Aspenia 3/2023: Battaglie per l’Europa
Di AA.VV.
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Il centro di gravità dell’UE si sta in parte spostando a est, verso una Polonia che l’Italia di Giorgia Meloni considerava un alleato certo per poi scoprire, nel suo nuovo europeismo pragmatico, che così non è. Perlomeno in campi – la gestione della politica migratoria – cruciali per noi. Nel frattempo, la rottura con la Russia, diventata nei fatti junior partner di una Cina che Mosca non ama e non ha mai amato, ha contribuito alla crisi del modello industriale tedesco, cui si collega una parte rilevante della nostra economia: il nuovo pessimismo sulla Germania, che è in recessione tecnica e dove l’AfD è ormai il secondo partito nazionale, appare giustificato. La Francia di Macron non sta messa molto meglio, fra ambizioni sproporzionate all’esterno – “esposte” come mai prima dalla successione di colpi di Stato nel Sahel – e fragilità interne. Ci vorrebbe un’Europa che funzioni sulla base di una sovranità “condivisa”. Non “ceduta” a Bruxelles; ma “condivisa” dagli Stati nazionali che si servono di istituzioni comuni. È il passaggio intellettuale da compiere: anche rifuggendo da una prospettiva federale, un’Unione di Stati nazionali ha bisogno, per funzionare, di sforzi congiunti e di investimenti comuni molto più rilevanti. Il tasso di competizione interna resterà; ma in un contesto cooperativo necessario e almeno in parte integrato.
La discussione sull’Europa, che è alla vigilia di elezioni cruciali (giugno 2024) per definire le prossime maggioranze politiche, avviene in un contesto internazionale in cui il vecchio ordine a guida occidentale è contestato. Il ruolo delle potenze di mezzo, tutte più o meno convinte dei limiti delle istituzioni plasmate dall’Occidente, condiziona gli equilibri internazionali. Ma questo non significa che il “Sud globale” riuscirà a produrre, con l’allargamento dei BRICS a sei nuovi e disparati paesi (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti), un ordine internazionale alternativo a quello occidentale. Sul piano geopolitico l’Occidente appare ricompattato, anche se ristretto, con un vantaggio netto degli Stati Uniti rispetto all’Europa, che ha perso ulteriormente competitività negli ultimi dieci anni, così come il Giappone, rispetto all’America; la Russia si è spostata verso la Cina, di cui è nei fatti diventata uno Stato vassallo; la rivalità tecnologica fra Pechino e Washington è la forma che sta assumendo la guerra fredda 2.0 fra le potenze del secolo. Mentre il Golfo aumenta di importanza - energia e forza finanziaria - l’Africa saheliana vive una stagione di colpi di Stato, l’Argentina guarda di nuovo al dollaro, i paesi asiatici rafforzano i legami di sicurezza con gli Stati Uniti e quelli economici con la Cina.
La Russia dal canto suo non ha mai accettato di aver perso la guerra fredda, mentre gli Stati Uniti hanno gestito il dopo-1989
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Aspenia 3/2023 - AA.VV.
EDITORIALE Aspenia 3-2023
Marta Dassù e Roberto Menotti
Esistono due tesi sull’Europa di oggi – ed entrambe trovano spazio in questo numero di Aspenia. La prima è che l’Unione Europea esca rafforzata dall’età della policrisi, ossia dalla successione di shock che hanno investito il sistema internazionale dall’11 settembre del 2001 in poi. Trent’anni e più – attraverso la crisi finanziaria (e del debito sovrano) del 2008-2011, la pandemia del 2019-21 e infine il ritorno della guerra in Europa con l’aggressione russa all’Ucraina nel febbraio 2022 – di eventi traumatici. È la tesi che potremmo definire monnettiana
: se è sempre stato vero che l’Europa si fa attraverso le crisi, l’età della policrisi ha permesso all’UE di capire che le sfide su cui concentrarsi richiedono una condivisione di sovranità anche in settori rimasti in mano agli Stati nazionali. La moneta e il mercato unico non bastano quando la geopolitica contagia l’economia.
C’è poi la tesi opposta, secondo cui tutto questo può anche essere vero ed è vero ad esempio che l’UE, dopo alcune esitazioni iniziali, ha gestito bene la crisi pandemica, fino alla decisione di varare il NextGenerationEU. Ma la realtà è che l’Europa si muove troppo lentamente e con decisioni parziali, in un mondo che sta invece trasformandosi con una radicalità e rapidità senza precedenti. L’effetto a valle dell’età della policrisi non è il rafforzamento dell’UE; è il suo indebolimento. Perché – qualunque cosa abbia detto Monnet sul potere salvifico degli shock esterni – su materie cruciali per il futuro del vecchio continente gli europei restano divisi (le migrazioni sono solo la punta dell’iceberg), le percezioni continuano a divergere (cosa fare in futuro con la Russia, ad esempio) e riemerge dagli armadi un dibattito sul Patto di Stabilità che si fa molta fatica a non definire antistorico
. Nel senso che sembra fuori dalla storia di oggi, con una guerra lacerante ai confini e una geoeconomia globale in mutamento profondo, discutere le regole fiscali di ieri.
Noi di Aspenia pensiamo che l’Europa rischi molto: la combinazione fra l’età della policrisi, la guerra tecnologica fra Stati Uniti e Cina e la guerra sul terreno con la Russia imporrebbero una risposta più efficace sulle grandi sfide comuni: sicurezza, energia, migrazioni, politiche fiscali per sostenere una vera capacità strategica
. Questo termine – capacità strategica
– ci sembra più rilevante di quello usato dall’UE: autonomia strategica aperta
, una formula che lascia molti margini di ambiguità (autonomia da chi?) e che assomiglia, senza gli strumenti per sostenerla, a uno slogan retorico. E la nostra impressione è che la guerra costringa in fondo a contenere le differenze, ma senza cancellarle davvero: quando la guerra lunga finirà, i contrasti nord-sud in materia fiscale (già riemersi dalle discussioni sulle scelte della Banca centrale e la revisione del Patto di Stabilità) e quelli est-ovest in materia di politica estera e perfino di stato di diritto torneranno in superficie, in forma più acuta. Nel frattempo, la rottura con la Russia, diventata nei fatti junior partner di una Cina che Mosca non ama e non ha mai amato, ha contribuito alla crisi del modello industriale tedesco, cui si collega una parte rilevante della nostra economia: il nuovo pessimismo sulla Germania, che è in recessione tecnica e dove l’AfD è ormai il secondo partito nazionale, appare giustificato. I saggi pubbicati in questo volume (Beda Romano, Stefano Cingolani, Wolfang Münchau) lo confermano.
La Francia di Macron non sta messa molto meglio, fra ambizioni sproporzionate all’esterno – esposte
come mai prima dalla successione di colpi di Stato nel Sahel – e fragilità interne (si vedano i saggi di Gilles Gressani, che ricostruisce la visione del presidente francese sulla sovranità europea
, e di Marina Valensise). Il centro di gravità dell’UE si sta in parte spostando a est, verso una Polonia che l’Italia di Giorgia Meloni considerava un alleato certo per poi scoprire, nel suo nuovo europeismo pragmatico, che così non è. Perlomeno in campi – la gestione della politica migratoria – cruciali per noi.
Paradossalmente, il più importante governo sovranista
dell’UE sta chiedendo più Europa (nel senso descritto da Mario Sechi), non meno. il sovranismo serve a poco per governare le policrisi; serve a vincere le elezioni, certo, ma non a gestire le acque agitate di oggi. Perché, quando esiste la guerra, quando esistono flussi simili di migrazioni illegali, quando esistono un’inflazione non così facile da tenere sotto controllo e una recessione strisciante, quando si dipende dalla Cina per le tecnologie della transizione ecologica e dall’America per la sicurezza, ci vorrebbe un’Europa che funzioni sulla base di una sovranità condivisa
. Non ceduta
a Bruxelles; ma condivisa
dagli Stati nazionali che si servono di istituzioni comuni. È il passaggio intellettuale da compiere: anche rifuggendo da una prospettiva federale (la tesi invece di Sergio Fabbrini, per quel riguarda il core
europeo in un’Europa differenziata per cerchi concentrici), un’Unione di Stati nazionali ha bisogno, per funzionare, di sforzi congiunti e di investimenti comuni molto più rilevanti. Il tasso di competizione interna resterà; ma in un contesto cooperativo necessario e almeno in parte integrato.
Quindi eccoci qui: all’appuntamento dell’Europa con l’epoca in cui il mondo dei mercati piatti è finito, in cui la rivalità geopolitica condiziona la gestione dell’economia, in cui il multilateralismo non funziona, in cui la competizione tecnologica fra USA e Cina ci costringe a ridisegnare le catene globali del valore. Decadono parecchi degli assunti in cui l’Europa aveva creduto, a cominciare dalle virtù dell’interdipendenza; e il sistema internazionale, che si frammenta, è sempre più distante dal vecchio ideale kantiano degli europei.
Sicurezza ed economia si contagiano; ma è un gioco a cui l’Europa fa fatica a giocare, perché è priva degli strumenti per farlo. Sul piano della sicurezza, la guerra in Ucraina ha segnato nei fatti un’ulteriore americanizzazione del vecchio continente: la NATO, data per spacciata fino a pochi anni fa, è l’attore centrale. Sul piano tecnologico, l’Europa è in drammatico ritardo di investimenti: crediamo nelle regole ma non basta. Il Green Deal può essere una buona idea, in teoria; ma senza capirne e valutarne costi e ripercussioni, è una scorciatoia verso la contestazione politica e sociale dei governi in carica. Il mercato unico resta la grande forza comparativa dell’UE; ma se l’uscita dalla stagnazione sarà in larga parte affidata all’allentamento degli aiuti di Stato, anche il mercato interno finirà per frammentarsi. Il rapporto con gli Stati Uniti è un ancoraggio; ma l’Alleanza atlantica non reggerà se agli accordi di sicurezza non verrà combinata, dopo l’Inflation Reduction Act, anche una gamba economica solida (di cui parla nel numero Eric Jones). E nei prossimi anni l’UE dovrà affrontare una doppia sfida: come allargarsi ancora senza disintegrarsi (cosa che richiede riforme interne e di bilancio sostanziali, come spiegano Carlo Bastasin, Ivan Vejvoda, Charles Grant e Heather Grabbe) e come gestire le sfide da sud e non solo da est.
Le policrisi sono finite? Purtroppo no. Deve finire l’idea che l’UE possa passare da una crisi all’altra senza farsi male.
Aspenia 3-2023La discussione sull’Europa, che è alla vigilia di elezioni cruciali (giugno 2024) per definire le prossime maggioranze politiche, avviene in un contesto internazionale in cui il vecchio ordine a guida occidentale è contestato: da una potenza in declino come la Russia, da una grande potenza revisionista come la Cina (che però ha un modello di crescita in crisi) e da quello che viene definito il Sud globale. In realtà – questa è la tesi della seconda parte del numero – il Sud globale non esiste, è una finzione. Grandi potenze in ascesa come l’India vedono nella Cina un avversario da contenere, più che un alleato da corteggiare (ne parla Pramit Pal Chaudhuri). E come dimostra il G20, l’India punta semmai a funzionare da collegamento
fra il mondo del Sud e le democrazie occidentali. È interessante, anche per l’Italia, che sia stata lanciata l’idea di un nuovo corridoio economico fra India, Golfo, Mediterraneo ed Europa. Non è solo una alternativa alla Via della Seta, da cui Roma sta per uscire. È anche il segno della nuova centralità del Mediterraneo, visto in una dimensione ovest-est (dall’Atlantico verso l’Indopacifico) e non solo nord-sud.
Attori regionali importanti giocano le loro carte, contemporaneamente, su vari tavoli: sono le potenze di mezzo di un mondo à la carte
(questa la descrizione del Financial Times
, più immaginifica del G-Zero caro a Ian Bremmer). Sono paesi come la Turchia (dove la vittoria di Recep Tayyip Erdogan sta conducendo a scelte più pragmatiche da parte di un membro della NATO che compra armi dalla Russia e copre i buchi che abbiamo lasciato in Libia); il Brasile (tornato con Lula a una posizione a metà fra non-allineamento, inclinazioni pro-Putin e interesse al rapporto con gli Stati Uniti – ne scrive Michele Valensise); l’Arabia Saudita, che ha un accordo strategico in discussione con USA e Israele, mentre normalizza i rapporti con l’Iran e registra un aumento stellare del commercio con la Cina. Per Faisal Abbas, che analizza le scelte saudite in modo per noi controverso, è il riscatto internazionale di Mohammed bin Salman.
Il ministro degli Esteri indiano parla di pluri-allineamento, più che di classico non-allineamento, da parte degli attori regionali. Sono paesi che, di fronte alla dicotomia fra USA e Cina o fra Occidente e Russia, non ritengono di dovere scegliere una parte; ma di potere anzi muoversi con libertà negli spazi che esistono. Una delle conseguenze per noi? La libertà
delle potenze di mezzo ha limitato l’impatto delle sanzioni alla Russia. Un impatto che c’è ma che per ora non basta a ridurre la capacità di Mosca di continuare la guerra, come si discute nel numero.
Il ruolo delle potenze di mezzo, tutte più o meno convinte dei limiti delle istituzioni plasmate dall’Occidente (vedi Paolo Guerrieri sul debito), condiziona così gli equilibri internazionali. Ma questo non significa che il Sud globale
riuscirà a produrre, con l’allargamento dei BRICS a sei nuovi e disparati paesi (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti), un ordine internazionale alternativo a quello occidentale, dove persiste la forza finanziaria del dollaro e la supremazia militare degli Stati Uniti. Piuttosto, la riunione recente dei BRICS dimostra l’erosione parziale del vecchio ordine liberale e delle sue istituzioni. Siamo semmai nel non ordine
.
Sul piano geopolitico, la fotografia che ne risulta è grosso modo questa: l’Occidente appare ricompattato ma anche ristretto, con un vantaggio netto degli Stati Uniti rispetto all’Europa (che ha perso ulteriormente competitività negli ultimi dieci anni, così come il Giappone, rispetto all’America); la Russia si è spostata verso la Cina, di cui è nei fatti è diventata uno Stato vassallo; la rivalità tecnologica fra Pechino e Washington è la forma che sta assumendo la guerra fredda 2.0 fra le potenze del secolo. Mentre il Golfo aumenta di importanza (energia e forza finanziaria), l’Africa saheliana vive una stagione di colpi di Stato, l’Argentina guarda di nuovo al dollaro, i paesi asiatici rafforzano i legami di sicurezza con gli Stati Uniti e quelli economici con la Cina. E fanno sentire la loro forza iniziale le tre grandi rivoluzioni di questo secolo: quella demografica (con il baby bust
quasi dovunque, eccetto che in Africa subsahariana), quella tecnologica (con gli effetti dell’intelligenza artificiale e la balcanizzazione dell’internet) e quella energetica/climatica, con il suo impatto economico e sui flussi migratori.
Il risultato complessivo non sarà un decoupling
fra le grandi economie mondiali, troppo costoso per tutti; ma, con il ritorno in forza degli Stati nella gestione delle economie, sarà una frammentazione in aree regolatorie e di influenza distinte, con un aumento del protezionismo e delle sanzioni occidentali. Di conseguenza, il concetto di un Global South
contrapposto a un Global West
è davvero insufficiente a cogliere la complessità del quadro in evoluzione.
In estrema sintesi: considerazioni di sicurezza nazionale si innestano sulla teoria dei costi comparati che aveva dominato nell’età d’oro della globalizzazione, ormai finita. Se volete, Machiavelli ha in parte sostituito Ricardo.
Aspenia 3-2023La sostituzione che sta avvenendo in Russia – la parte finale del numero – è circoscritta ma altrettante preoccupante per l’Europa. L’ex funzionario del KGB, Vladimir Putin, sta assumendo tratti neostaliniani (questo scrive per noi Alexander Baunov): resiste Nicola II, punto di riferimento delle nostalgie imperiali brutalmente proiettate sull’Ucraina, ma si aggiunge la stretta di una repressione interna che sembra sovietica, prima che russa.
Il rublo cade ma la Russia regge, grazie alla combinazione fra le dinamiche tipiche di un’economia di guerra (descritte per noi da Antonella Scott) e l’aggiramento delle sanzioni. Non è una ricetta che possa permettere a Putin di modernizzare finalmente la Russia; ma il Cremlino ha la forza economica per continuare la guerra. E il calcolo di Mosca è che il tempo giochi a proprio favore, nella convinzione che il fronte occidentale finirà per sfaldarsi e che, con l’andare dei mesi, la maggiore quantità
delle riserve a disposizione della Russia diventerà qualità
sul campo di battaglia. Secondo Carlo Jean, Putin punta ormai su una guerra lunga: sia una vittoria sul campo che un negoziato appaiono improbabili. Il capo del Cremlino ha già perso la sua
guerra iniziale ma Kyiv non può dire di averla vinta.
Sarà decisivo, specie dopo il caso Prigozhin, il ruolo delle forze armate russe, con tensioni evidenti fra l’esercito e i servizi di intelligence e con le faide fra generali cui stiamo assistendo dal febbraio del 2022. Siamo entrati in una fase di attrito, in cui l’Ucraina si avvale della superiorità tecnologica dei mezzi forniti dagli occidentali e conserva una superiorità motivazionale (il fattore morale
, decisivo nelle guerre); mentre la Russia sfrutta le tre linee di difesa fortificate e minate messe a punto dal generale Surovikin, ormai epurato, e gestite oggi dal capo di Stato maggiore Gerasimov. Ciò che un Putin indebolito (Carolina De Stefano) teme maggiormente è una rivolta dei militari, che si contrappongono al cerchio magico
del Cremlino, fondato sul potere mafioso di oligarchi e servizi.
Ma questo basta a preconizzare la possibilità di un cambio di regime? Per Carlo Jean, la domanda è essenziale, visto lo stallo sul campo di battaglia e il dato sostanziale che artiglierie e missili non basteranno a riconquistare territorio. E fino a quando Putin resterà al potere, un armistizio di tipo coreano appare altrettanto improbabile in tempi brevi. Il capo del Cremlino si aggrappa alla guerra per mantenersi alla guida della Russia; scommette, in vista delle elezioni americane del 2024, che l’appoggio americano all’Ucraina si eroderà. Ma è una scommessa ad alto rischio: obiettivo dei patrioti russi – osserva Jean – dovrebbe essere quello di evitare che la sconfitta di Putin diventi la sconfitta della Russia, cioè che Mosca si indebolisca al punto tale da diventare vassalla di Pechino
. Per Aspenia, questo esito si sta già consumando.
La geopolitica è tornata, scrivono i giornali e le riviste di mezzo mondo. Non è chiaro quando se ne fosse andata, al di là della retorica sulla fine della storia
dopo la caduta dell’URSS. Il problema in Europa nasce molto di lì: la Russia non ha mai accettato di avere perso la guerra fredda, gli Stati Uniti hanno gestito il dopo-1989 come una vittoria – e la era. La guerra fredda non è mai finita davvero. Putin cerca di rifarsi in Ucraina con enormi tragedie e distruzioni. Ha già perso sul piano politico, qualunque sia l’esito finale sul terreno. E combatte, ormai è chiaro, un conflitto su due fronti: quello esterno e quello interno, accomunati dal ruolo chiave dei militari e dei servizi di sicurezza.
La Russia ha la febbre, l’Europa ha l’influenza: Mosca uscirà comunque perdente dalla guerra disastrosa in Ucraina, l’Europa ne subisce gli effetti. Per una trattativa di pace di cui non si vede nessuna premessa, dovrebbero essere studiate garanzie di sicurezza che gli ucraini ritengano credibili (solo l’America è in grado di darle, con una mutuazione del modello Israele) e che un nuovo governo russo possa accettare. Il che significa prevedere una qualche forma di compensazione per Mosca (lasciando aperto il futuro della Crimea, per esempio?).
Ma siamo molto lontani da tutto ciò: per ora conta che il sostegno occidentale tenga, sfilarsi dalla partita ucraina equivarrebbe a una resa anche dell’Europa e degli Stati Uniti, dopo la quantità di aiuti militari e finanziari impegnati. La posta in gioco è diventata troppo alta per tutti.
Aspenia 3-2023 MIGRANT WATCH
IL RITORNO DELLE GRANDI MIGRAZIONI
Tornano ad aumentare le migrazioni irregolari nel Mediterraneo, dal Nord Africa verso l’Europa e – come sempre accade – anche l’attenzione di politici, esperti e opinione pubblica europei si sposta verso il nostro mare.
Non c’è dubbio: l’aumento del numero di barche e la ripresa in grande stile della industria delle migrazioni irregolari
, trapiantatasi dalla Libia alla Tunisia in quest’ultimo anno, è un problema o come minimo una sfida. Non soltanto perché l’arrivo in massa di queste persone va gestito, dalla prima accoglienza alla valutazione della eventuale richiesta d’asilo, fino al sostegno al loro inserimento in società o all’espulsione (che, va ricordato, non equivale all’avvenuto rimpatrio). Ma anche perché gli sbarchi sono altamente visibili – si pensi alle piccole imbarcazioni in ferro che, nei recenti sciami di arrivi a Lampedusa, si incagliano sugli scogli – e questo ha di fatto offerto negli anni un ottimo strumento retorico a chi partecipa al dibattito politico italiano ed europeo.
Per capire cosa sta succedendo sulle coste italiane, ma anche le ragioni per cui l’Europa continua ad avvitarsi su risposte di policy in bilico tra pragmatismo e schizofrenia, bisogna provare a ripartire dall’inizio. Dai numeri, dunque. E da quello che è cambiato tra le crisi migratorie
di ieri e quella di oggi.
COSA C’È DI DIVERSO DALLA VOLTA SCORSA
. L’aumento degli sbarchi degli ultimi tre anni è un fenomeno che interessa quasi esclusivamente la rotta del Mediterraneo centrale, quella che collega i paesi del Nord Africa (principalmente Libia e Tunisia) all’Italia. L’ultima impennata di arrivi irregolari che l’Italia sta vivendo (161.000 migranti sbarcati negli ultimi 12 mesi, tra settembre 2022 e agosto 2023) è ormai pienamente paragonabile per entità al periodo di alti arrivi del 2014-2017, quando in media erano sbarcati 156.000 migranti l’anno.
Eppure, malgrado le vicinanze numeriche, molto è cambiato. Riflettere su questi cambiamenti aiuta a descrivere le recenti evoluzioni dei trend migratori regionali, a comprendere le cause che spingono i migranti africani a tentare pericolose traversate del deserto del Sahara e del Mar Mediterraneo, e a valutare l’efficacia delle risposte politiche dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Una prima differenza è costituita dal fatto che oggi i punti di partenza dei viaggi sono decisamente più disseminati lungo le coste nordafricane (Figura 1). Nel periodo 2014-2017, quasi il 90% di coloro che riuscivano a raggiungere l’Italia in maniera irregolare lo faceva partendo dalla Libia, e con il passare del tempo queste partenze si erano sempre più concentrate attorno alle sue coste occidentali. Nel 2017, per esempio, quasi tutte le partenze avvenivano da una striscia di terra di 90 chilometri che si estende in direzione est-ovest da Tripoli a Zuara, una città vicino al confine con la Tunisia. Dalla ripresa degli sbarchi nel 2020, invece, Tunisia e Libia si contendono il primo posto come punto di partenza, tanto che se nel 2022 dalla Libia era partito il 51% e dalla Tunisia il 31% degli sbarcati in Italia, negli ultimi dodici mesi il rapporto si è invertito e siamo al 56% dalla Tunisia e al 35% dalla Libia. All’interno della Libia, l’UNHCR stima che la maggior parte di coloro che sono arrivati in Italia negli ultimi dodici mesi non si sia imbarcato dalla Tripolitana ma dalla Cirenaica, la metà orientale del paese, controllata dal Feldmaresciallo Khalifa Haftar e dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk. Una diffusione
delle partenze irregolari, insomma, sintomo di un processo che da concentrato si fa più esteso e sfuggente.
Figura 1 – Sbarchi in Italia per punto di partenza
Figura 1 – Sbarchi in Italia per punto di partenzaFonte: elaborazioni su dati ministero dell’Interno.
La seconda differenza riguarda la velocità alla quale i numeri sono cresciuti negli ultimi anni. Durante la precedente crisi migratoria
l’aumento delle partenze di migranti dalle coste del Nord Africa aveva impiegato pochissimo tempo per materializzarsi, tra il 2013 e il 2014. Questa volta, invece, ci sono voluti diversi anni e la crescita è stata graduale e più costante tra l’aprile 2020 e oggi. Dietro al recente aumento degli arrivi sembrano, inoltre, pesare molto alcuni fattori economici e meno le crisi politiche o le persecuzioni personali. Non sorprende per esempio come la risalita sia iniziata pochi mesi dopo che la pandemia ha compresso molto i redditi degli abitanti dei paesi africani più dipendenti dal turismo, nel 2020. Questo è stato particolarmente evidente per un paese come la Tunisia che dal turismo e dal suo indotto ricava circa il 10% del proprio PIL, e che impiega in questo settore circa il 12% della sua popolazione attiva. Mentre la recessione post-pandemica cominciava a sfumare, l’invasione russa dell’Ucraina e la conseguente impennata dei prezzi di energia e cibo hanno messo seriamente sotto pressione, di nuovo, proprio gli abitanti di quei paesi africani in cui il Covid-19 aveva già causato il primo aumento dei tassi di povertà in trent’anni.
Un’ultima differenza con il 2014-2017, che negli ultimi mesi è invece diventata una somiglianza, ha a che vedere con la composizione delle nazionalità degli sbarcati tra il 2020 e il 2022. Nel periodo 2014-2017, quasi l’80% di tutti gli arrivi di migranti irregolari lungo la rotta del Mediterraneo centrale era costituito da cittadini di paesi dell’Africa subsahariana, soprattutto dell’Africa occidentale. Tra il 2020 e la prima metà del 2022, invece, i processi migratori si sono regionalizzati
, con un forte aumento di arrivi da parte di tunisini ed egiziani. Anche qui è molto chiaro l’effetto della doppia crisi, pandemia prima e invasione dell’Ucraina poi. Mentre la pandemia tendeva a ridurre la mobilità delle persone, rallentando
chi si trovava più lontano, le persone che vivevano già in prossimità dei punti di partenza lungo i paesi dell’Africa settentrionale sono state spinte a raggiungere l’Europa proprio dalle crisi. Con il passare del tempo, e in particolare con lo sviluppo in Tunisia di una filiera per il traffico dei migranti che inizialmente serviva quasi solo ai tunisini, le persone che vivevano più lontane dalle coste del Mediterraneo hanno avuto sia il tempo per raggiungerle sia l’opportunità di farlo sapendo che un passaggio si era riaperto (Figura 2). Ecco perché, se tra il 2017 e il 2021 le persone che arrivavano dalla Tunisia