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Democrazie sotto stress
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E-book346 pagine4 ore

Democrazie sotto stress

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Il volume raccoglie gli editoriali domenicali di Sergio Fabbrini pubblicati su Il Sole 24 Ore dall’agosto del 2020 al gennaio del 2022. Nella prima parte l’Autore parla dell’Unione europea (Ue), descrivendo e analizzando il suo funzionamento di fronte alla crisi pandemica, alle divisioni tra gli stati membri, alle sfide e alle pressioni esterne. Si passa quindi all’Italia, ricostruendo le ragioni che hanno condotto alla crisi del governo Conte I e alla nascita del governo Draghi. Con quest’ultimo, l’Italia è riuscita a recuperare i ritardi della campagna vaccinale e della preparazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ma non ha risolto i problemi strutturali di istituzioni pubbliche inefficienti, di un’élite politica faziosa e di una rappresentanza economica e sociale particolaristica. Nell’ultima parte viene descritto e analizzato il funzionamento della democrazia americana nelle condizioni di una crisi sanitaria e costituzionale senza precedenti. Insomma, le democrazie occidentali, sottoposte a stress test, hanno dimostrato la loro resilienza ma anche la loro fragilità. Non è scontato che riusciranno a superare questo test.
Gli editoriali domenicali di Sergio Fabbrini rappresentano
un appuntamento fisso per chiunque sia interessato a capire
i cambiamenti in corso nel mondo e le sfide a cui sono chiamate l’Europa e l’Italia.
Gli articoli raccolti in questo volume ci ricordano che la democrazia liberale rappresenta
un bene prezioso, che dobbiamo continuare a difendere e a rafforzare.
Paolo Gentiloni
Commissario europeo per gli Affari economici e monetari
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2022
ISBN9788863459630
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    Anteprima del libro

    Democrazie sotto stress - Sergio Fabbrini

    Parte Prima

    La democrazia europea: Von der Leyen non basta

    La Parte Prima raccoglie gli editoriali pubblicati tra i primi di settembre 2020 e l’inizio di gennaio 2022. È stato un periodo critico per l’Unione europea (Ue) in quanto ha mostrato la persistenza delle sue debolezze decisionali. La decisione raggiunta nel Consiglio europeo del luglio precedente (di promuovere il programma di Next Generation EU o NG-EU) è stata raggiunta dopo prolungate divisioni tra stati membri. L’implementazione di quella decisione ha messo in luce un contrasto serrato tra la Commissione e i governi della Polonia e dell’Ungheria relativamente al rispetto della rule of law (necessario per poter beneficiare dei fondi di quel programma). Sebbene il populismo sia stato messo in difficoltà dall’approvazione di NG-EU, il sovranismo (in particolare quello polacco) è divenuto invece sempre più aggressivo, giungendo a mettere in discussione le stesse fondamenta legali dell’ordine europeo. La Commissione di Ursula von der Leyen è riuscita a passare attraverso quei contrasti, ma la tensione tra essa e il Consiglio europeo ne ha indebolito l’autorità. Certamente, i cambiamenti di governo intervenuti in Italia (febbraio 2020) e in Germania (dicembre 2020) hanno rafforzato la visione integrazionista dell’Ue, anche se in politiche cruciali quella visione ha assunto tratti diversi. C’è un’ambiguità irrisolta, interna all’europeismo, relativa alla concezione di sovranità europea. Per alcuni, come il presidente francese Macron, la sovranità europea consiste nel mettere insieme parti di sovranità nazionali attraverso il coordinamento dei governi degli stati membri (è dunque intergovernativa). Per altri, come il premier italiano Draghi, la sovranità europea consiste nella condivisione di una sovranità comune (è dunque sovranazionale). Concezione, quest’ultima, ripresa anche dal presidente della Repubblica italiano, Sergio Mattarella, nel discorso tenuto alla Sorbona il 5 luglio 2021 (ripreso come postfazione in questo volume). Tale ambiguità concettuale ha quindi condizionato il dibattito su riforme concrete, come dotare l’Ue di una capacità fiscale e militare. La definizione di una politica fiscale europea è collegata alla riforma del Patto di stabilità e crescita sospeso fino al dicembre del 2022. Sul tavolo è stata già presentata (poco prima di Natale 2021) una proposta franco-italiana di riforma di quel Patto, proposta che segue il Trattato del Quirinale firmato tra i due Paesi il mese precedente. Le caratteristiche che assumerà la riforma fiscale decideranno il futuro dell’Ue, come sottolinea il commissario Paolo Gentiloni, uno dei protagonisti del riformismo europeo, nella Prefazione a questo volume. Nel frattempo, si sono avviati i lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa, sebbene la riforma delle istituzioni sia chiaramente contrastata dalle élite politiche di diversi stati membri. Nonostante l’attivismo di Ursula von der Leyen, il funzionamento delle istituzioni dell’Ue continua ad essere dipendente dagli umori politici delle élite nazionali.

    Populismo in crisi dopo il Covid

    Così come le caratteristiche di una persona si vedono nei suoi momenti di difficoltà, allo stesso modo le caratteristiche di una leadership governativa si manifestano quando deve affrontare crisi o emergenze. Di fronte alle difficoltà, un individuo può scegliere di rimuoverle, convincendosi che non è successo niente, oppure può riconoscerle, anche se non è piacevole farlo. Nel primo caso, la sua crisi peggiorerà, nel secondo caso, la crisi è già in via di superamento. La stessa cosa vale per le leadership governative. Di fronte alla crisi, un leader può scegliere di rimuoverla, sperando che si risolva da sola, oppure la riconosce, dandosi da fare per superarla. Riconoscere un problema, dicono la psicologia cognitiva e l’esperienza storica, è il primo passo verso la sua soluzione. In un volume del 1988 (Liberalism Against Populism), William H. Riker distinse tra due opposti approcci al governo dei problemi sociali, uno populista e l’altro liberale. Si tratta di una distinzione utile per capire i differenti impatti avuti dalla pandemia nei Paesi democratici. Vediamo perché.

    Cominciamo dall’approccio populista. I fatti dicono che i Paesi che hanno male-gestito la pandemia sono stati quelli governati da leader populisti, come Usa, Brasile, India, Regno Unito. A oggi, negli Usa sono morte 190mila persone, in Brasile 124mila, in India 68mila, nel Regno Unito quasi 42mila. Naturalmente, nei primi tre casi, si tratta di Paesi molto vasti, con una grande popolazione e una complessa struttura federale, caratteristiche che rendono difficile il governo di una politica sanitaria nazionale.

    Tuttavia, per quanto riguarda gli stati Uniti, siamo in presenza del Paese più ricco al mondo, con le più sofisticate tecnologie di cura esistenti, con centri di ricerca che non hanno rivali. Lo stesso discorso vale per il Regno Unito, il Paese scientificamente più avanzato d’Europa (ha ben quattro università nella graduatoria delle prime dieci università del mondo). Eppure, gli Usa occupano il primo posto per decessi e contagi al mondo e il Regno Unito occupa lo stesso posto in Europa. Come è spiegabile? La risposta (certamente non univoca) è che i governi di quei Paesi hanno perseguito un approccio populista al Covid-19. Donald Trump, Jair Bolsonaro, Narendra Modi e Boris Johnson hanno a lungo rimosso la pandemia auto-convincendosi che sarebbe passata per magia; quando hanno dovuto riconoscerla, hanno perso tempo a denunciarne i presunti responsabili invece di affrontarla; quando gli scienziati li hanno messi in guardia che le cose stavano diversamente, se la sono presa con questi ultimi. Dopo tutto, il populismo ritiene che non sia necessaria la competenza tecnica, oppure la conoscenza dei problemi economici e istituzionali, per poter governare. Il disprezzo per le competenze ha spinto i leader populisti, una volta al governo, a sbarazzarsi degli establishment tecnici, sostituiti con dilettanti purché fedeli. Ciò è avvenuto anche nel Regno Unito, che pure è il Paese che ha inventato l’establishment tecnico e di esso ha storicamente e positivamente beneficiato. Di qui, l’improvvisazione dell’approccio populista nell’affrontare la pandemia e, di qui, le sue conseguenze drammatiche. Conseguenze che i leader populisti continuano a negare, spostando l’agenda nazionale su altri temi (il conflitto razziale negli Usa, la corruzione degli avversari in Brasile, la minaccia islamica in India, il recesso dall’Ue nel Regno Unito), con l’esito che la crisi sanitaria, in quei Paesi, peggiora di giorno in giorno.

    Vediamo ora l’approccio liberale, che è stato invece adottato dalle principali leadership europee. Nonostante un’iniziale rimozione, queste ultime hanno affrontato la pandemia con determinazione, introducendo provvedimenti (come il lockdown) che ne hanno contenuto la diffusione, anche sulla base delle valutazioni scientifiche elaborate dalle comunità degli epidemiologi (tra cui non sono mancati, ahimè, gli scienziati fai-da-te). Non solo, tra aprile e luglio scorsi, i leader della Commissione europea, dei principali governi nazionali, del Parlamento europeo hanno avviato una discussione su come uscire dalla pandemia, una volta che sarà debellata. Una discussione non semplice (anzi dura, irriguardosa, divisiva) per stabilire i termini finanziari e di governance del piano di ricostruzione e ripresa dei sistemi economici e sociali dei Paesi europei (Next Generation EU). Una discussione che ricorda quella avuta negli Usa, tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, per individuare le caratteristiche che avrebbe dovuto assumere il contesto post bellico (di quel Paese e del mondo). L’Europa è stata l’unica area al mondo in cui si è discusso del dopo-pandemia. Come è stato possibile che l’Ue abbia potuto elaborare un suo new deal post pandemico, caratterizzato da alcune cruciali priorità, sostenuto da importanti risorse finanziarie, mentre nei Paesi sopra ricordati si è continuato a parlare di altro? Perché a Bruxelles o nelle principali capitali europee non c’erano (e non ci sono) leader populisti al governo. Ursula von der Leyen, Angela Merkel, Emmanuel Macron, Charles Michel o David Sassoli hanno dimostrato di avere non pochi limiti. Tuttavia, hanno condiviso un approccio liberale (cioè, razionale e responsabile) alla gestione della pandemia, anche grazie al sostegno di establishment tecnici dotati delle necessarie competenze di politica pubblica.

    Insomma, la crisi pandemica ha mostrato che il populismo, una volta andato al governo, genera problemi invece che soluzioni. I leader populisti saranno anche uomini e donne nuovi, ma la loro predisposizione a rimuovere i problemi ha prodotto risultati tutt’altro che innovativi. Sono state le insufficienze delle precedenti leadership liberali a giustificarne l’ascesa. In un volume del 1956 (The Power Elite), Charles Wright Mills aveva mostrato come (anche) le democrazie liberali possano produrre élite che si auto-preservano al potere, a prescindere dalle loro capacità. Un problema non da poco, che, però, deve trovare una soluzione solamente all’interno di quelle stesse democrazie, aumentando la competizione tra leadership liberali alternative, sostenute da condivise competenze tecniche. Per le nostre democrazie, il populismo è più pericoloso del Covid-19.

    Domenica 6 Settembre 2020

    La miscela esplosiva di Covid-19 e rifugiati

    Dalle finestre del Viminale, le fiamme di Moria si possono vedere distintamente. Pochi giorni fa, il campo profughi nell’isola greca di Lesbo ha preso fuoco. Conteneva più di 12mila persone, anche se era stato pensato per contenerne poco meno di 3mila. Una situazione di sovraffollamento che, in condizioni di scarsa sicurezza sanitaria, ha favorito la diffusione del Covid-19. Di qui, la decisione delle autorità greche di imporre il lockdown al campo e, di qui, la reazione dei profughi che ha condotto al suo incendio. In due giorni (8 e 9 settembre), il più grande campo profughi d’Europa è stato distrutto, con la polizia che ora circonda l’area per impedire ai profughi di incamminarsi verso la città più vicina (Mitilene). Stiamo ritornando al biennio 2015-2016, in un contesto, però, reso più drammatico dalla pandemia. Come è stato possibile? Cosa si può fare?

    Cominciamo dalla prima domanda. Di fronte alla diffusione della pandemia, le leadership europee hanno dovuto focalizzarsi sulla risposta da opporre a quest’ultima. Tale sforzo sta dimostrando che «l’Europa c’è quando è necessario che ci sia», per dirla con Ursula von der Leyen. Tuttavia, considerando la crisi migratoria del 2015-2016, si può dire che l’Unione europea (Ue) c’è quando si tratta di gestire la crisi, non già quando si tratta di risolverla. Ancora oggi, ad esempio, non abbiamo una protezione comune delle frontiere di Schengen oppure non abbiamo una politica comune nei confronti dei rifugiati, in quanto alcuni Paesi (come il gruppo sovranista di Visegrad) hanno continuato ad opporre il loro veto ad ogni soluzione collettiva.

    Di qui, la necessità di ricorrere a soluzioni tampone che, però, creano nuovi problemi mentre risolvono quelli vecchi. Si pensi all’accordo del 18 marzo 2016 che l’Ue siglò con la Turchia, finalizzato a trattenere, in quel Paese, i milioni di profughi che fuggivano dalla guerra civile in Siria. In cambio, il governo turco ottenne sei miliardi di euro, i cittadini turchi la possibilità di viaggiare senza visto nell’Ue, la Turchia di essere considerato un candidato possibile per entrare nell’Ue. Nel breve periodo, la soluzione funzionò. L’afflusso di rifugiati in Germania si ridusse e Angela Merkel e il suo partito (Cdu) sopravvissero alle elezioni federali del settembre 2017. Nel medio periodo, però, l’accordo rafforzò il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e la sua politica, autoritaria all’interno e neo-imperiale all’esterno. Con l’esito che, quest’ultima, ha finito per contrastare apertamente gli interessi (economici, petroliferi, geo-strategici) dell’Europa nel Mediterraneo. Come si vede, non basta gestire la crisi.

    Vediamo ora la seconda domanda. L’incendio di Moria dimostra che l’immigrazione, in Europa, di rifugiati dalle aree di guerra civile è tutt’altro che in diminuzione, per non parlare dell’immigrazione economica che è destinata a crescere impetuosamente con l’incremento della popolazione nei Paesi africani. L’Ue non può affrontare sfide di questa magnitudine con risorse amministrative e finanziarie limitate, oltre che con modelli di governance inadeguati. Consideriamo le risorse. La bozza per il bilancio finanziario 2021 (concordata dal Consiglio dei ministri economico-finanziari il 7 settembre scorso) prevede addirittura una diminuzione delle risorse allocate sia alla politica migratoria che alla politica di sicurezza e di difesa. Rispetto alle previsioni iniziali, il Migration Fund viene ridotto di 230 milioni, l’Integrated Border Management Fund di 489 milioni, il Border Management and Visa Instrument di 450 milioni, il Custom Control Equipment di quasi 40 milioni, il Resilience Security and Defence di 507 milioni, l’External Action di quasi 750 milioni. Certamente, tale bozza dovrà essere negoziata con il Parlamento europeo (il cui consenso è necessario per approvare i bilanci annuali dell’Ue), che ha già espresso la sua contrarietà, con David Sassoli, ai tagli proposti dai ministri nazionali. Tuttavia, la bozza segnala la difficoltà dell’Ue a liberarsi dal tabù del bilancio minimo.

    Anche in una situazione di crisi economica senza precedenti, non si può togliere da una parte per dare all’altra parte, se ciò impedisce alla ripresa post pandemica di beneficiare della necessaria stabilità sociale. Consideriamo la governance dell’immigrazione. L’Ue continua a basarsi, nella politica migratoria, su un regime decisionale intergovernativo, caratterizzato dalla volontarietà della cooperazione tra i governi nazionali. Quel regime, però, impedisce di prendere decisioni, specialmente quando sarebbe indispensabile farlo, proprio per il potere di veto esercitato dai Paesi sovranisti (di nuovo, il gruppo di Visegrad). Così, per rispondere alle emergenze migratorie, è stato necessario dare vita a coalizioni di volenterosi esterne al quadro istituzionale europeo. Come la coalizione dei 10 Paesi che hanno concordato di accogliere 400 minori non accompagnati del campo di Moria, oppure la coalizione dei cinque Paesi che a Malta, nel settembre 2019, concordarono di aiutarsi reciprocamente per affrontare e redistribuire al loro interno i rifugiati fuggiti dalla guerra civile in Libia.

    Atti necessari, ma insufficienti. Infatti, occorrerebbe istituzionalizzare una politica europea dell’asilo e della gestione dei rifugiati, costruire un sistema europeo di protezione delle frontiere di Schengen, oltre che perseguire una politica europea di intervento nei Paesi attraversati da guerre civili. Obiettivi che si possono raggiungere solamente attraverso un contesto sovranazionale, non già intergovernativo. Almeno, se si vogliono risolvere le crisi, e non solo

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