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Rapsodia per il Teatro: Arte, politica, evento
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E-book241 pagine3 ore

Rapsodia per il Teatro: Arte, politica, evento

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Info su questo ebook

Una raccolta completa degli scritti di Alain Badiou sul teatro, dal 1990 ad oggi, che comprende la famosa Rapsodia per il teatro ed altri ulteriori interventi sui rapporti tra teatro e filosofia, teatro e politica e sulla commedia. Pubblicati per la prima volta in Italia, questi testi riconsegnano al lettore l'interezza dell'ultima grande teoria del teatro contemporaneo, il lungo e intenso lavoro di uno dei più importanti intellettuali e filosofi del nostro tempo.

"Al nostro tempo non importa dell'eternità. È dalla parte del calcolo e dell'istante. La settimana prossima è già fuori dalla sua portata di significato. Ora, il teatro mostra come ogni misura reale del tempo implichi una presentazione dell'atemporale. Il teatro esibisce la connessione massima, quella dell'istante con l'eternità. Costruisce il proprio tempo, nel momento in cui noi sopportiamo la banalità del nostro. Il teatro ci dice che per sapere chi siamo, dove siamo, e quanto vale il nostro tempo, abbiamo bisogno di Amleto, di Antigone, del costruttore Solness, di Berenice, di Galileo, la cui esistenza atemporale è garantita dalla temporalità sperimentale e dalla singolarità dell’evento teatrale" (Alain Badiou).
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2015
ISBN9788868222833
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    Anteprima del libro

    Rapsodia per il Teatro - Alain Badiou

    Collana diretta da

    Roberto De Gaetano

    alain badiou

    RAPSODIA PER IL TEATRO

    Arte, politica, evento

    a cura di

    Francesco Ceraolo

    Frontiere. Oltre il cinema

    Collana diretta da Roberto De Gaetano

    Comitato scientifico

    Gianni Canova, Ruggero Eugeni, Pietro Montani

    Il presente volume comprende la traduzione di Rhapsodie pour le Théâtre. Court traité philosophique (Puf, Paris 2014) e altri scritti sul teatro riuniti per la prima volta in un unico volume e organizzati secondo un criterio approvato dall’autore.

    Traduzione dal francese di Francesco Ceraolo

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2015

    ISBN: 978-88-6822-283-3

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Francesco Ceraolo

    Per un’inestetica del teatro

    Per inestetica intendo un rapporto della filosofia con l’arte che, conscio del fatto che l’arte è in sé produttrice di verità, non pretende affatto di farne un oggetto della filosofia. Al contrario della speculazione estetica, l’inestetica descrive gli effetti strettamente intrafilosofici prodotti dalle singole opere d’arte.

    A teatro si tratta di fare un’esperienza d’incontro con l’idea che è esplicita, pressoché fisica, mentre al cinema, si tratta di riscontrarne il passaggio quasi fantasmatico.

    Alain Badiou

    I regimi della teoria e della prassi teatrale

    Introdurre al lettore italiano l’interezza inedita degli scritti teorici di Alain Badiou sul teatro presuppone, in primo luogo, che ci si interroghi sulla questione dello stato attuale della teoria del teatro, come sul ruolo del medium teatrale stesso nel contesto dei dispositivi dello spettacolo contemporaneo. Presuppone quindi, e innanzitutto, il tentativo di fornire una risposta a due domande precise: in primis, che cos’è la teoria del teatro? E poi, cosa non meno importante, qual è lo stato attuale della sua prassi?

    La prima risposta può apparire in qualche modo immediata: la teoria del teatro, da Aristotele in poi, è stata e rimane tuttora fondamentalmente un pensiero sul teatro. Ovvero, volendo esemplificare schematicamente il suo percorso attraverso alcuni momenti cruciali, essa è stata, in modo eterogeneo, un orientamento o un commento alla sua prassi (si pensi a Diderot, Wagner, Gordon Craig, Stanislavskij, Mejerchold), la perimetrazione del suo limite (Rousseau), il mezzo per affermare la straordinaria violenza espressiva di cui il teatro è capace (Nietzsche, Artaud, Grotowski), il modo per definire il tracciato autentico entro cui pensare il regime del suo operare (in forme differenti Aristotele, Hegel, Brecht, Sartre, Szondi), o infine, il passaggio quasi accidentale e libero di una più ampia riflessione speculativa o estetologica (si pensi a Freud, Lacan, Ortega y Gasset, Derrida, Deleuze, Nancy).

    Venendo all’oggi è possibile affermare che, ognuna a suo modo, fedeli o meno a tali prospettive, ed in particolare sulla scorta del modernismo novecentesco, le esperienze più importanti del panorama contemporaneo, quelle riconosciute correttamente da Lehmann come parte di una «neoavanguardia postdrammatica»[1], abbiano innanzitutto derivato la propria prassi dalla teoria. Esse hanno inteso cioè la prassi come la messa in opera rispettivamente di uno scarto materiale o di un adeguamento rispetto alla teoria. La risposta che la contemporaneità teatrale ci fornisce è dunque questa: esiste una teoria del teatro, ovvero un pensiero sul teatro, un’ipotizzata verità del pensiero che si applica all’evento teatrale (si pensi, solo per fare alcuni esempi, ai significativi e numerosi lavori teorici di due autori cruciali del canone contemporaneo come Romeo Castellucci o Jan Fabre[2], ma ce ne sono molti altri), e l’adeguamento o il completamento materiale di tale verità è ciò che definisce la prassi teatrale. In altre parole, la prassi teatrale si definisce a partire da una teoria, ed è in primo luogo quest’ultima, e non la prima, a distinguere il vero teatro da quello ufficiale, quello di repertorio o, se si vuole, in termini modernisti, quello borghese, che invece rappresenta la pura forma spettacolare e tradizionale di un teatro senza pensiero, un semplice divertimento per le masse più o meno colte. La prassi teatrale, ci dice la contemporaneità, è dunque solo una conseguenza della sua teoria.

    Passiamo alla seconda domanda: in quanto derivazione della teoria, che cos’è oggi la prassi teatrale? Anche qui, la risposta può sembrare altrettanto immediata, anche ad uno primo ed approssimativo sguardo sulla produzione contemporanea. La prassi è il risultato del costante e prolungato sforzo teorico di liberare il momento teatrale – l’evento della rappresentazione – dalla schiavitù drammatica del testo scritto. O ancora, è l’affermazione della supremazia della singolarità dell’istante della rappresentazione sull’eternità del testo. Ciò che costituisce la teatralità autentica è la voce anziché la parola, il gesto anziché il dramma, l’improvvisazione anziché la pianificazione, il corpo anziché l’idea. La prassi è la messa in opera di una teoria, l’adeguamento ad un pensiero (o il suo completamento materiale) che sancisce la fine dell’idea drammaturgica e dei suoi significanti quali momenti fondativi del teatro. Il teatro si definisce in base alla sua capacità di produrre nello spettatore pensieri, percezioni, emozioni, esclusivamente sulla scorta della sua evenemenzialità, della sua irriducibile unicità e provvisorietà, che lo distinguono da ogni altra forma di rappresentazione del reale, e principalmente dal cinema, che invece può esistere solo in quanto compimento tecnico (e mistificatorio) di una sceneggiatura scritta[3]. Il carattere istantaneo dell’evento teatrale restituisce verità e fisicità al rapporto attore-spettatore, purifica dall’illusione dell’idea, di cui il testo è portatore, fornisce un significato autentico a quell’esperienza, e alla singolarità del suo accadere (l’happening), di cui solo il teatro è capace. La prassi è dunque l’effetto della teoria e non più il compimento di un testo, com’è stata per larga parte della sua esistenza. Anche quando mantiene come suo oggetto un testo, essa lo ripropone per vie laterali, lo tradisce volontariamente proprio in nome di un proposito teorico, che non è a servizio dell’impianto drammaturgico, ma opera verso la sua disarticolazione.

    Ora, è attorno ai due nodi centrali (teoria e prassi) di questa schematica panoramica dell’ontologia teatrale contemporanea che è possibile capire l’importanza e la novità della riflessione di Badiou su questo tema.

    Tutt’altro che marginale rispetto alla più nota produzione strettamente filosofica, la riflessione sul teatro di Badiou si sviluppa, parallelamente alla sua attività di drammaturgo, a partire dagli anni 1980, il periodo cioè in cui Badiou lavora all’elaborazione dei nodi cruciali del suo pensiero, pubblicando, di fila, il suo primo grande lavoro filosofico (Théorie du sujet, 1982), il suo magnum opus (L’Être et l’Événement, 1988) e il suo primo testo programmatico (Manifeste pour la philosophie, 1989). Contestualmente a questo intenso lavoro filosofico, che getterà le basi del suo pensiero, Badiou inizia a scrivere e pubblicare una serie di pièce teatrali (la prima, L’Écharpe rouge, è del 1979, le successive L’Incident d’Antioche, Ahmed le subtil, Ahmed philosophe, Ahmed se fâche e Les Citrouilles sono scritte tra gli anni 1980-90), a collaborare con testi di critica e teoria alla rivista L’Art du théâtre diretta da Antoine Vitez, ad elaborare dunque un vero e proprio pensiero filosofico del teatro che nel 1990 culminerà nella pubblicazione del breviario programmatico Rhapsodie pour le Théâtre. Court traité philosophique. Attorno a questo testo – apparso in edizione limitata nel 1990 per L’Imprimerie Nationale quale compendio degli interventi scritti per L’Art du théâtre e delle riflessioni maturate lavorando insieme a Vitez, e che Badiou ha deciso di revisionare e rendere nuovamente pubblico nel 2014, affiancandolo ad una nuova Introduzione (Glorie du théâtre dans les temps obscurs) – ruota la prima parte della riflessione di Badiou, in cui si edificano le basi di una nuova vera e propria ontologia dell’evento teatrale. La Rapsodia e la sua nuova Introduzione costituiscono dunque la prima metà di questo volume.

    Proseguendo, troviamo interventi più brevi ma non meno incisivi legati a singoli aspetti del rapporto tra il teatro e la filosofia (Théâtre et philosophie e Mathématiques/esthétiques/arts[4]), sul teatro e la politica (Destin Politique du théâtre, hier, maintenant[5]), sulla commedia (Théatre et politique dans la comédie[6]), e un piccolo nuovo intervento programmatico con relativa dialettica (Dix thèses sur le théâtre e Antithèses sur le théâtre[7]). Questi ulteriori contributi della riflessione di Badiou sul tema sono raccolti nella seconda metà del volume, e le due parti insieme, i cui testi sono per la prima volta editi in italiano, ne vengono a proporre al lettore una panoramica esaustiva[8].

    Teatro e filosofia. Da luogo dello sguardo a luogo del pensiero

    La marginalità di molte riflessioni filosofiche sul teatro, che Badiou tenta di correggere nel suo saggio Teatro e filosofia, si sostanzia a partire da un apparente passo falso iniziale: quello di considerare la pratica teatrale come una presenza estranea, subordinata rispetto al regime filosofico del pensiero, e non invece come una sua com-presenza. L’oggetto-teatro – tanto il suo accadere generico quanto alcuni dei suoi momenti esemplari (Antonin Artaud per Derrida, Carmelo Bene per Deleuze ecc.) – dalla filosofia è contrapposto al pensiero come un altro da sé o una sua semplice presenza liminare. L’etimologia stessa della parola (theatron, luogo dello sguardo) indica indirettamente la fisionomia di questa contrapposizione, in cui l’evento-teatro, non pensato in rapporto diagonale con la pratica filosofica (nei modi che si vedranno), diviene un suo specifico oggetto di analisi, una semplice forma dell’esperienza[9]: il teatro consiste in quella cosa che è fondamentalmente il guardare e l’ascoltare ciò che accade sulla scena, i suoi movimenti visivi e acustici. Il teatro, quando ne è contemplato, è inteso dalla filosofia come «luogo dello sguardo»[10], come spazio stesso della visibilità del soggetto-subjectile[11] e quindi, per sua natura, nei termini di una prossimità con la pittura; oppure, esso è un «luogo dell’ascolto»[12], ed è pertanto vicino alla musica, in cui si fa esperienza dell’irrealtà in quanto tale, di un accadere doppio, mimetico, illusorio – secondo la lezione della mimesis aristotelica[13] – che si contrappone alla pratica filosofica quale invece il luogo autentico del pensiero.

    In modo diametralmente opposto, come si è già accennato, la prima considerazione che emerge leggendo le pagine di Badiou è che il teatro non vi sia tenuto affatto come un oggetto marginale del pensiero, e che dunque esse non siano un episodio periferico all’interno di un più ampio tragitto filosofico e speculativo. Piuttosto, ne rappresentano un completamento, una possibile esemplificazione; il territorio in cui cioè alcuni dei suoi temi principali trovano una forma nuova, alienata ma audace, polemica e libera, proprio perché affrancata dagli obblighi sistematici della Théorie du sujet e dai concatenamenti rigidi del movimento matematico-speculativo dei due tomi de L’essere e l’evento[14]. La riflessione sul teatro emerge come un momento fondativo ed esplicativo della speculazione filosofica di Badiou, una maniera per riattraversarne i passaggi fondamentali, osservarne i lati nascosti, riannodare il legame tra due pratiche che, a partire dalla forma intrinseca della dialettica platonica – il perenne punto di riferimento del suo pensiero[15] –, condividono lo stesso orizzonte d’azione: quello delle verità e dell’idea.

    Ora, per molti versi, essendo proprio un dichiarato platonismo essenziale a portare Badiou ad interessarsi così profondamente al teatro – in un contesto storico in cui, come riconosce egli stesso, il teatro non è esattamente al centro della riflessione critico-estetologica –, è vero che sulle prime, specialmente ad un lettore poco propenso ad avallare una riflessione per concetti su di un oggetto così intrinsecamente materiale quale quello teatrale, ad appassionare la riflessione di Badiou potrebbe sembrare soprattutto l’incessante interrogazione su di un nuovo destino della filosofia, pensata in rapporto alle sue condizioni necessarie (arte, scienza, politica, amore[16]), e in relazione alla sua origine intimamente teatrale, ovvero dialettica. Perché la filosofia – questo è ciò che potrebbe evincersi dal suo discorso, scoprendone immediatamente il fianco ad una critica nei termini di una specialistica filosofia del teatro piuttosto che di una generica teoria della sua prassi – sembrerebbe rimanere per Badiou lo strumento principale a disposizione dell’uomo per giungere alle realtà della vita e della Storia, il mezzo più adatto per produrre, a partire dalle procedure di verità delle sue quattro condizioni, nuove forme di sapere.

    Certo, a sua volta, il teatro sarebbe il mezzo più adatto per esporre tali forme al cospetto di un pubblico, di un assembramento generico e inconsistente, attraverso una serie di mediazioni materiali dell’idea che, giunte al punto limite dello spettatore, vengono a costituire, prese nel loro insieme, delle nuove realtà. Ma, in definitiva, solo la filosofia ha l’autentica capacità di interrogare il reale, di comprenderlo e, soprattutto, di modificarlo. Il nucleo della riflessione sul teatro sembrerebbe dunque essere, ad una lettura immediata, una sua esaltazione che ne nasconde una meno evidente mortificazione: il teatro è com-presente alla filosofia unicamente in quanto suo strumento, seppur straordinario e imprescindibile. O anzi meglio, utilizzando le sue stesse parole, il teatro è «la filosofia colta nel momento della dissolutezza»[17], il suo abbassamento al punto della materia, del desiderio e della finitezza dei corpi.

    La realtà è molto diversa da queste, pur comprensibili, impressioni iniziali. Quasi volendo proteggere a priori la propria argomentazione da una simile critica infatti, Badiou inserisce nella Rapsodia lo strano personaggio dell’«Empirista»[18], alla cui dialettica è affidato il compito di svelare la vacuità di tali contestazioni. Ma è soprattutto quello che apparirebbe un rapporto squilibrato tra filosofia e teatro (pensato in favore della prima), una sussunzione dell’oggetto-teatro all’interno delle categorie filosofiche, a nascondere, nei fatti, una questione ben più complessa. Ed è qui che, a volte, è necessario colmare, come ci si propone di fare in questo saggio introduttivo, i riferimenti al suo stesso pensiero lasciati spesso aperti dalle pagine di Badiou: proprio la conclusione secondo cui il teatro sarebbe in primo luogo materia dei filosofi, più che degli stessi «uomini di teatro»[19], rivela la natura intrinsecamente veritativa di questo strano e antico evento spettacolare, anch’esso a pieno titolo luogo del pensiero, che cela dentro di sé gli spazi entro cui la filosofia può realmente costruire il suo nuovo destino. In definitiva, è attraverso la filosofia che il teatro riscopre la sua vera essenza alta, ed è circoscrivendo il ruolo rispettivo della teoria e della prassi teatrale che, a sua volta, il filosofo perimetra l’estensione originaria dell’agire speculativo, che perso dietro alle sue derive nichilistiche, o alle sue frammentazioni accademiche, ha smarrito la sua autentica missione: l’enunciazione del «c’è delle verità e della loro compossibilità»[20], l’apprensione, per mezzo dell’atto del pensiero, dell’esistenza delle verità non come sapere assoluto («la Verità»), ma come i modi molteplici della produzione e rappresentazione della vita autentica.

    Ecco perché, ci dice Badiou, abbassandosi alla «dissolutezza» del teatro la filosofia ritrova un suo nuovo possibile destino (il materializzare, il dare corpo alle verità), esattamente come il teatro, simbioticamente, lo ritrova innalzandosi alla «purezza» della filosofia.

    L’inestetica come riannodamento della teoria all’evento-teatro

    Ora, questa duplice ridefinizione parte, in prima istanza, da un capovolgimento essenziale della nozione stessa di filosofia del teatro quale semplice teoria applicata all’oggetto teatrale. La teoria infatti non è un pensiero sull’oggetto (teatrale, artistico, matematico, politico ecc.), cioè una sua appendice, una sua interpretazione, come è stata storicamente intesa; ma il modo in cui, per mezzo del pensiero, è possibile dotare tale oggetto di una propria autonomia, definendo come, attraverso la sua prassi generica, esso sia in grado di produrre delle procedure di verità che specificamente gli competono. La teoria è dunque un pensiero positivo, la forma del riconoscimento dello specifico metalinguaggio di una pratica veritativa, la descrizione dei suoi effetti, l’apertura dei suoi orizzonti di senso; non la costruzione di un discorso su qualcosa, ma l’enunciazione dei modi in cui quel qualcosa apre (o può aprire) ad una nuova serie di verità[21].

    Innegabilmente, se le premesse fondative alla tematizzazione di Badiou risiedono nell’enunciazione delle categorie dell’apprensione filosofica dell’arte (Didattica, Classica e Romantica, proposta nell’Inestetica e riesposta qui nel saggio Teatro e filosofia[22]), risulta altrettanto chiaro come il nemico interno del suo progetto non sia certamente il didatticismo di Brecht e Sartre, tantomeno il classicismo di Aristotele e Lacan, che si vedranno meglio di seguito, quanto lo schema post-romantico di Heidegger. Ovvero quello che, per primo, ha inteso rintracciare nell’arte – specificamente nella poesia – la capacità di aprirsi alla Verità e alla sua manifestazione, di essere della Verità l’autentica instaurazione (Stiftung)[23], non più nei termini sensibili di un regime passato e superato (Hegel), né tantomeno in quelli di una immediatezza semplice (Schelling e i romantici). Ma l’ermeneutica heideggeriana, ritiene Badiou, attraverso l’esaltazione della figura del «poeta-pensatore» non ha fatto altro che rendere circolare il movimento della Verità tra l’infinitezza del pensiero e la finitezza della poesia:

    Il ritrarsi dell’essere perviene al pensiero nella congiunzione tra la poesia e la sua interpretazione. L’interpretazione non fa che consegnare la poesia al tremore della finitudine, dove il pensiero si sforza di serbare il ritrarsi dell’essere come radura. Pensatore e poeta, nel loro sostenersi reciprocamente, incarnano lo schiudersi della chiusura nella parola[24].

    A Heidegger Badiou contesta il fatto che la procedura di verità dell’arte abbia invece sempre i tratti dell’«immanenza», come anche quelli della «singolarità». Se il primo dei due tratti è confermato dall’ermeneutica – sebbene esclusivamente nei termini in cui all’arte è assegnato il ruolo di mostrare la discesa immanente dell’idea pura nella finitezza della materia sensibile –, il secondo né è smentito interamente, perché Heidegger finisce per maneggiare sempre

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