati di altri Paesi – richiedono disponibilità e impegni che oltrepassano i limiti presenti e impongono al sindacato un salto di qualità, che può solo derivare da scelte politiche coraggiose.
Si pensi alle migrazioni internazionali: si tratta di lavoratori che lasciano il loro Paese per migliorare la propria condizione (così come hanno fatto tanti italiani nei tempi passati), tuttavia la questione non viene analizzata da questo punto di vista, che dovrebbe essere quello giusto e normale, come una cooperazione tra lavoratori di Paesi diversi. Il ruolo del sindacato appare marginale.
La condizione di queste persone, per la maggior parte in fuga disperata a causa di guerre o di situazioni al limite della sopravvivenza, induce a considerare la loro accoglienza innanzitutto sul piano assistenziale. Il modo del tutto irregolare e caotico del loro arrivo – in mancanza di un sistema efficiente italiano e europeo che regoli i flussi e organizzi l’integrazione – determina problemi e paure che poi vengono utilizzate strumentalmente.
Un sindacato, con vocazione internazionale, dovrebbe assumere un ruolo molto più significativo nell’affrontare il tema migratorio.
Problemi sorgono anche dalla diffidenza palese o latente nei confronti dei Paesi emergenti, visti come realtà che sottraggono lavoro al nostro Paese, in forme sovente considerate discutibili.
Si tratta di problemi reali e d’altra parte la globalizzazione comporta necessariamente una redistribuzione del lavoro e del reddito, se non proprio in base al principio dei vasi comunicanti, certamente nella prospettiva di un maggiore riequilibrio. Non bisogna però lasciare tutto al caso e occorre intervenire con decisione sulle misure da adottare per affrontare i processi di transizione.
Una valutazione storica oggettiva non dovrebbe comunque trascurare il peso che hanno avuto il colonialismo e la schiavitù nel determinare l’accumulazione originaria e l’ascesa di diverse nazioni occidentali e nello stesso tempo il ruolo che hanno rivestito nell’impedire lo sviluppo dei Paesi colonizzati. Per fare solo un esempio, Haiti, diventata indipendente nel 1804 grazie alla sollevazione degli schiavi che costituivano il 90% della popolazione, ha dovuto pagare il riscatto dagli schiavisti alla Francia fino al 1950. Anche i processi e gli scambi economici attuali sono profondamente segnati dal passato colonialismo, le cui conseguenze continuano a esercitare i loro effetti. Per rispondere a questo stato di cose, Alexandre Kojève (citato da Alessandro Aresu) proponeva un colonialismo datore
, cioè un colonialismo che invece di prendere, restituiva, ritenendo insostenibile il grave divario che si era creato tra i Paesi occidentali e quelli degli altri continenti.
Il lavoro in altri continenti – in Africa, in Asia, in America Latina – è in larga misura di natura informale
e sembra prevedibilmente destinato a rimanere tale; se la popolazione africana è oggi di un miliardo e duecento milioni, nel giro di 30 anni è destinata a raddoppiare e non è certo pensabile che tutte queste persone diventino salariati a tempo pieno secondo la visione occidentale. Anche in questo caso occorre pensare ai problemi che sorgono: come far coesistere un sistema economico capitalistico caratterizzato da lavoratori coperti contrattualmente e un ampio settore privo di contratti e spesso di ogni regola? E il sindacato deve organizzarli entrambi?
Si tratta solo di alcuni dei molti problemi da affrontare e per i quali sarebbe importante convenire su una prospettiva comune, che diventi poi una prassi da portare avanti nelle diverse sedi, nazionali e internazionali.
Per cambiare le cose occorre naturalmente una convergenza di forze, al momento purtroppo inesistente. Non si può pensare di cambiare sul serio le cose se i rapporti di forza rimangono quelli attuali.
Sul piano mondiale si svolge una partita del tutto singolare
. Da una parte scende in campo un’imponente squadra liberista
, composta dai maggiori organismi internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio, finanza internazionale, grandi banche, fondi di investimento, multinazionali, uffici studi superfinanziati), dall’altra dovrebbe scendere in campo la squadra sociale
(sindacati, alcune ONG, qualche stato generoso), squadra che spesso non si presenta neppure, data l’organica debolezza.
Ciò sta a dimostrare la mole di lavoro da realizzare se si intende dar vita a una forte squadra mondiale sociale
, per rimanere all’immagine di cui sopra, all’altezza dei problemi.
Per questo la prima cosa da fare è liberarsi da una visione tutta occidentale con cui osserviamo il mondo; non si può rinunciare a essere quelli che siamo, però occorre aprirsi alle culture e al modo di vedere degli altri, anche perché se l’Europa una volta era al centro del mondo oggi si trova a essere superata non solo dall’America, ma anche dalla Cina e dall’India.
Basterebbe guardare cosa sta avvenendo in Africa: alla fine dell’Ottocento, Gran Bretagna e Francia, si erano annesse e spartite l’intero continente; oggi Cina e India sono le due potenze che vi investono di più, superando Stati Uniti ed Europa.
Uno studioso indiano, cultore dei temi post-coloniali (o de-coloniali), ha scritto un libro dal provocatorio titolo Provincializzare l’Europa, per sostenere che occorre considerare l’Europa come una provincia
del mondo accanto alle altre e non il centro come è stato per secoli. Questo ci invita a riconsiderare tanti aspetti del nostro modo di vedere.
La parola colonialismo
, ad esempio, è una parola inesistente nel nostro dibattito politico, ma in molti Paesi del mondo si discute sul come liberarsi dall’eredità coloniale, non solo materiale, ma anche culturale e mentale.
Dobbiamo portare nel mondo del lavoro un cambiamento culturale e abituarci ad avere uno sguardo che vada al di là del nostro Paese e che si confronti costantemente con gli altri, se vogliamo costruire la coscienza comune oggi necessaria.
E ciò significa che la solidarietà internazionale non deve rimanere compito degli uffici centrali preposti, ma deve diventare il modo di vedere dei sindacati di categoria, dei delegati aziendali e dei lavoratori, al fine di costituire una classe lavoratrice capace di essere un soggetto attivo a riguardo.
Si tratta di costruire a poco a poco una prassi fatta di coscienza, di cultura, di relazioni, di solidarietà che comprenda i lavoratori e i problemi degli altri Paesi, per realizzare un movimento del lavoro sempre più presente a livello mondiale.
Il libro richiede qualche spiegazione, anche perché fatto di capitoli un po’ diversi fra loro.
Il primo capitolo è dedicato all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (International Labour Organization). ILO è la sigla che adotteremo, perché di uso corrente a livello internazionale.
Il motivo per dare priorità all’ILO è presto detto. A livello internazionale non esistono leggi sul lavoro, ma le diverse organizzazioni internazionali assumono deliberazioni di vario carattere e importanza, nel caso dell’ILO si chiamano Convenzioni e Risoluzioni, che funzionano da riferimenti fondamentali.
In tante situazioni ci si trova in assenza di norme da applicare: Paesi che non hanno una legislazione sul lavoro, una multinazionale che opera in una molteplicità di Stati, accordi transnazionali, problemi dei lavoratori migranti.
In queste e in tante altre situazioni, in cui mancano leggi oppure le norme sono da elaborare, l’ILO svolge un ruolo essenziale.
Si può ben dire che il sindacato nella sua azione internazionale, relativamente debole, si è fortemente appoggiato all’ILO.
Come vedremo, nel prosieguo, le proposte fondamentali dell’ILO – i core labour standards
e la Agenda per il lavoro dignitoso
– sono state