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La vittima sbagliata
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La vittima sbagliata
E-book518 pagine7 ore

La vittima sbagliata

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Info su questo ebook

Dall'autrice del bestseller Resti perfetti

Un grande thriller

Una lunga scia di sangue svelerà il più terribile dei segreti

Una scia di sangue serpeggia tra le strade di Edimburgo.
Nel bel mezzo di un festival rock, un volontario è stato accoltellato allo stomaco ed è morto dopo pochi minuti. Nella confusione, nessuno ha visto l’assassino, nessuno è stato in grado di tracciare un identikit. La settimana seguente il corpo di una maestra elementare è stato ritrovato in un cassonetto: la donna era stata strangolata con la sua sciarpa di lana. La polizia brancola nel buio. I detective Ava Turner e Luc Callanach non hanno indizi per collegare i crimini, né prove sufficienti a formulare le prime ipotesi, fino al momento in cui sui muri della città appaiono graffiti che fanno esplicito riferimento alle vittime degli omicidi. È il gesto sbruffone di un mitomane o è la firma del killer? Quando scoprono che i murales sono stati preparati prima degli omicidi e non dopo, per Ava e Luc ha inizio una corsa contro il tempo che si rivelerà molto più pericolosa di quanto avrebbero potuto immaginare. Perché l’assassino è pronto a colpire ancora…

Una serie da mezzo milione di copie
Tradotta in 10 Paesi

«Un thriller pieno di colpi di scena. La storia cattura man mano che la trama si infittisce.»
Woman’s Way

«Helen Fields ha un vero talento nel creare atmosfere cupe e vivide nella fantasia del lettore. I colpi di scena sono efficaci e i personaggi magistralmente costruiti. L’esordio con Resti perfetti è stato straordinario, ma La vittima sbagliata potrebbe addirittura superarlo.» 
Scotland Correspondent

«Uno dei thriller psicologici più inquietanti che abbia mai letto.»
Paul Finch
Helen Fields
Ha studiato legge all’Università di East Anglia e alla Inns of Court School of Law di Londra. Dopo aver lavorato per anni in tribunale, specializzandosi in Diritto penale e di famiglia, ha deciso di fondare insieme al marito una casa di produzione cinematografica, nella quale lavora anche come sceneggiatrice. Vive a Los Angeles con la famiglia. La Newton Compton ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, Resti perfetti, e La vittima sbagliata.
LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2020
ISBN9788822743909
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    Anteprima del libro

    La vittima sbagliata - Helen Fields

    Parte prima

    Capitolo uno

    C’erano posti peggiori in cui morire, ma ben pochi modi più terrificanti. Lo scenario era estivo, idilliaco, con il paesaggio cittadino da un lato e il profilo dell’antico vulcano Arthur’s Seat in lontananza. La musica si percepiva ancor prima di sentirla, il basso pulsava nella carne e nelle ossa. A inizio luglio il sole cala tardi su Edimburgo e il cielo era inondato da sfumature di rosa, oro e arancione acceso. Forse era per questo che nessuno l’aveva notato, quand’era successo. Oppure la colpa era del cocktail di alcol, droghe ed euforia naturale. Il festival era in pieno svolgimento: tre giorni di baldoria, feste, sesso, cibo e drink, una band dopo l’altra, mentre i corpi erano sempre più a loro agio con meno vestiti addosso e un’igiene minima. Se qualcuno avesse dovuto rappresentare in un’istantanea il senso di estasi, quella scena sarebbe andata benissimo: la folla che saltava all’unisono, come se tutte quelle persone si fossero fuse in un’unica bestia incantata con migliaia di teste sorridenti.

    Al centro di tutto, il killer si era spostato come una voluta di fumo, sinuoso, silenzioso, snudando la lama come una piuma nel vento. Il taglio era netto, preciso e profondo. La quantità di sangue versato era evidente sul terreno, la ferita troppo grave per essere arginata con le mani. Non che ci fosse stato il tempo di caricare la vittima su un’ambulanza. Non che qualcuno avesse notato la ferita prima del dissanguamento quasi totale.

    L’ispettore Luc Callanach si trovava nel punto esatto in cui il giovane aveva esalato il suo ultimo respiro. La sua identità era ancora ignota. La polizia era riuscita a mettere insieme decisamente poco nell’ora trascorsa dalla sua morte. Era incredibile, pensò Callanach, che in una folla di migliaia di persone non fossero riusciti a trovare uno straccio di testimone attendibile.

    Il giovane aveva semplicemente smesso di saltare, si era accasciato piano, sbattendo a destra e a sinistra, avanti e indietro sugli altri partecipanti al festival, e alla fine era stramazzato a terra, afferrandosi la pancia. Alcuni si erano mostrati infastiditi per la seccatura: all’inizio avevano dato per scontato che fosse ubriaco, poi che avesse preso qualche droga. Solo quando un’adolescente a piedi scalzi era scivolata nella pozza di sangue era scattato l’allarme e in tutto il casino della musica ci era voluta un’eternità per far circolare la voce. Alla fine le urla avevano fagocitato il frastuono degli strumenti e il poveretto era stato girato sulla schiena, mentre le interiora rovesciate a terra lo seguivano come una sorta di animaletto alieno, brillando alla luce riflessa del sole, con tutto quel sangue rosso acceso.

    La polizia non era molto lontana. L’evento aveva attirato un pubblico enorme ed era stata presa ogni precauzione, o così si credeva. Gli agenti, seguiti dai paramedici, si erano fatti largo tra la folla per sgomberare l’area e preservare la scena del crimine, ma ne era venuto fuori un disastro logistico. Callanach alzò lo sguardo al cielo e sospirò. La scena era più contaminata e calpestata dei bagni di un locale la sera di Capodanno. In giro c’era abbastanza

    DNA

    da popolare un pianeta inesplorato. Era la versione forense di un giro gratis per tutti.

    Il cadavere era già diretto all’obitorio. Le foto che lo ritraevano sulla scena del crimine erano state già scattate, per quanto potessero servire. Era stato spostato un’infinità di volte, da chi aveva cercato di soccorrerlo, dalla gente in preda al panico, dalla polizia e dal personale medico, prima di essere lasciato finalmente in pace su un letto di erba calpestata e terriccio smosso. L’anatomopatologa, la dottoressa Ailsa Lambert, era rimasta stranamente in silenzio, aprendo bocca solo per invitare a trattare il corpo con cura e rispetto e a spostarlo in fretta in un luogo privo di fotocamere invadenti o lamenti isterici. Callanach era sopraggiunto per preservare la scena – concetto quantomai ironico – prima di seguire Ailsa in ufficio.

    Dalla breve occhiata che Callanach era riuscito a dargli, il viso della vittima diceva tutto: occhi chiusi con forza, come se cercasse di svegliarsi da un incubo, e bocca aperta a metà tra un sussulto e un urlo. Aveva forse gridato un nome? Conosceva il suo aggressore? Non aveva documenti con sé, solo qualche moneta nei pantaloni, e nemmeno un orologio al polso. Intorno al collo portava una chiave attaccata a una cordicella. Per quanto rapida fosse sopraggiunta la morte, il terrore di sapere che stava per svanire, di sentire la speranza che lo abbandonava, mentre la gente intorno a lui continuava a saltare e a cantare, doveva essergli parso il più crudele degli scherzi. E, al momento fatidico, sentire solo le urla e vedere il panico e l’orrore nel mare di occhi sopra di lui. Callanach si domandò come dovesse essere stato morire da solo sulla nuda terra, in una giornata di sole così bella. L’ultima sensazione della vittima doveva essere stata un terrore sconfinato.

    L’ispettore studiò il palco a cupola, stipato di attrezzature per il suono e le luci, e pregò che almeno una delle telecamere montate lì avesse catturato un frammento di una qualche utilità. Qualcuno che si affrettava, che si allontanava, che si muoveva in una direzione diversa rispetto al resto della folla. Il parco The Meadows, una zona di verde e campi da gioco a sud del centro cittadino, di solito era molto piacevole e pacifico. Le madri ci accompagnavano i bambini, c’era chi portava a spasso il cane e chi faceva jogging. Le note di Summer is A-Coming In risuonarono nella mente di Callanach, memore di una proiezione della versione originale di The Wicker Man cui l’aveva trascinato qualche mese prima la detective Ava Turner. Era rimasto molto colpito dalla recitazione di Edward Woodward e l’immagine degli uomini e delle donne che indossavano maschere da animali mentre si preparavano a compiere un sacrificio umano aveva continuato ad accompagnarlo anche dopo che il proiettore era stato spento. Non era poi così diversa dal circo al centro del quale era spirato quel povero ragazzo.

    «Signore, abbiamo identificato le persone alle spalle della vittima. Se vuole può parlarci subito», gli riferì un agente. Callanach lo seguì fino al margine del campo, mentre il team della Scientifica costruiva un riparo temporaneo in grado di custodire la scena del crimine per la notte. Appoggiata a un albero c’era una coppia, stretta in una coperta. Entrambi avevano la faccia rigata di lacrime e la donna tremava visibilmente, mentre il compagno la confortava.

    «Merel e Niek De Vries», li presentò l’agente leggendo sul proprio taccuino. «Una coppia olandese in vacanza. Sono arrivati in Scozia dieci giorni fa».

    Callanach annuì e fece un passo avanti per avere un po’ di privacy.

    «Sono l’ispettore Callanach della polizia scozzese», disse. «So che siete sotto shock e mi dispiace molto per ciò cui avete dovuto assistere. Sono certo che abbiate già raccontato quanto avete visto più di una volta, ormai, ma ve lo chiederanno ancora altrettante. Potreste riferirmi tutto dal principio, se non vi dispiace?».

    L’uomo disse qualcosa alla moglie che Callanach non riuscì a capire, ma lei alzò lo sguardo e trasse un respiro profondo.

    «Mia moglie non parla molto bene inglese», spiegò Niek De Vries, «ma ha visto più di me, perciò farò da interprete».

    Merel pronunciò qualche frase tremante, inframezzata da singhiozzi, prima che Niek riprendesse la parola.

    «L’ha notato solo quando la ragazza ha gridato. Poi si è chinata per scuoterlo, per dirgli di alzarsi. Era in ginocchio, piegato in avanti. Pensavamo che fosse ubriaco, che stesse male. Quando Merel si è rialzata ha visto che la sua mano era coperta di sangue. E anche in quel momento, dice, ha pensato che forse aveva vomitato e si era lacerato qualcosa. Solo quando tutti hanno fatto un passo indietro e l’abbiamo fatto sdraiare, abbiamo notato la ferita. Era come se fosse stato tagliato a metà». Niek si coprì gli occhi con una mano.

    «Prima che cadesse avete visto qualcosa di insolito? Qualcuno che lo toccava o lo superava con uno spintone? Qualcuno che sembrava avere fretta di andarsene via? Riuscireste a descrivere in dettaglio le persone che vi erano vicino?», domandò Callanach.

    «Tutti continuavano a muoversi», rispose Niek, «e stavamo guardando il palco, la band, no? Non conosciamo nessuno qui, perciò non ci guardavamo molto intorno. La gente non faceva che saltare su e giù, urlare e andare da una parte all’altra, tra il bar e i bagni. Stavamo solo cercando di non perderci di vista. Non mi ero nemmeno accorto dell’uomo davanti a noi, finché non è caduto».

    «Ha detto niente?», chiese Callanach.

    Niek ripeté la domanda a Merel.

    «Pensa che fosse già privo di conoscenza o morto, quando gli ha rivolto la parola la prima volta. E comunque c’era troppo casino, non l’avrebbe sentito».

    «Capisco», commentò Callanach. «Alcuni agenti vi accompagneranno alla centrale per rilasciare una dichiarazione scritta completa e poi vi riporteranno ai vostri alloggi».

    «Non è inglese?», balbettò Merel, rivolgendosi per la prima volta direttamente a Callanach.

    «Sono francese», rispose lui. «Be’, metà francese e metà scozzese. Chiedo scusa se il mio accento è difficile da comprendere».

    «Le garçon était trop jeune pour mourir». Il ragazzo era troppo giovane per morire, gli disse lei in francese, anche se Callanach ebbe l’impressione di averlo sentito in inglese, talmente rapida fu la traduzione.

    Merel De Vries ricordò anche un’altra cosa. Mentre si chinava per soccorrere la vittima, aveva sentito una donna ridere in mezzo alla folla, così forte da sovrastare persino il suono della musica. Ciò che colpì Callanach fu la strana descrizione che ne fece Merel: non si trattava di una risata allegra, secondo lei aveva un non so che di maligno.

    Capitolo due

    «La ferita è stata inferta da un’unica arma, assemblata però senza alcun dubbio da una mano esperta», commentò Ailsa Lambert. «Devono aver unito due lame di bisturi separate da uno spaziatore, a creare una fessura di quattro millimetri. Una combinazione del genere rende la ferita impossibile da chiudere o suturare, anche se si fosse trovato in ospedale quando è avvenuta l’aggressione. Le incisioni gemelle sono…», fece una pausa per raccogliere un righello flessibile, «lunghe ventotto centimetri. Si sono parecchio lacerate, originando una ferita aperta che ha provocato un trauma esteso. I suoi organi poi si sono spostati e sono scivolati verso il basso e in fuori, al punto che gran parte di quanto avrebbe dovuto trovarsi nella cavità addominale si è riversata all’esterno, quando il ragazzo è caduto ed è rotolato a terra. Qualche organo presenta persino evidenti impronte di scarpe, di chi camminava lì intorno. L’emorragia ha provocato un arresto cardiaco».

    «Ho capito», disse Callanach fiaccamente. «La causa del decesso è piuttosto chiara. C’è altro che dovrei sapere?»

    «Ci vorrà un po’ per l’esame tossicologico. Non presenta altre ferite evidenti, a un esame superficiale pare godesse di buone condizioni di salute e i suoi polmoni mi dicono che non fumava. Bravo ragazzo». Diede una pacca sulla mano del cadavere con la sua, guantata, e fece un sorriso tetro. «Quest’arma, però, non è stata studiata per autodifesa, Luc. E non è nemmeno qualcosa che puoi trovare al centro commerciale. Qualcuno l’ha assemblata e la riverisce. Il taglio è profondo e regolare, eppure pare sia servita poca forza per infliggere un tale danno alla cavità addominale. Chiunque sia stato ne va orgoglioso, ha riflettuto sul suo rendimento e ne ha compreso la meccanica. Non si è trattato di un accoltellamento improvvisato o di un’arma impugnata nella frenesia di una discussione accesa».

    «Assassinio, quindi?», domandò Callanach, piegandosi sopra il corpo e facendo il punto.

    «Sembra più un rituale, se vuoi la mia opinione», disse lei. «Qualcosa di pianificato, di studiato e perfezionato con la pratica».

    «Quanti anni ha?»

    «Tra i diciotto e i ventidue, credo. Sul metro e ottanta circa. Fisico snello, niente grasso in eccesso, buona muscolatura ma non da maniaco della palestra. Portava il quarantatré di piede. Capelli castani, occhi nocciola. Non ci sono ferite da difesa, non se ne è neppure accorto».

    «Quindi non ha riconosciuto l’aggressore come una minaccia, quando è stato attaccato?»

    «Ne dubito. Non hai una bella cera, Luc. Dormi?», gli chiese Ailsa, mentre si toglieva i guanti e prendeva appunti.

    «Come un bambino», mentì.

    «Mangi abbastanza? Sei pallido e hai gli occhi iniettati di sangue».

    «Domani ti chiamo per i risultati dell’analisi tossicologica», disse, glissando sul commento di lei. «Se saltasse fuori qualcosa nel frattempo, hai il mio numero».

    «Salutami la detective Turner. Sono secoli che non la vedo. Incrociavo spesso sua madre in un gruppo di fan dell’opera, ma ultimamente non vedo nemmeno lei», disse Ailsa, stiracchiandosi. Sui sessantacinque, fisico minuto ed esile, era una forza della natura da non sottovalutare.

    «Riferirò», disse lui, togliendosi il camice e depositandolo in un cestino fuori dalla porta.

    Una volta tornato alla centrale, trovò un tetro comitato di benvenuto seduto nella sala operativa. Callanach si girò verso l’agente investigativo Tripp.

    «Sto seguendo la pista di una chiamata, signore», disse l’uomo. «Una giovane donna ha telefonato dicendo che lei e il suo ragazzo si sono divisi al festival e lui non si è ancora fatto vivo. Ho mandato un’auto a prenderla».

    «Ha lasciato un nome?», domandò Callanach, gustandosi un caffè mentre sedeva davanti al computer.

    «Sim Thorburn», rispose Tripp, premendo un paio di tasti e aspettando che sullo schermo comparisse una fotografia, come sempre un passo avanti. Nel giro di qualche secondo si aprì la pagina di un social network pieno di foto di buona qualità. In ognuna il ragazzo sorrideva o rideva, con espressione spensierata e serena. Nell’ultima si teneva per mano con una ragazza. Era senza dubbio la stessa mano che Ailsa Lambert aveva toccato poco tempo prima.

    «È lui», disse Callanach. «Cosa sappiamo, quindi?»

    «Al momento tutto quello che c’è sulla sua home. Non ha messo filtri per la privacy, perciò chiunque può vederlo. Ha ventun anni, è scozzese e vive a Edimburgo».

    «Precedenti?»

    «Se ne aveva, non siamo riusciti a trovarli». Squillò il telefono alle spalle di Tripp e qualcuno gli passò un biglietto. «È arrivata la ragazza, signore. E l’ispettore capo Begbie chiede di lei, non appena avrà finito».

    «Ma certo che chiede di me», rispose Callanach, alzandosi in piedi. «Tripp, hai idea di dove sia la detective Turner? Ailsa Lambert chiedeva di lei».

    «Non è in servizio», gridò la detective Salter dal corridoio. «Ha detto che probabilmente farà tardi anche domani. Vuole che le lasci un messaggio, signore?»

    «No, grazie, Salter», le gridò di rimando Callanach. «Non è nulla che non possa aspettare». A differenza della ragazza di Sim Thorburn, che senza dubbio stava già sospettando il peggio ed era al piano di sotto sperando in un miracolo. Che ci fosse stato un qualche malinteso, augurandosi forse che il suo ragazzo – a dispetto di ogni logica – si fosse imbattuto in un gruppo di amici e se ne fosse andato via senza avvisarla. Nella sua testa dovevano girare almeno mille scuse diverse per giustificare la sua sparizione. Perlomeno finché non mi ha visto, pensò Callanach. La gente capiva tutto non appena ti guardava in faccia.

    «Condoglianze», le disse. Le presentazioni erano inutili. Nel giro di pochi secondi non si sarebbe comunque ricordata il suo nome.

    «Non potete essere già certi che sia lui», sussurrò. «Non mi avete ancora chiesto nulla».

    «Su un sito Internet abbiamo trovato svariate foto di voi due insieme». Gliene porse una che Tripp aveva stampato in precedenza. «È Sim?».

    Singhiozzò e fece un passo indietro, allontanandosi dalla foto come se la carta fosse un’arma. «L’ha visto?», gli chiese. Callanach spostò una sedia e lei vi si accomodò.

    «Sì. Sono certo che sia lui».

    «Cosa… come…?». Non riuscì a chiedere altro.

    «È stato accoltellato e la ferita si è rivelata fatale. Dev’essere stata una morte rapida. L’ambulanza non ha fatto in tempo a raggiungerlo».

    «Accoltellato? Pensavo gli fosse esplosa l’appendice o che ci fosse un coagulo di sangue o… un accoltellamento? Non può essere lui. Nessuno farebbe una cosa del genere a Sim».

    «Che lei sappia, si era cacciato in qualche guaio? Magari qualcosa di banale come un litigio in famiglia, problemi di soldi, qualcuno che voleva regolare un vecchio conto in sospeso?»

    «Non dica stupidaggini!», sbottò la ragazza. Era una reazione comprensibile, considerato quello che stava passando. Quello che lei non capiva, però, era quanto in fretta si sarebbe raffreddata la pista a ogni minuto che passava. «Faceva beneficenza, guadagnava il minimo sindacale e dedicava comunque ogni momento libero a fare volontariato».

    «Può dirmi altro a questo riguardo?», domandò Callanach.

    «Lavorava in centri d’accoglienza per senzatetto, andava alle mense dei poveri in città e organizzava raccolte fondi. Sim era la persona più gentile e onesta del mondo. Spendeva fino all’ultimo centesimo, era l’unica cosa su cui discutevamo».

    «Non ha notato niente di strano ieri? Qualcuno che lo seguiva?».

    La ragazza scrollò la testa, sopraffatta dallo shock. Callanach capì a quel punto che non le avrebbe cavato altro di bocca. La consegnò a Tripp per il riconoscimento formale del corpo e la compilazione dei dettagli familiari. A Callanach serviva una pista e in fretta. Da qualche parte, l’uomo o la donna che aveva massacrato Sim Thorburn aveva senza dubbio nascosto l’arma ed eliminato qualsivoglia prova forense incriminatoria.

    «Salter», gridò Callanach in direzione della sala operativa. «Scopri chi sta controllando i filmati del concerto, li voglio entro la notte. E cerca di togliermi il fiato del capo dal collo per un po’, okay? Ho del lavoro da fare».

    «Anche io, ispettore», commentò il capo Begbie, comparendo sulla soglia. Negli ultimi tempi sembrava lievitare da un incontro all’altro. Non era salutare ingrassare tanto in fretta. Non era esattamente magro nemmeno quando Callanach aveva iniziato a lavorare lì, ma ora si stava affrettando a grandi passi verso una morte prematura, senza ragione apparente. «Qualcosa non va, Callanach?», gli domandò Begbie.

    Si rese conto di essere rimasto a fissare i bottoni sofferenti della sua camicia. «No, signore, mi ero solo distratto».

    «Detto in tutta franchezza non è molto rassicurante. Che piste abbiamo?». Callanach cercò un modo per esprimere la natura del tutto negativa di quel caso, ma fece alquanto fatica. «Siamo messi così male, eh? Be’, qualcuno dovrà pur aver visto qualcosa. Migliaia di potenziali testimoni e non riusciamo a cavare un ragno dal buco. Tipico. Organizzate una conferenza stampa, tanto vale farlo subito. Non possiamo permetterci di avere gente terrorizzata per le strade. Ci sarà una spiegazione razionale, perché nessuno si avvicina a un completo estraneo per accoltellarlo. Trova delle risposte, Callanach. Voglio avere qualcuno in custodia nell’arco delle prossime quarantott’ore».

    «Capo…».

    «Ricevuto, non ti piacciono le conferenze stampa. Ho preso nota». Begbie se ne andò via sbuffando. Callanach prese in considerazione l’idea di seguirlo e chiedergli se stesse bene, poi si rese conto che probabilmente quella mossa avrebbe posto fine alla sua carriera e tornò in sala operativa. Stava morendo di fame, ma l’idea di una cena a base di fish & chips mangiata direttamente dall’involucro di giornale gli fece venire la nausea. Non credeva che sarebbe riuscito a rincasare prima di dodici ore e il cibo più sano in centrale erano probabilmente pacchetti di cracker scaduti abbandonati sul fondo di un armadietto. Callanach stava riorganizzando le idee in previsione di un briefing quando qualcuno gli ficcò in mano una borsa della spesa.

    «Smettila di fissare quello che mangiano gli altri come se fosse veleno. Fa passare l’appetito. Non fai proprio nulla per cancellare la tua reputazione di snob francese», disse Ava Turner, infilandogli una forchetta nella mano libera. «Insalata di gamberetti. Non è fatta in casa, perciò ti sei risparmiato i miei patetici tentativi di cucinare».

    «Pensavo non fossi in servizio e che non saresti tornata fino a domani sul tardi. Ti hanno forse spedita al catering?»

    «Puoi sempre ridarmela», disse lei, mentre controllava il telefono e si accigliava.

    «Troppo tardi». Callanach strappò la confezione e ci si tuffò. «Ailsa Lambert ha chiesto di te. Devo presumere che il circolo mondano dell’élite di Edimburgo non funzioni più a dovere?», domandò con un sorriso.

    «Come si dice in francese: Taci?», rispose Ava, senza staccare gli occhi dal cellulare. Aveva dedicato gran parte della propria carriera a cercare di distanziarsi dai privilegi che le spettavano di diritto per discendenza. Le aspettative della famiglia, che l’avrebbe voluta medico, avvocato o manager – se non altro finché non si fosse accasata e avesse messo al mondo dei nipotini per i suoi ansiosi genitori –, avevano innescato un senso di ribellione che l’aveva fatta approdare nel tetro mondo della polizia. Eppure nemmeno al lavoro riusciva a sfuggire al fatto che tra gli amici intimi dei suoi genitori ci fossero pezzi grossi delle forze dell’ordine scozzesi, politici, capitani d’impresa e persino l’anatomopatologa più in gamba della città.

    La detective Salter li interruppe, consegnando loro due pagine in formato

    A

    4 e controllando l’orologio. «Il capo Begbie ha detto che sa che lei è occupato, perciò sta organizzando la conferenza stampa al posto suo». Salter cercò di non sorridere, ma Turner rovinò i suoi sforzi scoppiando in una risata sguaiata. «Le ho lasciato qualche appunto, signore. I media si riuniranno nel giro di un’ora».

    «Wow, siamo già ridotti a servirci del circo mediatico? Domattina a quest’ora le donne sbaveranno sulla tua faccia stampata sulle prime pagine di tutti i quotidiani. Allora, il volto della polizia scozzese è di nuovo in sella, eh?», commentò Ava. Callanach faceva parte del team investigativo da otto mesi e in quel periodo Ava non si era lasciata sfuggire nemmeno la più piccola occasione di prenderlo in giro. La sua vecchia carriera di modello lo rendeva un obiettivo particolarmente facile.

    «Non è stata un’idea mia», mormorò Callanach. «Merde!».

    «Modera il linguaggio», lo redarguì Ava.

    «Pensavo non capissi il francese», ribatté Callanach.

    «Hai frainteso le volte in cui ho finto di non sentirti per supposta ignoranza. Sono due cose diverse», disse Ava.

    «Non hai del lavoro da fare?», le domandò lui, scrollando la testa e guardando il sorriso che si allargava sul suo volto. Ava era il genere di donna che riusciva a spiazzare gli uomini. Aveva un’aria innocente, con quei lunghi ricci castani e gli occhi grigi che mutavano colore a seconda della luce, ma era capace di andare al sodo in un secondo. Essere diretta sembrava l’unico modo di porsi che conoscesse. Quand’era arrivato dalla Francia, nella testa aveva un gran casino. Erano successe troppe cose perché ne uscisse illeso a livello emotivo. Gli ultimi mesi però erano stati un balsamo e gran parte del merito andava a lei, soprattutto perché accanto a quella donna poteva essere sé stesso.

    «Terra chiama Callanach», gli disse Ava, sventolandogli una mano davanti alla faccia. «Ti stavo solo prendendo in giro. Siamo messi davvero così male? Sul serio non hai nessun appiglio?»

    «Meno di zero», rispose lui.

    «Detective Turner!», gridò Begbie dal corridoio.

    «Non sono in servizio, signore», gli gridò lei di rimando. «In effetti non sono nemmeno nell’edificio. Si sta solo immaginando la mia voce».

    «Purtroppo per te ho un’immaginazione davvero fervida. Prendi una squadra e andate a Gilmerton Road. C’è stato un altro omicidio».

    Capitolo tre

    La casa di Gilmerton Road era una modesta bifamiliare con un giardino semplice ma curato e una Mini parcheggiata nel vialetto. Un alto cancello di legno dava accesso al cortile sul retro. Le finestre al piano di sopra dell’abitazione erano piccole, ma in un angolo, probabilmente dove si trovava la scala interna, una vetrata lunga e stretta copriva entrambi i piani e si affacciava sul vialetto del vicino di casa. Due agenti in divisa piantonavano l’ingresso; il circo della Scientifica, del coroner e delle fotografie non era ancora iniziato. Nella zona regnava la pace e le strade erano ancora avvolte nel sonno.

    «Che è successo?», domandò Ava Turner a uno dei due agenti di guardia.

    «Una vicina ha sentito un forte rumore, seguito da alcune grida, e ci ha chiamati. Quando abbiamo bussato non ci ha risposto nessuno, così abbiamo fatto il giro dal retro e abbiamo trovato la porta della cucina aperta. Il corpo è in camera da letto, signora. Vuole che venga con lei?»

    «No, resti qui. E tenga la gente lontana dal giardino. Chi è la vittima?», chiese Ava.

    «La signora Helen Lott, quarantacinque anni circa. Abitava da sola, il marito è morto tempo fa, a quanto pare. Andava molto d’accordo con la vicina, non le abbiamo ancora detto cos’abbiamo trovato…».

    «Bene. Dove diavolo sono tutti quanti?»

    «Sono ancora al Meadows per l’omicidio al festival. Nessuno si aspettava un secondo assassinio la stessa notte», disse l’agente, sfregandosi le mani. Persino in luglio, la Scozia non è il posto ideale in cui stare all’aperto durante le ore piccole.

    «Giusto, maledizione. Abbiamo raggiunto la quota annuale di omicidi a Edimburgo in una sola notte. Dio onnipotente, per la stampa sarà una gran giornata», mormorò Ava, che si era già incamminata lungo lo stretto vialetto che conduceva sul retro della proprietà.

    La serratura della porta era stata forzata. Se si trattava di furto con scasso, allora era opera di un professionista, non il solito caso in cui si arraffava quello che stava vicino alla finestra rotta. Il colpevole doveva aver sborsato parecchio per procurarsi gli attrezzi adatti e doveva sapere cosa gli serviva. Ava tirò fuori dalla borsa guanti e copriscarpe ed entrò dalla porta della cucina, attenta a non spostare nulla al suo passaggio. La serratura era rotta, e non c’erano catenacci o sistemi di sicurezza secondari. Imprecò tra sé e sé. La gente non dava molto valore alla propria vita.

    La casa era immersa nell’oscurità, probabilmente come quando l’intruso vi era penetrato. Ava tenne le luci spente, immaginandosi le mosse del killer all’interno dell’abitazione. Dal lampione sulla strada arrivava abbastanza luce per riuscire a muoversi con facilità. Nessuna delle assi del pavimento scricchiolava. C’erano ottime probabilità che il killer fosse arrivato alla camera da letto di Helen Lott senza che lei sospettasse nulla. Macchie scure sul tappeto lungo le scale e una striscia luccicante sul corrimano erano un’anticipazione della scena che stava per palesarsi ai suoi occhi.

    Il puzzo di vomito era distinguibile già a metà scala, iniziava come un sentore acre e si faceva sempre più intenso man mano che ci si avvicinava. Ava scostò la porta e sentì un altro odore, un tanfo terribile: feci umane.

    Accese la luce della camera per avere una visuale dettagliata e indietreggiò involontariamente di fronte al disastro sul pavimento. Dapprima le fu difficile scorgere il corpo, nascosto da una cassettiera di legno. I vestiti, sparpagliati ovunque, coprivano tutto tranne il piede e il braccio destro della donna. Ava si aggirò in punta di piedi e scostò l’angolo di un maglione dal viso della vittima. Il sangue le era colato da bocca, naso e orecchie. Il vomito si stava già asciugando, incrostando il tappeto e le pieghe e le rughe della sua pelle. Gli occhi della donna, di un blu insolito e acceso, schizzavano fuori dalle orbite e fissavano un punto al di sopra della spalla di Ava, come se aspettassero, pieni di terrore, il ritorno dell’aggressore. Il bianco rimasto in quegli occhi era poco, l’emorragia si espandeva come una ragnatela di crepe su un vaso antico. Il collo e il viso erano tumefatti, di una tonalità violacea. Era come se un bimbo arrabbiato l’avesse dipinta dal collo in su con tutti i colori della sua furia.

    La cassettiera, grossa e pesante, giaceva sopra al cadavere. Non era posizionata lì a caso. Ava osservò con attenzione il danno: il pannello posteriore, ora rivolto al soffitto, era stato sfondato e le estremità erano incavate verso l’interno. Deboli tracce di stivale sporcavano le lenzuola a motivi floreali color pastello. L’aggressore era saltato giù dal letto e sopra alla cassettiera, aggiungendo altra pressione a quella che aveva strappato il respiro ai polmoni della donna che vi giaceva terrorizzata al di sotto. La gamba di Helen Lott ancora visibile presentava una torsione innaturale e le unghie della mano libera erano piene di sangue e spezzate. Ava girò la mano verso l’alto, nel punto in cui le unghie dovevano aver urtato la cassettiera: sulla superficie lucida trovò segni di graffi. La poveretta doveva essere stata cosciente, quindi, al punto da cercare di fare il possibile per liberarsi, in quegli ultimi, disperati momenti. Ava pensò che la morte doveva essere stata una benedizione. Con tutta probabilità la signora Lott aveva accolto l’oscurità con sollievo.

    «Oh, mia cara», disse una vocina sulla soglia, «e adesso cos’abbiamo? Santo cielo. Stavo appunto dicendo a Luc poco fa quanto mi mancassi, ma non avevo certo intenzione di rivederti in queste circostanze».

    «Ho bisogno di sapere il più possibile sul killer. Si è trattato di una sola persona o di una banda? È stata usata un’arma? Dammi qualcosa da cui iniziare, Ailsa», disse Ava.

    La patologa, coperta da capo a piedi da una divisa bianca che la faceva sembrare più minuta che mai, aprì la borsa e ne estrasse un termometro e svariati tamponi.

    «È una scena del delitto complicata, non ho molto spazio di manovra. Tieni fuori la tua squadra finché non avrò finito. Trovami una fonte di luce decente e mi serve subito un fotografo».

    «Perfetto», rispose Ava, mentre Ailsa si inginocchiava accanto al corpo.

    «È ancora calda, quindi chi l’ha aggredita, e se si tratti di un individuo o di più persone ancora non so dirlo, non dev’essere molto lontano», commentò Ailsa, scattando foto con la sua piccola fotocamera e inondando di luce gli occhi, le orecchie e la bocca di Helen Lott. «La morte è avvenuta nell’arco degli ultimi quarantacinque minuti, per ora non posso dire di più. Scommetto che l’aggressore – sempre che fosse solo – è un maschio di corporatura robusta. Ha usato una forza incredibile e una rabbia disumana. Le ferite sono state causate dalla cassettiera, niente armi. Chiunque sia stato dev’essere coperto di sangue, comunque. Si terrà fuori dai radar finché non si sarà dato una ripulita. Questo colpo in faccia… vedi il rigonfiamento e la decolorazione qui?», chiese Ailsa, puntando il dito su un lato della testa di Helen Lott. «Probabilmente le ha fratturato lo zigomo, forse persino la mascella. Dev’essere stato questo colpo a farla cadere, così da poter essere schiacciata dal mobile. Il peso della cassettiera che le ha strappato l’aria dai polmoni, combinato con la frattura alla mascella, deve averle impedito di urlare. Non c’è modo di sapere se è stato tutto premeditato o accidentale. È una scena del crimine insolita, molto personale. Non ho mai visto una morte per schiacciamento che non fosse in un’auto o a causa di un incidente sul lavoro, prima d’ora. E queste chiazze di sangue qui e qui», Ava seguì la direzione dello sguardo di Ailsa dalla cassettiera ai tappeti e alle pareti, fino all’armadio, «mi suggeriscono che lo schiacciamento non sia il risultato di un’unica forza continua».

    «Che intendi dire?», le domandò Ava.

    «Temo, purtroppo, che chiunque sia stato abbia continuato a saltare sopra alla cassettiera, provocando ferite ed emorragie quasi esplosive a ogni singolo atterraggio. Una volta spostati i mobili e il cadavere, vedremo una forma a stella intorno al corpo».

    «Bastardi», disse Ava con le mani sui fianchi e il viso chinato.

    «Scommetto che davanti a tua madre non usi parole del genere», commentò Ailsa con un sorriso gentile. «Adesso lascia che mi occupi della signora Lott».

    Ava tornò al piano di sotto e accese tutte le luci, abbaiando ordini alla radio. I tecnici stavano già portando dentro luci e teli, e lei non era ancora arrivata alla porta della cucina. Uscì in strada e si guardò attorno. Era una zona tranquilla, senza telecamere di sicurezza, e non abbastanza ricca perché i residenti investissero in sistemi di sorveglianza. Era ovvio che in casa ci fosse qualcuno, a quell’ora della notte e con un’auto parcheggiata nel vialetto. Il ladro – sempre che si trattasse di un furto andato male – avrebbe dovuto preoccuparsi dei vicini.

    «Agente», chiamò Ava, rivolta all’uomo con cui aveva parlato prima di entrare in casa. «Ci sono evidenti segni di furto o saccheggio?»

    «La borsa con il portafoglio è ancora sul tavolo della cucina, signora. Oltre a quello non saprei, non volevamo rischiare di contaminare la scena».

    Ava tornò alla sua auto e compose il numero di Begbie.

    «Sono Turner. È una brutta storia, capo. Vittima di sesso femminile, viveva da sola. Schiacciata a morte con un mobile della sua stessa camera da letto».

    «Mi stai prendendo per il culo», sospirò Begbie. Ava riuscì quasi a vederlo che si grattava la testa e tamburellava con la penna sulla scrivania. Sembrava esausto. «Segni di violenza sessuale?»

    «Non ne ho idea. Non ne avremo la conferma finché la signora Lott non verrà portata via per un’autopsia completa. Il busto e due arti sono completamente schiacciati».

    «Sospettati?»

    «Ancora no. La patologa è ancora con lei e tutti gli altri sono al Meadows, perciò ci vorrà più del solito per ingranare. Quasi certamente si è trattato di un aggressore di sesso maschile, non so se ce ne fosse più di uno, però. È un crimine brutale, ha richiesto molta forza. Abbiamo l’impronta di uno scarpone. Gli agenti stanno interrogando la vicina. Dopo l’incidente al Meadows la stampa…».

    «Lo so, lo so», la interruppe Begbie. «Ma dev’essere informata. Tanto prima o poi lo scopriranno comunque, meglio che lo sappiano da noi». Ava sentiva il respiro pesante del capo all’altra estremità della linea. Sembrava che il petto di Begbie fosse schiacciato dal peso delle parole.

    «Signore, non accadrà altro stanotte. Magari dovrebbe tornare a casa. Io e Callanach siamo a disposizione per eventuali chiamate».

    «Non cominciare anche tu, Turner. Se avessi voluto farmi assillare da un’altra donna, avrei optato per la bigamia molti anni fa. Isolate la scena e portatemi qualche dannata informazione utile. Mi aspetto almeno il doppio di quanto ha trovato Callanach al Meadows. E non sto alzando molto l’asticella».

    Capitolo quattro

    Callanach sedeva accanto a un impassibile video editor, tentando di ignorare la pila di quotidiani che una qualche persona solerte aveva lasciato sulla sua scrivania. Doveva analizzare le riprese di quattro telecamere diverse e vedere se avessero registrato uno straccio di indizio. Per fortuna la durata delle riprese era tale che quel lavoro, perlomeno all’inizio, era ridotto.

    I primi due video provenivano da telecamere statiche prive di operatore. Coprivano la zona anteriore, dove stava assiepata la folla, quindi il luogo in cui si trovava Sim Thorburn non era che una macchia confusa sullo sfondo. Gli altri due, invece, erano più complicati da analizzare. Un cameraman si era spostato avanti e indietro lungo il palco, filmando alternativamente la folla e la band; l’altro riprendeva da una gru a cestello per catturare angolazioni più dinamiche. Era una visione terribilmente lenta, ma alla fine, in mezzo alla folla, spuntò la figura di Niek De Vries, riconoscibile grazie alla sua altezza.

    «Stop», disse Callanach, chinandosi in avanti e fissando con attenzione lo schermo. «Può ingrandire quella zona?».

    Il tecnico batté su qualche tasto e si tirò indietro, portandosi le mani dietro la testa.

    «Tutto qui?», chiese Callanach. «È troppo sfocata».

    «Già. Ha presente nei film, quando zoomano, l’immagine si fa supernitida e riesci persino a leggere cosa c’è scritto nel foglietto che il tizio si è appena infilato in tasca? Tutte stronzate», commentò l’editor. «L’immagine consiste di una serie di pixel. Si può ingrandire, ma a quel punto diventa meno nitida. Se mi avessero dato uno scellino per ogni volta che ho dovuto spiegarlo a qualcuno…».

    «Allora riduca lo zoom e si sposti un po’ a sinistra», disse Callanach. «Quello è Sim», spiegò. «Mandi avanti da questo punto».

    Quando il video riprese, Callanach vide Sim saltare su e giù, dentro e fuori dal margine delle riprese. Per quanto sfocata fosse l’immagine, si trattava chiaramente della vittima. Era a petto nudo, come molti tra il pubblico; probabilmente aveva gettato via la maglietta per il calore del sole e della folla. Sim stava cantando, un braccio in aria che si agitava a tempo di musica. Sembrava rilassato e felice. Alle sue spalle, leggermente più a destra, c’era Merel De Vries.

    «Non ha la più pallida idea di cosa lo aspetti», commentò Callanach tra sé e sé. La telecamera iniziò a spostarsi sulla destra e il viso di Sim scivolò verso il margine più lontano dello schermo. «No», gridò Callanach. «Sta per succedere. Non si può fare un fermoimmagine o qualcosa?». L’editor premette la barra spaziatrice. Callanach studiò il frame ma non vi trovò niente di nuovo. «Riparta», disse. Il video riprese e il viso di Sim scivolò via, sul punto di uscire quasi del tutto dall’inquadratura, proprio mentre sembrava andare a sbattere contro qualcuno che gli passava davanti. «Stop! Eccolo, proprio lì».

    La mente di Callanach riempì le lacune: un corpo che si spostava appena tra la folla, snudava un coltello che si era tolto di tasca e, al suo passaggio, affondava la lama affilata come un rasoio nella pancia nuda di Sim. Nell’altra mano aveva già un panno per ripulire l’arma e non macchiare altre persone di sangue, per poi allontanarsi senza dare nell’occhio ancor prima che la vittima si fosse accasciata. Doveva essersi spostato a zig-zag tra la folla: fendere la calca in linea retta per allontanarsi dalla zona avrebbe dato troppo nell’occhio.

    «Lo rimandi indietro», ordinò Callanach. Alla seconda visione fu chiaro che Sim non aveva neppure girato la testa. Non c’era stata nessuna distrazione, nessuna conversazione, nessun segno di riconoscimento. Se il movimento di qualche pixel sgranato, di

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