Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Wim Wenders: Lo sguardo inquieto degli angeli
Wim Wenders: Lo sguardo inquieto degli angeli
Wim Wenders: Lo sguardo inquieto degli angeli
E-book221 pagine2 ore

Wim Wenders: Lo sguardo inquieto degli angeli

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dagli esaltanti e affamati pomeriggi parigini trascorsi nella leggendaria Cinémathèque all'Accademia del Cinema di Monaco, dall’influenza decisiva della Nouvelle Vague all’amicizia con Peter Handke, dai primi cortometraggi alla «trilogia della strada», dal Neuer Deutscher Film al successo internazionale e ai grandi capolavori: Lo stato delle cose, Paris-Texas, Il cielo sopra Berlino…
La vita, le opere, i sogni, le ossessioni e il caleidoscopico universo immaginifico di Wim Wenders, regista, sceneggiatore e viaggiatore, tra i più influenti, importanti e decisivi artisti dell’intera storia del cinema.
Un genio poliedrico e multiforme dallo stile inconfondibile, eppure in continua evoluzione, che questo libro indaga in ogni suo aspetto per restituirne l’essenza più autentica di poeta della macchina da presa, cantore lucido e appassionato delle più profonde e laceranti inquietudini dell’uomo a cavallo tra la fine di un secolo tempestoso e l’alba di un millennio incerto.


LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2023
ISBN9788869348389
Wim Wenders: Lo sguardo inquieto degli angeli
Autore

Riccardo Lestini

Riccardo Lestini (Passignano sul Trasimeno, 1976), è scrittore, regista, saggista e insegnante. Ha scritto, tra gli altri, i romanzi Il Piccolo Principe è morto (Edizioni Fogliodivia, Premio Storm Festival, 2019) e Firenze, un film (id., 2020), la raccolta di racconti Ogni fottuto Natale (id., 2021) e il libro di poesie Solitudini (Portaparole, 2013). Per la saggistica, è autore di People are strange (Les Flaneurs, 2022), prima biografia italiana dedicata a Jim Morrison. Per il teatro ha firmato numerose regie, per molte delle quali è anche autore del testo e interprete. Tra queste, il monologo Con il tuo sasso (oltre cinquecento repliche), interamente dedicato al G8 di Genova. Sullo stesso argomento ha scritto la sceneggiatura del fumetto L'estate ritorna, pubblicato, assieme a testi e disegni di Zerocalcare, Erri De Luca e altri, nel volume Nessun rimorso (Coconino Press, 2021), e il monologo breve Genova Libera, con cui ha aperto i concerti dei Modena City Ramblers. Ha una pagina social, http://facebook.com/riccalestini, e un sito internet, www.riccardolestini.it

Correlato a Wim Wenders

Ebook correlati

Arti dello spettacolo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Wim Wenders

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Wim Wenders - Riccardo Lestini

    Riccardo Lestini

    Wim Wenders, lo sguardo inquieto degli angeli

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, settemnbre 2023

    e-Isbn 9788869348389

    Tutti i diritti riservati.

    Direttore della collana Cinema del ‘900: Massimo Moscati

    Editing: Cesare Paris

    Progetto grafico: Riccardo Brozzolo

    Riccardo Lestini

    Riccardo Lestini (Passignano sul Trasimeno, 1976), è scrittore, regista, saggista e insegnante.

    Ha scritto, tra gli altri, i romanzi Il Piccolo Principe è morto (Edizioni Fogliodivia, Premio Storm Festival, 2019) e Firenze, un film (id., 2020), la raccolta di racconti Ogni fottuto Natale (id., 2021) e il libro di poesie Solitudini (Portaparole, 2013). Per la saggistica, è autore di People are strange (Les Flaneurs, 2022), prima biografia italiana dedicata a Jim Morrison.

    Per il teatro ha firmato numerose regie, per molte delle quali è anche autore del testo e interprete. Tra queste, il monologo Con il tuo sasso (oltre cinquecento repliche), interamente dedicato al G8 di Genova. Sullo stesso argomento ha scritto la sceneggiatura del fumetto L’estate ritorna, pubblicato, assieme a testi e disegni di Zerocalcare, Erri De Luca e altri, nel volume Nessun rimorso (Coconino Press, 2021), e il monologo breve Genova Libera, con cui ha aperto i concerti dei Modena City Ramblers.

    Per Bibliotheka Edizioni ha pubblicato Alberini ‘00 (2022).

    Ha una pagina social, facebook.com/riccalestini, e un sito internet, www.riccardolestini.it

    Cineuropa è una nuova proposta editoriale incentrata su registi e attori che hanno fatto grande il cinema europeo. Figure iconiche, capaci di sovvertire il mondo della settima arte e altresì di imporsi nell’ambito della moda, del costume, della società, qui riscoperte secondo una nuova ottica critica, capace di coglierne gli aspetti più interessanti, controversi, nascosti.

    Una collana che analizza nel dettaglio la carriera di artisti a tutto tondo e il loro percorso professionale che, in molti casi, ha coinciso simbioticamente con la loro dimensione esistenziale.

    A Teresa, Antonia e Bruna,

    che mi permettono di scrivere

    Io adesso so cose che nessun angelo sa:

    lo stupore del bambino ha fatto di me un uomo

    (Damiel ne Il cielo sopra Berlino)

    Prefazione

    C’è ancora bisogno di angeli (laici)

    Ad un certo punto, Engel Damiel (Bruno Ganz) è seduto nel circo. Come un bambino, si gode la performance degli artisti. Quando il pubblico applaude, vuole unirsi a loro. Allarga le mani e le abbassa di nuovo. Non ha senso applaudire. Nessuno può sentirlo o vederlo.

    Il cielo sopra Berlino racconta la storia di due angeli nella grande città. Sono residenti passivi, incapaci di interagire direttamente con gli umani. In cambio, Damiel e Cassiel (Otto Sander) seguono i loro pensieri. E possiamo provare a guidarli nella giusta direzione.

    Sono passati più di 35 anni da quando la fiaba del film poetico di Wim Wenders è stata presentata in anteprima a Cannes. Il film, la cui sceneggiatura è nata in collaborazione in parte con il premio Nobel per la letteratura, Peter Handke, non ha perso nulla del suo fascino in oltre tre decenni.

    Sono proprio le immagini che catturano l’attenzione per prime. Il regista tedesco si affida a pacate riprese in bianco e nero. Anche se oggi il non utilizzo del colore è spesso concepito come espediente alla moda, qui offre un vantaggio evidente. Simboleggia l’assenza di vita nella quale i due angeli sono dannati per l’eternità. Possono vedere la vita sulla Terra da vicino, ma solo da bordo campo.

    Molto vicino, eppure, lontano: l’angelo Damiel non è visibile agli umani.

    Lo spettatore sperimenta anche il mondo degli angeli attraverso il sound design, a come è progettato il suono. Si odono i pensieri delle persone, ma mancano gli artifici. Nessuno schiocco forte quando le lattine di birra cadono sul pavimento. Niente rumori indecenti mentre si mangia. Tutto tace. Grazie alla leggendaria macchina da presa di Henri Alekan, Il cielo sopra Berlino diventa un’esperienza cinematografica quasi meditativa.

    Mentre una non-esperienza è al centro del film. Wenders mostra in modo facilmente intuibile come le cose semplici arricchiscano l’esistenza umana. Il gusto di un buon caffè o di una conversazione con uno sconosciuto. Gli angeli lo sanno solo per sentito dire.

    Allo stesso tempo, l’umanità nella forma dei pensieri e dei ricordi che noi spettatori cogliamo costantemente viene catturata in modo più netto che in altre esperienze cinematografiche. La paura del futuro, l’indecifrabilità del passato: Il cielo sopra Berlino fotografa direttamente l’anima. È commovente, divertente e spesso fa riflettere.

    Il regista contrasta questa gravosità con la presenza dell’interprete di Colombo Peter Falk, impegnato in una versione immaginaria di sé stesso mentre sta girando un film sull’era nazista a Berlino.

    Falk conduce una vita che i due angeli avrebbero desiderato vivere. In mezzo alla gente, popolare e piena di curiosità infantile.

    Il lavoro di Wenders è più un’esperienza per il cuore che un lungometraggio. All’inizio, lo spettatore è avvolto da una leggera malinconia che si allenta solo alla fine dell’ultimo atto. Oltre al preciso lavoro di ripresa, al sofisticato sound design, ai dialoghi e ai monologhi poetici, alla commovente partitura per archi e alla colonna sonora dark gothic – Nick Cave e i Bad Seeds nella loro fase iniziale – è soprattutto la recitazione che rende Il cielo sopra Berlino un capolavoro.

    Anche se tutti gli attori sono bravi, spicca Bruno Ganz. L’artista di Zurigo cattura alla perfezione l’amore (non corrisposto) di cui si nutre il suo personaggio. Uno sguardo sobrio, un’espirazione lenta o un dolce sorriso: la performance di Ganz si muove tra commovente e straziante.

    Sebbene Wenders sia tornato alla fede cristiana alla fine degli anni ‘80, e sebbene due angeli siano al centro della storia, Il cielo sopra Berlino è solo marginalmente un film sulla religione. Piuttosto, è una dichiarazione d’amore di due ore allo spettatore. Un capolavoro cinematografico che, nonostante la sua costruzione lenta, lascia una sensazione di leggerezza. Uno dei migliori film di tutti i tempi.

    Ecco, come prefazione, la recensione che non ho mai scritto – ma che avrei voluto.

    Massimo Moscati

    Odissea in 35mm

    Nel Proemio dell’Odissea Ulisse viene definito «πολύτροπος», politropo, ovvero uomo di ingegno multiforme e versatile.

    È l’epiteto per eccellenza dell’archetipo del viaggiatore inquieto, che nella perenne ricerca di sé cambia continuamente forma, muore e rinasce diventando altro all’infinito, mettendo sempre in atto un io differente e rinnovato per vincere e ingannare gli ostacoli che la vita via via gli presenta.

    Se dovessimo, per gioco ma non troppo, traslare gli epiteti omerici nella storia del cinema e cercare un politropo tra i più grandi registi del Novecento, esso non potrebbe essere che Wim Wenders.

    Questo aggettivo così ampio, sfuggente, indefinito e di fatto intraducibile con un unico termine, a nessuno si adatta, più o meno alla perfezione, come al grande autore tedesco. Anzitutto perché il cinema di Wenders è un cinema viaggiante, dove ogni cosa, dai personaggi alla trama, dagli ambienti ai suoni, ai dialoghi, è movimento, scoperta, cambiamento e metamorfosi. Un viaggio perenne dove pur in uno stile forte, coerente, immediatamente riconoscibile, le forme mutano continuamente – dalla fiction al documentario, dal silenzio al dialogo torrenziale, dall’assenza di sceneggiatura all’intreccio granitico – intrecciandosi, annullandosi, richiamandosi e fondendosi. Dove il primo viaggiatore è proprio il regista, la guida – cieca per l’appunto come Omero – che vede senza guardare, che al pari di Ulisse porta se stesso e compagni più o meno inconsapevoli in mezzo al mare, senza coordinate e senza destinazione, perché l’unica meta è l’eterno ritorno a casa per poi ripartire ancora una volta.

    Ricostruire pertanto l’intera parabola artistica di Wim Wenders, dai primi cortometraggi fino ai lavori più recenti, è perciò, prima ancora che un lavoro critico e storiografico, un’avventura viaggiante.

    Esaltante e spaventosa. Un’autentica Odissea in 35mm che, pur portandoci tra le tappe più altisonanti della storia del cinema del secondo dopoguerra e tra i titoli più universalmente noti di Wenders, ci traghetta continuamente in anfratti misteriosi e sconosciuti, magici e inspiegabili.

    Dove il senso ultimo, proprio nel momento in cui ci illudiamo di averlo imprigionato e compreso, ci sfugge tra le dita. Costringendoci a rimetterci in viaggio per cercarlo – e cercarci – ancora.

    Germania anno zero

    Da Düsseldorf a Parigi

    Ernst Wilhelm Wenders, per tutti Wim, nasce a Düsseldorf il 14 agosto del 1945.

    In una Germania completamente distrutta – anche, e forse soprattutto, moralmente – la città natale del regista è tra le più colpite. Tra i principali obiettivi della cosiddetta «battaglia della Ruhr», la vasta operazione con cui, nel 1943, la RAF aveva attaccato il cuore della potenza industriale tedesca, a fine guerra Düsseldorf risulta distrutta al novanta per cento.

    Concepito nel pieno dell’atto finale della catastrofe, tra i venti gelidi dello shock collettivo della sconfitta, Wenders appartiene a quella generazione nata tra macerie e senso di colpa, destinata a non avere passato e a creare dal nulla una nuova identità nazionale. Come vedremo, di questo processo sorprendente, egli sarà uno dei protagonisti più felici.

    Macerie e case e palazzi sventrati tuttavia, complice senz’altro la sbalorditiva rapidità di ricostruzione della Germania Occidentale, non trovano spazio nei ricordi del Wenders bambino. La storia complessa e faticosa di quel drammatico secondo dopoguerra resta impressa nella memoria del futuro regista attraverso le immagini dei militari americani di stanza a Düsseldorf.

    È, a quanto ci è dato sapere(1), il primo incontro con quella cultura, quell’immaginario statunitense che tanto peso avrà nel percorso artistico di Wenders.

    Anche il primo, fatale, approccio al cinema, avviene con il fondamentale filtro americano:

    Quando avevo sei anni i miei genitori mi diedero un vecchio proiettore a mano e dei vecchi film che possedeva mio padre, Chaplin, Keaton. In dieci anni vidi lo stesso film mille volte, come gli operatori(2).

    Ci sono altri scampoli di cultura a stelle e strisce presenti nella primissima formazione di Wenders, come i polizieschi di Raymond Chandler e, soprattutto, il nascente – e travolgente – rock’n’roll. In definitiva niente di particolarmente eccezionale, tutti elementi ben radicati nell’immaginario comune della maggior parte degli adolescenti del mondo occidentale negli anni Cinquanta.

    Il mito americano tornerà, come già accennato, in maniera ben più profonda e originale, in una fase successiva.

    Infatti, la sensibilità artistica del giovanissimo Wenders, più che dagli Stati Uniti, risulta irrimediabilmente – e felicemente –sedotta dal fascino francese.

    Appena diplomato, nel 1963, tenta prima senza successo di seguire le orme del padre studiando medicina, e poi, l’anno successivo, di nuovo senza successo, di dedicarsi agli studi filosofici.

    Abbandonata definitivamente l’università di Düsseldorf, nel 1965 decide di trasferirsi a Parigi. La capitale transalpina vive in quel periodo la sua ennesima âge d’or, crocevia di gran parte di quel gigantesco ed eccitato fermento culturale che, come un’irresistibile onda elettrica, stava attraversando la quasi totalità dell’occidente e che di lì a poco sarebbe definitivamente esploso nei movimenti di protesta del 1968, trovando sempre in Parigi il proprio centro propulsore. Come già in passato, i più importanti e radicali artisti americani, dagli esponenti della Beat Generation – Allen Ginsberg, Gregory Corso, William Burroughs – ai più innovativi e spericolati jazzisti – Bud Powell e Kenny Clarke su tutti – vi si riversano in massa decretandola loro patria elettiva, mescolandosi alle nuove avanguardie europee, a intellettuali del calibro di Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Michel Foucault e contribuendo a trasformare il Quartiere Latino, Saint Germain e Montparnasse nei centri per eccellenza della contaminazione e del fervore creativo del tempo.

    In questo clima esplosivo, il cinema occupa un posto d’onore. Capitale storica della settima arte dall’epopea dei fratelli Lumière e da altre leggendarie avventure pionieristiche di inizio secolo, a partire da quella dell’illusionista George Méliès, Parigi vive una nuova cruciale giovinezza cinematografica sulla spinta potente e inarrestabile della Nouvelle Vague.

    Il movimento, nato sul finire degli anni Cinquanta da un gruppo di giovanissimi intellettuali cinefili, principalmente storici e critici cinematografici naturalizzati in autori – Jean-Luc Godard, François Truffaut, Claude Chabrol, Jacques Rivette, Éric Rohmer –, si era fatto portavoce per eccellenza dell’esigenza di cambiamento di un’intera generazione.

    Nel proporre – prendendo come via maestra la lezione di Rossellini e del neorealismo italiano, e di altri grandissimi registi come Hitchcock e Hawks, allora largamente sottovalutati o del tutto incompresi – un cinema del tutto estraneo alle tendenze moralizzatrici e idealistiche della cinematografia ufficiale del tempo, ma che viceversa intendeva essere testimone in tempo reale dell’immediatezza del divenire, preferendo strade e appartamenti reali alle ricostruzioni in studio, la presa diretta al doppiaggio, la macchina a mano alle gru e ai carrelli, avevano finito per scrivere – e ovviamente filmare – una sorta di diario intimo collettivo di quella nuova gioventù inquieta e disinvolta che, gridando e sgomitando, rivendicava un modo tutto nuovo di intendere l’arte e, soprattutto, la vita.

    Se il laboratorio intellettuale e politico della Nouvelle Vague furono «Les Cahiers du Cinéma», la rivista di cui tutti i principali esponenti del movimento furono animatori e collaboratori, il luogo materiale dove quella poetica prese forma e sostanza fu senz’altro la leggendaria Cinémathèque Française.

    Fondata nel 1936 dal regista Georges Franju e dall’archivista Henri Langlois, che ne assunse anche la prima direzione, era nata come una sorta di estensione di un cineclub animato negli anni precedenti dagli stessi Franju e Langlois, con lo scopo di conservare e proiettare film, nonché, soprattutto, di educare al cinema le generazioni future.

    A quarant’anni dall’invenzione del cinematografo, la Cinémathèque è in buona sostanza l’espressione più concreta – e importante – del definitivo salto di qualità della pratica filmica(3), da puro intrattenimento da fiera e baraccone ad arte autonoma, dotata di un proprio linguaggio e di una propria grammatica, che, come tale, deve essere conservata e insegnata.

    Tuttavia, in un certo sentire comune bigotto e moralistico, la Cinémathèque non fu affatto percepita come centro di educazione e formazione. Viceversa, fu additata a lungo come il luogo in cui si proiettavano film scabrosi («maledetti», come ebbe a dire non senza ironia Jean Cocteau), ovvero le opere di quei registi sopra menzionati al tempo largamente ignorati dal grande pubblico e che costituirono il punto di riferimento della poetica della Nouvelle Vague.

    Quando Wenders appena ventenne arriva a Parigi, la Nouvelle Vague è una realtà ormai consolidata, i suoi principali esponenti hanno già girato alcuni tra i loro più grandi capolavori(4), mentre la Cinémathèque, dopo alcuni spostamenti di sede, si è definitivamente installata nel Palais de Chaillot, nel complesso monumentale del Trocadéro, diventando un ente finanziato dallo Stato.

    Ma il cinema non è ancora, nemmeno lontanamente, nei suoi progetti. La sua fuga parigina è dettata dal desiderio di dedicarsi a tempo pieno a quella che, all’epoca, è la sua unica vera passione, la pittura. Prova perciò a entrare alla École des beaux-arts, ma non riuscendovi inizia a lavorare come incisore in un atelier di Montmartre.

    È a questo punto, tra la delusione per la bocciatura alla scuola d’arte e l’eccitazione di trovarsi nel centro del mondo, che la curiosità infantile per i film di Chaplin e Keaton si riaccende, trasformando il gioco della manovella del proiettore casalingo in autentica vocazione. Diventato frequentatore assiduo della Cinémathèque, in poco più

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1