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Prose dal dissesto: Antiromanzo e avanguardia negli anni Sessanta
Prose dal dissesto: Antiromanzo e avanguardia negli anni Sessanta
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E-book454 pagine5 ore

Prose dal dissesto: Antiromanzo e avanguardia negli anni Sessanta

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Gli anni Sessanta del Novecento sono stati teatro di un fenomeno letterario che oggi molti ritengono del tutto archiviato. In quel decennio, infatti, un folto gruppo di autori si è dedicato alla composizione di romanzi polimorfi, discontinui, eccessivi, disarmonici, finanche illeggibili secondo i parametri che attualmente regolano la scrittura e la lettura. Nato nell’alveo del Gruppo 63, oggetto di un’accesa riflessione teorica, il romanzo sperimentale italiano degli anni Sessanta presenta una fenomenologia ampia e differenziata, esito delle assai diverse voci che lo hanno di volta in volta caratterizzato. Questo studio tenta di restituire la pluralità di quell’esperienza, e anziché tracciare una storia o limitarsi a ribadire le posizioni teoriche interne al dibattito, prova a sollecitare i testi, risvegliando le pagine in un mobile mosaico di sondaggi critici, assemblato intorno ad alcuni snodi prospettici fondamentali. Si vedrà allora quanto abbiano ancora da dire questi strani romanzi di Sanguineti, Malerba, Manganelli, Arbasino, Vasio, Spatola, Balestrini, Porta, Ceresa e Di Marco; e quanto il loro attraversamento possa ancora offrire una verifica inedita della nostra capacità di interpretazione della realtà.
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2013
ISBN9788870005998
Prose dal dissesto: Antiromanzo e avanguardia negli anni Sessanta

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    Anteprima del libro

    Prose dal dissesto - Massimiliano Borelli

    Collezione di saggi critici diretta da Luigi Weber

    Mucchi Editore

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    Massimiliano Borelli

    Prose dal dissesto

    Antiromanzo e avanguardia negli anni Sessanta

    Mucchi Editore

    ISBN 978-88-7000-599-8

    Tutti i diritti riservati

    © Stem Mucchi Editore

    Via Emilia Est, 1527 - 41122 Modena

    Grafica e preparazione Stem Mucchi Editore

    info@mucchieditore.it

    www.mucchieditore.it

    I edizione digitale luglio 2013

    Eppoi il tavolo zoppica, la penna gratta…

    T. Landolfi, La biere du Pecheur

    Gli anni Sessanta del Novecento sono stati teatro di un fenomeno letterario che oggi molti ritengono del tutto archiviato. In quel decennio, infatti, un folto gruppo di autori si è dedicato alla composizione di romanzi polimorfi, discontinui, eccessivi, disarmonici, finanche illeggibili secondo i parametri che attualmente regolano la scrittura e la lettura. Nato nell’alveo del Gruppo 63, oggetto di un’accesa riflessione teorica, il romanzo sperimentale italiano degli anni Sessanta presenta una fenomenologia ampia e differenziata, esito delle assai diverse voci che lo hanno di volta in volta caratterizzato. Questo studio tenta di restituire la pluralità di quell’esperienza, e anziché tracciare una storia o limitarsi a ribadire le posizioni teoriche interne al dibattito, prova a sollecitare i testi, risvegliando le pagine in un mobile mosaico di sondaggi critici, assemblato intorno ad alcuni snodi prospettici fondamentali. Si vedrà allora quanto abbiano ancora da dire questi strani romanzi di Sanguineti, Malerba, Manganelli, Arbasino, Vasio, Spatola, Balestrini, Porta, Ceresa e Di Marco; e quanto il loro attraversamento possa ancora offrire una verifica inedita della nostra capacità di interpretazione della realtà.

    Massimiliano Borelli è nato a Roma nel 1982. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università degli Studi di Siena e l’Università di Zurigo. Ha pubblicato la monografia Grammatica e politica della rovina in Giorgio Manganelli (Aracne, 2009) e ha curato insieme a Francesco Muzzioli l’antologia di articoli di Gianni Toti Planetario. Scritti giornalistici 1951-1969 (Ediesse, 2008). Attualmente lavora in ambito editoriale e cura la collana ultra/corpi per le Edizioni Polìmata di Roma.

    Prefazione di Ugo Perolino

    Antiromanzi degli anni Sessanta

    Il dissesto evocato nel titolo allude a un ampio repertorio di soluzioni formali e di procedure narrative che trovano espressione nel contesto della ricerca letteraria sperimentale degli anni Sessanta. Censirne e analizzarne gli esiti all’interno di un preciso ordinamento tassonomico risulta essenziale all’intelligenza dei testi e alla definizione di una prospettiva anche critica e di valore. Massimiliano Borelli perlustra un territorio storicizzato, immediatamente implicato in quel processo di auto-esegesi che caratterizza il metodo culturale dell’avanguardia attraverso happening e discussioni collettive, e che però da alcuni anni sembra slittare desultoriamente verso i margini a fronte di una recuperata centralità dello storytelling nei flussi della comunicazione globale (politica, marketing, informazione).

    La riapertura del dossier sull’avanguardia comporta alcuni interessanti repêchage, tra cui sarà utile segnalare almeno La figlia prodiga di Alice Ceresa, pubblicato nel 1967 nella collana einaudiana La ricerca letteraria diretta da Manganelli, Davico Bonino e Sanguineti; Telemachia (1968) di Roberto Di Marco, un significativo esempio di epicità brechtiana (Sanguineti) declinata dentro protocolli argomentativi e saggistici; L’oblò (1964), primo e unico romanzo di Adriano Spatola, che compone un vertiginoso congegno narrativo «segnato dal caos che lo disfa e riforma» (Guido Guglielmi); L’orizzonte (1966) di Carla Vasio, uscito come il precedente tra le Comete di Feltrinelli. Proprio il riferimento al caos come logica che organizza il racconto, rispecchiando nella struttura narrativa l’evidenza contraddittoria e psicotica del reale, fa rilevare una sorta di denominatore comune nel corpus anti-narrativo degli anni Sessanta, da Capriccio italiano a Hilarotragoedia fino a Salto mortale (1968) di Malerba. Si tratta però, al fine di identificare correttamente i tratti costitutivi dell’antiromanzo, di ricostruire una koinè espressiva allargata, di fissare le costanti, sciogliere i nodi procedurali e inquadrare le scelte operate dalle singole personalità. L’opzione di fondo riguarda il rifiuto del naturalismo, da cui discendono le qualità antirealistiche e allegoriche del nuovo romanzo. L’ispirazione strutturale delle prose del dissesto sovverte i cardini della narratività, punta all’«abolizione della trama tradizionale», mette in scena l’«eclissi del personaggio» come centro focale della narrazione, registra analiticamente la scomposizione «dell’io come regista esterno» (Borelli) e come centro unificatore delle rappresentazioni.

    Fissate le costanti, si scopre poi che il paesaggio è ricco di individualità e che talvolta le differenze contano più delle somiglianze. Un paradigma comune alle scritture dal dissesto sembra essere la nekuia, la discesa agli inferi, un mitologema nel quale Sanguineti declina dantismo e psicoanalisi, attingendo da un lato alla sintassi freudiana del sogno e, dall’altro, all’enciclopedia junghiana dei simboli. Nella Hilarotragoedia di Manganelli, con esiti opposti allo storicismo sanguinetiano, si evidenziano al contrario i segni di una teologia del Nulla, «ovvero della negazione, del no, dell’intransigente rifiuto all’assimilazione in organi concettuali prestabiliti» (Borelli). In modo analogo, l’emblema del labirinto, una cornice molteplice e ingannevole, modellata su autorevoli paradigmi letterari (Ariosto, Borges, Robbe-Grillet), opera tanto nella ricorsività onirica del Capriccio sanguinetiano, intersecato da una pluralità di sequenze in dissolvenza, quanto sulla «stocastica frammentazione» del romanzo di Antonio Porta, Partita (1967), narrazione per accumuli, priva di punti fermi, che procede mediante «una sintassi non conclusiva quanto additiva» (Weber). Un intreccio labirintico, «non di trama […] ma di pensieri» (Borelli) viene infine replicato nella forma del trattato, per vie e con esiti diversi, da Alice Ceresa e da Giorgio Manganelli, mentre negli stessi anni una tecnica combinatoria neodadaista viene pionieristicamente sperimentata da Nanni Balestrini.

    La seconda parte del libro disegna una fenomenologia storica del personaggio romanzesco che prende le mosse dalle incalcolabili intuizioni di Giacomo Debenedetti. Un identikit dell’antipersonaggio è destinato a evidenziare l’«isolamento», l’estraneità e l’inautenticità di un’«esistenza esclusa da ogni scambio intersoggettivo», segnata dall’«insignificanza», «depauperata e atona anche nei rapporti con il mondo oggettivo» (Debenedetti). Il declino del personaggio-uomo, sull’orlo di una «alienata condizione collettiva dell’assurdo» (Borelli), risponde alla destinazione di una letteratura che diventa custode delle proiezioni apocalittiche di un’epoca e ne alimenta il senso della fine o di una rigenerazione. Respingendo la tentazione del sacro, il progetto della neoavanguardia è consistito essenzialmente nel convertire il mito nella kantiana ragion pratica, etica e politica. A questo si deve probabilmente la sua penetrazione teorica, il «drôle de ménage» (Debenedetti) che essa combina con le rappresentazioni scientifiche, la sua torrida lucidità. Dalla distruzione dell’io propria dell’eversione futurista fino alla constatazione della sagomatura pseudoumana o già direttamente postumana dell’antipersonaggio novecentesco, ciò che la scomposizione della coscienza fa ovunque affiorare è l’automatismo onirico, il vissuto di spossessamento, l’estraneità, la dissoluzione dell’unità corporea, l’afasia, l’inautentico. Nella costituzione delle sue figure narrative Sanguineti si affida a un «pathos visivo», o meglio a un «patimento dell’immagine» (Borelli) che si tematizza poi nell’esibizione delle lacerazioni, nella disunità organica, nell’abbassamento grottesco di cui la materialità corporea è indice. In Salto mortale Malerba privilegia l’alternanza tra la sfera del sogno e la scena della realtà, scandita dalle alterazioni ritmiche di una voce recitante frazionata e innaturale, rimuginante e impersonale, che appare come un «prodotto quasi meccanico degli organi del pensiero» (Poggioli).

    Lo statuto del Soggetto ha rappresentato una preoccupazione costante della ricerca letteraria, in campo narrativo e poetico, con evidenti addentellature gnoseologiche e triangolazioni con la psicoanalisi, l’antropologia e la linguistica. A proposito del poemetto Il Tautofono, uno dei momenti più avanzati e originali nella sperimentazione poetica della neoavanguardia, Alfredo Giuliani contrassegnava la voce recitante come quella di uno «psicotico, un delirante e un giudizioso inseguitore della realtà, la quale insegue e incalza lui, povero malcapitato nel mondo parlante e incomprensibile». Questa estraneità e perfino dichiarata e aperta ostilità del Soggetto al Linguaggio interviene nella celebra formula lacaniana : «L’inconscient est cette partie du discours concret en tant que transindividuel, qui fait défaut à la disposition du sujet pour rétablir la continuité de son discours conscient», la quale nella seconda metà degli anni Sessanta (gli Écrits sono presentati a Milano nel ’66) diviene un modello di riferimento non eludibile che si aggiunge ai paradigmi junghiano e freudiano esperiti nella prima parte del decennio.

    Direttamente collegate a questo nucleo storico e tematico sono le sezioni dedicate ai problemi del montaggio e alle tecniche della citazione. Per quest’ultimo caso, inoltre, appare estremamente significativo il rilievo conferito al romanzo di Alberto Arbasino, Super-Eliogabalo (Borelli coerentemente si serve dell’edizione del 1969), e alle annotazioni di Certi romanzi, cahier di appunti, divagazioni e intuizioni sfolgoranti che fiancheggia la stesura di Fratelli d’Italia. Negli scritti su Karl Kraus, Benjamin osserva che il suo umore sprezzante e ironico verso il giornalismo è più vitale che morale: prende di mira l’inautenticità della parola, la rumorosa proliferazione dell’informazione quotidiana che si sostituisce agli eventi e ai fatti, dal momento che il giornalismo rappresenta per Kraus la compiuta espressione di un abissale mutamento di funzioni del linguaggio nella fase del capitalismo avanzato. Osservazioni che possono essere validate anche nel caso di Arbasino, soprattutto in coincidenza con la transizione aperta alla fine degli anni Sessanta, che prelude a una decisa svolta verso la nonfiction con il passaggio dal romanzo al pamphlet satirico e di costume. Romanzo a «frammenti mobili» (Arbasino), Super-Eliogabalo fornisce una corrosiva interpretazione del Sessantotto, affidandosi alla compilazione di cataloghi e inventari flaubertiani, sottisier, raccolte di bêtise, spettacoli della crudeltà, giochi dadaisti, performances surrealiste, mossi da una «inarrestabile pulsione al disordine, un enzima lievitante che spalanca il testo in continue aperture, dentro e fuori l’orizzonte letterario» (Borelli). La satira, annota ancora Benjamin riguardo a Kraus, consiste nel divorare il proprio avversario, è una forma di civile e socializzata antropofagia. La citazione, si potrebbe chiosare, ne costituisce l’atto bulimico essenziale, sulla base di un ideale espressivo – il libro composto interamente di citazioni – che, servendosi di una massa verbale interamente storicizzata, determina la compressione del passato e del presente «su una superficie immaginativa – e linguistica – che tutto mette in questione» (Borelli). A questo proposito dovrà essere nuovamente evocato il significato della distruzione che Benjamin connette alla pratica della citazione, la quale comporta di necessità una violenta scomposizione e disarticolazione verbale che azzera il significato della parola. Distruzione, o dissesto, che attiene all’intellegibilità dei processi storici, come una interruzione che si rende necessaria affinché il presente possa realizzarsi nella novità e originalità dell’evento.

    1. Introduzione

    1.1 Un’utopia plurale

    Parrebbe essere una storia dimenticata, o, ancor meglio, da dimenticare, quella del romanzo sperimentale italiano. Sconfitto nei fatti dal corso successivo della narrativa, che ha recuperato tutti quei caratteri propri della fiction che erano stati faticosamente, e da più prospettive, messi in discussione, esso ha d’altro canto subito una sostanziale rimozione dal canone letterario contemporaneo. Se infatti almeno ai nomi più notevoli (come quelli di Sanguineti, Arbasino, Manganelli, Malerba, Balestrini) non vengono negati riconoscimenti o menzioni, il corpus antinarrativo prodotto intorno agli anni Sessanta è perlopiù lasciato cadere nel dimenticatoio come indigeribile e a ogni modo non riproponibile esperienza marginale, come un generico insieme di testi illeggibili, esercitazioni da laboratorio difettose di quella linfa vitale che sarebbe propria del sistema romanzesco. A dispetto dell’ormai storico auspicio cinico espresso da Edoardo Sanguineti – che lo riprendeva da Cézanne –, di «fare dell’avanguardia un’arte da museo»[1], «non c’è stata – ha scritto Luigi Weber – né museificazione né canonizzazione della nuova avanguardia […]. L’avanguardia ha ricevuto attenzioni in sede di sociologia della letteratura, o di teoria estetica. I testi sono rimasti pressoché ignorati, salvo pochi esempi che passavano di mano in mano, comodi a citarsi»[2]. Una «damnatio memoriae»[3] che molto dice del sistema letterario contemporaneo, che non può che percepire come insidiosa alterità quel modello di prosa del dissesto testimoniato dagli antiromanzi apparsi lungo un decennio (con ovvie anticipazioni e altrettante prosecuzioni). Poiché proprio sul terreno del romanzo si gioca il conflitto maggiore, nell’età moderna, tra le diverse economie del racconto, ovvero sui modi, le strategie, gli strumenti coi quali una determinata cultura descrive se stessa, si rappresenta e quindi si proietta nello scambio sociale e nel mercato delle ideologie. Pertanto, è essenziale al nostro discorso rilevare la specifica «critica dell’economia narrativa»[4] esercitata dal romanzo sperimentale italiano, la sua posizione conflittuale sia rispetto alla tradizione, sia nei confronti della concorrenza contemporanea, secondo una carica primieramente (ma pure non esclusivamente) negativa e distruttrice; e identificare altresì quel paradigma dell’antitesi, che ancora qualche anno fa, rispondendo a un’intervista di Guido Mazzoni, Sanguineti ribadiva come «il momento centrale dell’attività artistica e critica»[5].

    Una volta impostato il discorso da tale prospettiva, non ci si dilungherà più del minimo indispensabile sulla cronistoria del fenomeno del romanzo sperimentale degli anni Sessanta, poiché non si vuole scrivere qui un capitolo di storia letteraria. Tale impresa è stata del resto già ampiamente svolta, e bene, da più di un critico[6], e pare quindi inutile tornare a calcare gli stessi passi. Si tenterà piuttosto di costruire una costellazione critica, attraverso la quale rileggere una serie di romanzi[7] iscritti nella settima decade del Novecento, per registrare e verificare quale contenuto di verità, direbbe Benjamin, siano essi in grado di trasmetterci oggi. Verrà privilegiato un percorso articolato in un continuo rimando tra sollecitazione testuale ed elaborazione teorico-critica, secondo una struttura che all’esposizione per autori o per opere sostituirà una dislocazione per problemi, per tagli trasversali, per snodi decisivi all’identificazione formale dell’antiromanzo. In questo modo credo potranno essere messe in luce certe caratteristiche immanenti alle singole opere trattate in grado di tracciare il profilo di una macro-opera intimamente critica, disforica, oppositiva, ovvero, pienamente d’avanguardia. Mi vorrei così anche confrontare con la koinè postmodernista, alla quale viene spesso associato, e non senza conferme da parte di alcuni dei suoi stessi protagonisti, il romanzo sperimentale; tuttavia cercherò di mostrare come esso si sottragga, per le proprie strategie testuali e per i risultati cui queste approdano, a tale destinazione. Non già quindi di «una storia postmoderna», come l’ha definita Matteo Di Gesù[8], si tratta qui, dal mio punto di vista; bensì di un tentativo collettivo di mettere in crisi la parola narrativa, secondo modi riconducibili al sostanziale spirito di contraddizione dell’avanguardia.

    E proprio sul valore della collettività, vorrei preliminarmente soffermarmi. Uno degli assiomi fondamentali della sensibilità artistica moderna, quello dell’autore-creatore, viene infatti a più riprese demolito dagli scrittori della neoavanguardia. La sua centralità è coscientemente sottoposta a critica nel momento in cui si constata l’avvenuta espropriazione della soggettività, e quindi dell’individualità, nella condizione storico-sociale contemporanea. Il feticcio del creatore monadico è rifiutato consapevolmente in favore di una figura aperta e relazionale di autore[9]. Questa esigenza ha preso forma, com’è noto, nel metodo di lavoro[10] collegiale e seminariale – già proprio della tedesca Gruppe 47 – adottato dal Gruppo 63 a partire dalla fondazione e fino almeno all’ultimo convegno, quello di Fano del 1967, ma che in verità si ritrova anche prima e dopo (perlomeno fino all’esperienza di «Quindici»), in ogni momento e luogo dell’organizzazione culturale. È proprio questo aspetto corollario (ma, vedremo, capitale) dell’attività della neoavanguardia che le ha attirato le accuse di un soggiacente e tutto omologato desiderio di occupazione dei centri del potere intellettuale[11]. Se si accogliesse questa imputazione, tuttavia, non si comprenderebbe l’importanza teorica e pratica del lavoro svolto dalla neoavanguardia nel suo complesso[12], giacché l’obbiettivo strategico primo e più cogente, nell’Italia di quegli anni – da una parte travolta da un boom tanto folgorante quanto fantasmagorico e sfuggente, dall’altra, sul piano artistico, ancora ferma su posizioni neorealiste, in narrativa, di ascendenza ermetica, in poesia, e crociane, nella critica – era proprio «lavorare per l’humus, per la diffusione appunto del dibattito, per la costruzione di una rete di confronti collettivi»[13]. Trovava così un’inaspettata attuazione – con tutte le distinzioni del caso, s’intende – quel progetto di politica culturale che nel 1934 Antonio Gramsci annotava nei suoi Quaderni, per cui all’arte nuova erano essenziali, per prender corpo, la cognizione e la divulgazione di una nuova percezione e consapevolezza della società, della posizione dell’individuo in essa e delle conflittuali condizioni materiali nelle quali l’arte si dibatte:

    Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una nuova cultura e non per una nuova arte (in senso immediato) pare evidente. Forse non si può neanche dire, per essere esatti, che si lotta per un nuovo contenuto dell’arte, perché questo non può essere pensato astrattamente, separato dalla forma. Lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali, ciò che è assurdo, poiché non si possono creare artificiosamente gli artisti. Si deve parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà e quindi mondo intimamente connaturato con gli artisti possibili e con le opere d’arte possibili[14].

    In questo modo anche l’originalità individualistica di stampo romantico viene rovesciata in una particolare socialità immanente all’opera, iscritta nella sua costituzione eterogenea e alienata. La neoavanguardia ha preso coscienza che «nemmeno nella produzione fattuale delle opere d’arte decide la persona privata. Implicitamente l’opera d’arte esige la divisione del lavoro, e l’individuo esercita al suo interno la propria funzione fin dall’inizio secondo questa divisione»[15]. Siamo a un grado di riflessione teorica ulteriore, tuttavia, rispetto al riconoscimento della scomparsa dell’autore, di marca strutturalista. Qui il soggetto si profila come un organismo collettivo[16], appartenente ineludibilmente a un orizzonte ideologico e storico-sociale determinato, che d’altronde maneggia un materiale altrettanto comunitario quale il linguaggio, come ci ha tempo addietro mostrato, tra gli altri, Galvano Della Volpe.

    Possiamo portare due riscontri che avvalorano questo assioma della collettività dell’autore, provenienti da due scrittori e teorici a prima vista molto distanti, e che anzi potrebbero rappresentare due corni opposti della neoavanguardia: Manganelli e Sanguineti. Il primo, riflettendo a proposito della poesia siciliana delle origini, già in età giovanile rivalutava la convenzione in quanto tratto sociale della lingua letteraria, fondo comune di maniere espressive «destinato a esprimere la compatta kultur della classe»[17]: «Una convenzione culturale è un atteggiamento di tutta una società civile, un suo modo di stare, di collocarsi tra le immagini della storia»[18]. Ma d’altro canto, a evidente e ad ancor più essenziale conferma, sta tutto il suo sistema mitopoietico fondato sulla retorica: anonimo insieme di istituzioni, per dirla con Anceschi, di meccanismi formali ereditati e rimessi in gioco dall’edificio letterario. L’opera è una composizione artificiale, un’espressione della tecnica: «Un oggetto, uno spazio mentale disegnato da una struttura verbale, non un privilegio per colui che vi attende, ma un duro e umiliato compito, una testimonianza anonima»[19]. Sanguineti invece, come si sa, pone a fondamento della propria teoria letteraria, e quindi della pratica di scrittore, il collegamento dialettico tra linguaggio e ideologia, la coscienza che ogni espressione linguistica trovi la sua ragione e il suo sbocco in una riconoscibile posizione ideologica. L’avanguardia porterebbe alla luce, senza mistificazioni, questo stato di cose, riconoscendo apertamente la propria posizione all’interno del mercificato mondo borghese. Lontano da un semplice determinismo[20], tuttavia, che ricondurrebbe, senza mediazioni né incongruenze, una tale opera a un tale strato sociale, le prove indiziarie vanno cercate nell’ordine formale, per verificare come ogni singolo autore venga irrimediabilmente trasceso da una particolare classe sociale, che sta virtualmente sul frontespizio dell’opera, e da un orientamento immanente alla scrittura stessa, la quale si trova sempre a prendere parte, consapevolmente o no, ai conflitti della realtà[21]. A parlare nel testo, quindi, è una voce ben più ampia di quella di un individuo: l’angolazione prospettica di un’espressione artistica è sempre iscritta o iscrivibile – con tutte le possibili diffrazioni e irriducibili ambiguità – nel punto di vista di una classe.

    La prospettiva che vorrei adottare terrà quindi conto di questa implicita pluralità della figura dell’autore, considerando i singoli romanzi non tanto come capolavori[22] esemplari della nostra narrativa sperimentale, quanto come reperti in relazione reciproca, voci di un noi coeso seppure nient’affatto unisono[23]. Questo primo movimento di associazione, di progettazione comune di un nuovo modo di narrare il mondo (squalificandone le rappresentazioni consuete), andrà infatti sempre corretto con il rilievo delle specificità, delle varianti proprie di ogni testo, giusto per non replicare la lettura minimizzante del nostro oggetto di studio, la quale tutto racchiude in un’unica vulgata, riconducendo pedissequamente i risultati testuali alle dichiarazioni di poetica, senza prestare la dovuta attenzione alle diverse declinazioni esistenti. Il nostro corpus andrà così accostato alla nube di particelle proiettate da un’esplosione, secondo il modello di sviluppo dell’imprevedibilità enunciato da Lotman:

    Lo spazio esplosivo sorge come un fascio di imprevedibilità. Le particelle da esso espulse inizialmente si muovono secondo traiettorie talmente vicine che possono essere descritte come percorsi sinonimici di uno stesso oggetto. Nel campo della creazione artistica esse sono riconosciute ancora come uno stesso fenomeno, tinto solamente di varianti non significative. Ma in seguito, muovendosi su differenti traiettorie, si disperdono sempre più lontano l’una dall’altra e le varianti di uno stesso oggetto si trasformano in complessi di oggetti differenti[24].

    Oltre all’importanza del lavoro plurale di organizzazione e progettazione il brano citato di Gramsci rilevava con molta chiarezza un altro aspetto essenziale dell’orizzonte avanguardista (e non solo, ovviamente, di quello legato alla narrativa): il valore vincolante e produttivo dell’utopia. Un’utopia certo molto concreta, ancorata alle possibilità verificabili nella storicità dell’espressione. Una «utopie du langage»[25] esperibile nel rinnovamento linguistico. L’aspirazione a modificare lo stato delle cose si affida quindi alla trasmissione di valori alternativi impressi in una forma che si appoggia a nuove possibilità tecniche di restituzione del reale. È mestieri che tale tensione sfoci in una ricerca inedita, dai risultati imprevisti e ostici al pubblico borghese (il quale, diceva Karl Kraus, «non tollera in casa sua niente di incomprensibile»[26]), sì percorribili, ma non senza una certa quota di fatica intellettuale. Qui ha luogo quel momento eroico-patetico dell’avanguardia di cui parlava Sanguineti, la fase agonistica del suo sviluppo, ovvero «l’aspirazione […] a un prodotto artistico incontaminato, che possa sfuggire al giuoco immediato della domanda e dell’offerta, che sia insomma commercialmente impraticabile»[27]. Un’attitudine, questa, molto rischiosa, al di là del tutto sommato rassicurante luogo comune dell’incomprensibilità dell’avanguardia, giacché lo spirito utopico è obbligato ad avvolgersi, riprendendo termini di Adorno, come su un «crittogramma» raffigurante «l’immagine del tramonto»: una figura negativa e balenante, che nella sua posizione critica di novità porta alla massima tensione i mezzi espressivi, sporgendosi sul baratro della propria stessa possibilità di sopravvivenza come opera; essa dev’essere capace di supportare la «inconciliabile rinuncia all’apparenza della conciliazione», condividendo le sorti della propria epoca, nella quale «la possibilità reale dell’utopia», di esistere come opposizione e di costituire una nuova realtà (artistica e storico-sociale), «a un estremo si unisce con la possibilità della catastrofe totale»[28], del fallimento per consunzione, della resa soccombente di fronte alla conservazione.

    Ma questa pulsione ha inevitabilmente uno sbocco o meglio un rovescio tutto politico e pragmatico[29] nella necessaria e implicita, forse anche disperata ricerca di un pubblico nuovo[30], di un contatto che superi e ribalti la sfida in complicità; ci si rivolgerà quindi non al pubblico già formato e acquisito, ma a una incerta platea di non nati, come amava dire Manganelli[31], disposta ad ascoltare quell’«accordo ancora mai ascoltato, inviolato» e che pure «tutto si trova già nella tastiera»[32], che è cioè frutto di una ricombinazione di elementi disponibili nella langue, non creatura di un’ispirazione insondabile e non rintracciabile nei suoi fondamenti.

    L’opera d’arte nuova[33] affronta consapevolmente il contesto da cui sorge, ponendosi implicitamente in conflitto, secondo una «genesi antagonistica»[34], con il resto dell’offerta estetica; essa «interpella i lettori per essere riconosciuta» e «immediatamente esige […] un consenso che la aiuti a prevalere sui suoi antagonisti»[35]. Il suo sguardo tende, «annientando tendenzialmente tutto quello che nel loro tempo non raggiunge il loro standard»[36], a pietrificare e a invalidare le opere attardate su mezzi espressivi inadeguati non solo a rappresentare lo stato presente, ma soprattutto, più profondamente e dialetticamente, a fornirne un’immagine critica. Con ciò ammettendo il proprio invecchiamento, la probabile caducità[37] della propria proposta, non tanto intesa in senso cronologico, ma sostanziale, non potendo l’opera d’avanguardia accettare l’irenica adattabilità e l’ecumenica convivenza del classico. Essa rappresenta infatti un’alternativa, un corpo linguistico contratto e inospitale, cicatricoso e autocritico che presenta e richiede un continuo contrasto.

    Queste considerazioni portano a vedere come quella agonistica, di rincorsa del nuovo, non sia la sola idea immaginabile e praticabile di avanguardia, e non sia almeno l’idea di avanguardia che più importa ora, per il nostro discorso. (Balestrini e Giuliani, del resto, introducendo l’Antologia del Gruppo 63 scrivono: «Il nuovo a cui aspira l’avanguardia non è la novità di stagione»[38]). Assai più utile mi sembra adottare una caratterizzazione antagonista[39] dell’avanguardia, riconoscibile nelle strutture e nelle tecniche della scrittura, nelle caratteristiche del corpo letterario, in aperta controtendenza rispetto ai modi dominanti di costruzione del testo. Questo spostamento di paradigma mette in rilievo il gradiente critico dell’opera, l’intrinseca capacità di deludere aspettative, rovesciare certezze, invalidare elementi percettivi supposti come naturali (lingua compresa[40]), demitizzare il panorama illusionistico della realtà. L’opera d’avanguardia viene assunta così per il proprio manifestarsi come una «alternativa letteraria»[41], secondo la formula proposta da Francesco Muzzioli, sempre attiva al proprio interno grazie al combustibile critico depositato nella qualità letteraria, garante e imprescindibile misura, come stabilito in modo definitivo, per noi, da Benjamin[42], della tendenza politica dell’opera.

    Se stringiamo il discorso intorno al nostro campo d’indagine, la narrativa d’avanguardia, notiamo anzitutto che essa sovverte il mandato principale del modo romanzesco: l’offerta di una «storia di avvenimenti che si svolgono secondo una sequenza cronologica»[43] illusionistica e credibile, capace di dare piacere al lettore. Naturalmente il romanzo è un genere, come è stato più volte e assai autorevolmente notato[44], per sua essenza camaleontico, non descrivibile una volta per tutte, imprevedibile e inconcluso. Il romanzo d’avanguardia si distingue tuttavia per incarnare una deviazione eterodossa della diegesi, una forma narrativa che manca radicalmente di godibilità, che delude, che, per replicare parole celebri di Barthes, «sconforta (forse fino a un certo stato di noia)»[45], infrangendo così il tabù del piacere, dell’appagamento conciliante. A essa pertiene la diagnosi di Adorno per cui «l’arte è la promessa di felicità che non viene mantenuta»[46], e ne è tra le esemplificazioni più lampanti nel sistema letterario nostrano degli ultimi decenni.

    1.2 La critica della forma

    È tempo ora di compiere un ragionamento di carattere generale intorno alla narrativa sperimentale, vale a dire intorno alle sue qualità antirealistiche e allegoriche, cercando di evidenziare il senso produttivo del suo lavoro, le ragioni di fondo della sua composizione, la sua capacità di agire sull’immaginario comune e sui modi naturali di raccontare l’esperienza in modo critico e demitizzante. Il profilo teorico che ne risulterà vorrebbe al contempo essere anche una giustificazione storica delle prose del dissesto.

    Mi piace porre a ideale esergo del mio discorso un brano manganelliano, che mi pare raccolga, nella sua densità, tutti i principali elementi distintivi del romanzo d’avanguardia (un brano sollecitato del resto dalla celebre e direi archetipica polemica, per il nostro argomento, tra lo scrittore milanese e Moravia). Tuttavia non commenterò ora puntualmente questo passo, fidando di assolvere a questo compito nel corso di tutta la mia indagine, tra resoconti critici e rilievi testuali. Lo trascrivo, dunque, come traccia e specola della mia esposizione:

    D’altro canto, esistono scrittori che non coltivano una programmatica affidabilità; non lusingano il lettore, anzi non senza protervia aspirano a inventarselo da sé: provocarlo, irretirlo, sfuggirgli; ma insieme costringerlo ad avvertire, o a sospettare, che in quelle pagine oscure, velleitarie, acerbe, in quei libri faticosi, sbagliati, si nasconde una esperienza intellettuale inedita, il trauma notturno e immedicabile di una nascita. Il loro lavoro letterario si concentra su di una tematica linguistica e strutturale; domina la coscienza dell’atto artificiale, anche innaturale della letteratura; e si celebra la fastosa libertà, l’oltraggiosa anarchia dell’invenzione di inedite strutture linguistiche. Discontinue schegge di retorica, coaguli linguistici inadoperabili per compiti di socievole sopravvivenza, infine, carattere supremamente distintivo, una lingua letteraria improbabile, fitta di citazioni, anche maniacale: una lingua morta. Non è letteratura affettuosa, non accarezza i cani, in genere non svolge compiti missionari.[47]

    A fondamento dell’esplosione linguistico-strutturale testimoniata dal romanzo sperimentale sta il rifiuto radicale, e declinato su più piani, come si avrà agio di vedere, del «rapporto mimetico col mondo»[48]. Preso atto della contraddittorietà del reale, dell’incipiente sovraccarico di immagini, dell’esaurimento della validità dei miti tradizionali, della crisi del linguaggio, il romanzo cerca altre vie di sviluppo, che deraglino dalla rappresentazione naturalistica, e che invalidino il rapporto naturale tra l’uomo e la percezione e il racconto di sé, in una tensione continua allo straniamento. Non ci si può più fidare della risoluzione garantita da un riflesso piano del linguaggio, giacché il materiale da esprimere è troppo intricato e inquinato per venire restituito con efficacia da una tecnica rispecchiante, tesa a cogliere i paradigmi e i modelli esistenziali a noi noti, consueti, ma proprio per questo svalorizzati, muti nella loro immediatezza esperienziale. «Occorre perciò – ha scritto Muzzioli –, non una spaccatura qualsiasi, ma una apposita deformazione dell’immagine che apra tra lo specchio e il reale una distanza critica»[49]. Si creano così i presupposti di una resa antirealistica della realtà, oppure di una particolare accezione di realismo, critico e allegorico[50], volto all’autosabotaggio e a minare coscientemente i propri capisaldi: dimensioni spazio-temporali, personaggi, coerenza della vicenda, credibilità del narrato. Potremmo anche adottare la dizione proposta da Federico Bertoni, di realismo di tipo cognitivo, il cui «campo di riferimento non è […] la riproduzione della realtà immediata ma la metamorfosi delle apparenze, la traduzione in simboli, la rivelazione delle forze e dei significati sottostanti»[51]; se non fosse, tuttavia, fin troppo ottimistico pensare che il romanzo d’avanguardia tenda necessariamente a costruire un progetto gnoseologico a uso del lettore. Gli è piuttosto propria una tendenza incessantemente decostruttiva delle sicurezze catalogatrici della realtà, in funzione di una iterata immersione nella dissonanza, nel disagio, nelle disiecta membra della fenomenologia dell’esistente. Le opere d’avanguardia come i nostri romanzi «aprono gli occhi»[52] di fronte al paesaggio alienato della realtà, e (ac)cogliendone le contraddizioni possono essere definite realistiche solo secondo una nuova intonazione critica: di irriducibile «opposizione alla realtà empirica come tale»[53], come in un corpo a corpo da cui l’opera esce tumefatta, stravolta nella propria facies. In questo

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