Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Distopia dell'eurozona: Pensiero di gruppo e negazione su larga scala
Distopia dell'eurozona: Pensiero di gruppo e negazione su larga scala
Distopia dell'eurozona: Pensiero di gruppo e negazione su larga scala
E-book827 pagine11 ore

Distopia dell'eurozona: Pensiero di gruppo e negazione su larga scala

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Al momento, l'Europa è intrappolata in un pensiero di gruppo neoliberale distruttivo che si manifesta come una negazione su larga scala. Per ripristinare la prosperità e la speranza è necessario evadere da questa prigione.
Questo libro esamina criticamente le opzioni che le nazioni dell'eurozona hanno a disposizione per affrontare la crisi sociale ed economica che le ha tormentate dal 2008.
LinguaItaliano
EditoreLola Books
Data di uscita14 feb 2022
ISBN9783944203621
Distopia dell'eurozona: Pensiero di gruppo e negazione su larga scala

Correlato a Distopia dell'eurozona

Ebook correlati

Economia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Distopia dell'eurozona

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Distopia dell'eurozona - William Mitchell

    1

    INTRODUZIONE

    GROUPTHINK (PENSIERO DI GRUPPO)

    …un modello di pensiero caratterizzato dall’autoinganno, dalla fabbricazione forzata del consenso e dalla conformità ai valori e all’etica del gruppo. (dizionario online della Merriam Webster)

    We bouwen op drijfzand [Stiamo costruendo sulle sabbie mobili]. (André Szász, ex direttore della Banca dei Paesi Bassi, 1999)

    Questo libro esamina criticamente le opzioni che le nazioni dell’eurozona hanno a disposizione per affrontare la crisi sociale ed economica che le ha tormentate dal 2008. Il libro chiarisce queste opzioni all’interno di una comprensione storica del percorso intrapreso per creare l’Unione economica e monetaria (UEM). L’esperienza storica mette in evidenza le difficoltà che affrontano nazioni con strutture economiche molto diverse e una mancanza di solidarietà culturale quando cercano di fissare i tassi di cambio e di adottare una moneta comune. Ci permette anche di capire come il crescente predominio dell’economia neoliberale negli anni 80 si sia intersecato con la rivalità franco-tedesca del secondo dopoguerra per creare un pensiero di gruppo distruttivo che, sulla base di motivi ideologici, mina la prosperità, nega la realtà e rifiuta di applicare soluzioni possibili contro la crisi.

    Ci sono opzioni migliori dell’austerità, anche all’interno della moneta comune. Ma se si vuole raggiungere una prosperità sostenibile, allora la zona euro dovrebbe essere smantellata in modo ordinato e le valute nazionali dovrebbero essere ripristinate. Se un tale sviluppo non può essere negoziato tra gli Stati membri, allora l’opzione migliore per nazioni come Italia, Grecia, Spagna e così via è quella di uscire unilateralmente dall’UEM e ripristinare la propria sovranità.

    I grandi visionari europei nell’immediato dopoguerra non volevano costringere le economie europee in una camicia di forza di austerità e stenti. Essi miravano piuttosto a raggiungere la prosperità in tempo di pace. I leader politici europei concepirono il progetto europeo come un piano ambizioso per l’integrazione europea, per garantire che non ci fossero più conflitti militari su larga scala combattuti sul suolo europeo. Il progetto è iniziato in un periodo in cui nelle nazioni avanzate c’era un ampio consenso nei confronti della politica economica keynesiana e i relativi governi erano impegnati a sostenere la piena occupazione.

    L’era keynesiana è emersa dalla Grande Depressione, la grande crisi che ha insegnato ai politici che senza un grande intervento del governo il capitalismo è intrinsecamente instabile e soggetto a lunghi periodi di disoccupazione. La piena occupazione arrivò solo con l’inizio della Seconda guerra mondiale, quando i governi hanno utilizzato la spesa per il deficit con lo scopo di perseguire lo sforzo bellico. L’era keynesiana della politica macroeconomica che ne è seguita è stata quindi segnata da deficit governativi che integravano la spesa privata per garantire che tutti coloro che volevano lavorare potessero trovare un impiego. L’ampio consenso politico ed economico emerso dopo la guerra portò a livelli molto bassi di disoccupazione nella maggior parte delle nazioni occidentali; questa situazione persistette fino alla metà degli anni 70, anche se in alcune nazioni europee si verificò un aumento sostenuto della disoccupazione come conseguenza della necessità di difendere le loro valute più deboli.

    All’interno di questo ampio consenso politico, le discussioni sull’integrazione sono state condizionate dalla rivalità franco-tedesca. La Francia era determinata a creare strutture istituzionali che impedissero alla Germania di invaderla di nuovo. Vedeva nell’Europa integrata un modo per consolidare un ruolo dominante negli affari europei, ma era determinata a raggiungere questo obiettivo cedendo la minor quota possibile di sovranità nazionale. La Francia era inoltre risentita dell’influenza che gli Stati Uniti stavano esercitando in Europa, in particolare attraverso il piano Marshall che legava intrinsecamente la Germania occidentale agli Stati Uniti.

    I tedeschi, soffrendo di una profonda vergogna per il loro passato militarismo e le azioni a esso associate, hanno potuto contare solo sul loro successo economico, compresa la disciplina della Bundesbank, per generare un orgoglio nazionale. Oltre alla necessità di espandere i propri mercati di esportazione, la Germania voleva far parte del progetto europeo per dimostrare di aver rifiutato voltato pagina rispetto al suo brutto passato. Tuttavia il timore ossessivo dell’inflazione ha fatto sì che questa partecipazione dovesse avvenire alle condizioni tedesche, il che significava che la nuova Europa avrebbe dovuto accettare la cultura della Bundesbank. Ciò diede vita a un processo logorante. All’interno del contesto di stabilità tedesco, sembrava che si trascurasse il fatto che la prosperità tedesca, in realtà, si basava su una robusta crescita delle importazioni da altre nazioni europee. Il fatto che non tutte le nazioni in un contesto di stabilità incentrato sulla Bundesbank potessero avere un surplus della bilancia commerciale è stato ignorato.

    Dopo la Seconda guerra mondiale, le nazioni avanzate hanno anche accettato di fissare i loro tassi di cambio rispetto al dollaro USA, che a sua volta era legato al prezzo dell’oro, perché credevano che ciò avrebbe portato stabilità economica. Ma il cosiddetto sistema di Bretton Woods, istituito nel luglio 1944, fu sotto pressione fin dall’inizio perché i paesi con deficit commerciali dovevano sempre affrontare una pressione al ribasso sulle loro valute. Per mantenere i loro tassi di cambio dovevano: acquistare le proprie valute sui mercati dei cambi utilizzando le proprie riserve di valuta estera, spingere al rialzo i tassi di interesse interni per attirare l’afflusso di capitali e costringere la spesa pubblica a contenere le importazioni. Le nazioni con le valute più deboli si trovavano quindi spesso a dover affrontare tassi di crescita recessivi, l’aumento della disoccupazione e l’esaurimento delle riserve di valuta estera, e questo creava instabilità politica. Per essere efficace il sistema richiedeva che le nazioni avessero una forza commerciale più o meno simile, il che era ovviamente impossibile e alla fine questa impossibilità si è rivelata la causa del fallimento.

    La rivalità franco-tedesca ha strutturato una serie di compromessi poco efficaci sulla via dell’unione monetaria. Il Trattato di Roma del 1957 fu fortemente condizionato a favore della Francia occupata a scapito degli aggressori, Germania e Italia. Ma la crescente forza industriale e di esportazione della Germania divenne una minaccia sempre più significativa per l’economia francese. L’ambizione industriale tedesca richiese alla Francia di scendere a compromessi con la propria feroce resistenza a cedere qualsiasi sovranità nazionale in favore di un’entità di livello europeo. La prima esperienza con la Politica Agricola Comune (PAC), introdotta nel 1962 come prima grande iniziativa della neonata CEE, avrebbe dovuto insegnare alle nazioni europee che entrare in un’unione monetaria sarebbe stato un esercizio arduo. La Francia voleva proteggere gli agricoltori francesi e la Germania voleva espandere il proprio mercato delle esportazioni industriali. Per raggiungere i loro obiettivi, i tedeschi hanno accettato di fornire sussidi ai contadini francesi attraverso la PAC: una tensione tutt’oggi logorante. Tuttavia la fattibilità amministrativa della PAC avrebbe richiesto un contesto di tassi di cambio molto stabile, perché tutta la Comunità avrebbe dovuto sostenere una miriade di costi legati all’agricoltura. Una volta che gli Stati membri si sono bloccati nella PAC, sono stati intrappolati anche dal compito impossibile di mantenere i tassi di cambio fissi. La crescita della forza delle esportazioni tedesche negli anni 60 fece del marco la valuta europea più forte, ciò mise Francia e Italia sotto costante pressione di svalutazione e di stagnazione interna, minando la stessa PAC. I vari accordi per il mantenimento di parità fisse tra le valute europee sono tutti falliti a causa della diversa forza di esportazione degli Stati membri. Ma invece di prendere la sensata decisione di rinunciare ai tassi di cambio fissi, quando nel 1971 il sistema di Bretton Woods è crollato i leader politici europei hanno accelerato il passaggio a una moneta comune. Il fiasco di Bretton Woods avrebbe dovuto insegnare qualcosa.

    Il Rapporto Werner del 1970 delineava un calendario dettagliato per la creazione di un’unione economica e monetaria completa entro la fine del decennio. Era chiaro che il Comitato voleva che la politica monetaria e fiscale fosse centralizzata con il centro delle decisioni di politica economica… [affinché]… sia politicamente responsabile nei confronti di un Parlamento europeo (Rapporto Werner, 1970: 13). Nel 1975 un successivo studio del Comitato MacDougall sottolineava inoltre che un’unione economica e monetaria efficace avrebbe richiesto una forte presenza fiscale a livello federale. Essi valutarono che è molto improbabile che per i prossimi anni a venire la Comunità sia così pienamente integrata nel campo della finanza pubblica quanto le attuali unioni economiche che abbiamo studiato (Rapporto MacDougall, 1977: 11).

    Ci sono molte spiegazioni contrastanti sul perché il piano di Werner non si sia concretizzato, ma la ragione di fondo è che in un’epoca di crescente instabilità monetaria la paura francese del dominio tedesco e la loro riluttanza a cedere il potere alle istituzioni sovranazionali, unite all’ossessione tedesca per l’inflazione, hanno ostacolato questo processo. Le due nazioni potevano chiaramente trovare il modo di cooperare a livello politico, ma cercare di formare un’unione economica e monetaria era difficile. Nel 1972 il governatore della Banca centrale danese disse: Comincerò a credere nell’unione economica e monetaria europea quando qualcuno spiegherà come si controllano nove cavalli che corrono tutti a velocità diverse con la stessa bardatura (McAllister, 2009: 58).

    Nel 1972 lo psicologo sociale Irving Janis ha delineato un comportamento di gruppo che ha definito groupthink (pensiero di gruppo), che è un modo di pensare in cui le persone si impegnano quando sono profondamente coinvolte in un gruppo coeso, quando i membri che si sforzano di raggiungere l’unanimità prevalgono sulla loro motivazione a valutare realisticamente le possibilità di azioni alternative (Janis, 1982: 9). Questo richiede che ogni membro eviti di sollevare questioni controverse (Janis, 1982: 12). Il pensiero di gruppo comporta una sorta di regola mafiosa che mantiene la disciplina all’interno del gruppo o della comunità dei decisori. Queste comunità sviluppano una cultura dominante che infonde nei suoi membri un senso di appartenenza e uno scopo comune, ma li rende anche ignari e ostili a modi di pensare nuovi e migliori. Il pensiero di gruppo diventa evidente al mondo esterno quando c’è una crisi o, per dirla con le parole di Janis, un fiasco, come la crisi finanziaria globale (CFG).

    Ciò che alla fine ha permesso di mettere insieme i nove cavalli non è stata una diminuzione della rivalità nazionale e culturale franco-tedesca, ma una crescente omogeneizzazione del dibattito economico. L’impennata del pensiero monetarista in seno alla macroeconomia negli anni 70, prima all’interno dell’accademia, poi nel campo della politica e delle banche centrali, si trasformò rapidamente in un pensiero di gruppo insulare, che intrappolò i responsabili politici nel mito dell’autoregolamentazione e del libero mercato. La conferma condizionata che ne è derivata, ovvero la tendenza delle persone a notare solo informazioni coerenti con le proprie aspettative e a ignorare informazioni che non sono coerenti con esse (IEO, 2011: 17), ha travolto il dibattito sull’integrazione monetaria. L’introduzione nel 1976, durante la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing, del Piano Barre d’ispirazione monetarista, da parte del Primo ministro francese Raymond Barre, ha mostrato quanto i francesi si fossero allontanati dai loro giorni keynesiani gollisti. In tutta Europa la disoccupazione divenne uno strumento politico volto a mantenere la stabilità dei prezzi e la sua riduzione smise di essere un obiettivo politico, come lo era stato durante l’era keynesiana fino alla metà degli anni 70. La disoccupazione aumentò notevolmente quando i governi nazionali, infestati dal pensiero monetarista, iniziarono la loro lunga storia d’amore con l’austerità.

    Il Rapporto Delors (1989), che caratterizzò la conferenza di Maastricht, ignorava le conclusioni dei Rapporti Werner e MacDougall sulla necessità di una forte funzione fiscale federale perché rappresentavano un pensiero keynesiano vecchio stile, non più tollerabile all’interno del pensiero di gruppo monetarista che aveva preso il sopravvento sul dibattito europeo. La nuova stirpe di élite finanziarie, che avrebbe guadagnato molto dalla deregolamentazione da loro richiesta, promosse il riemergere dell’ideologia del libero mercato che era stata screditata durante la Grande Depressione. Il passaggio da una visione collettiva keynesiana della piena occupazione e dell’equità a questa nuova regola mafiosa e individualistica era guidato da una prepotenza ideologica e da interessi settoriali ristretti anziché da intuizioni basate sull’autorità dei fatti e da una preoccupazione per la prosperità della società.

    Il disprezzo monetarista (neoliberista) per l’intervento del governo ha fatto sì che l’UEM sopprimesse la capacità della politica fiscale, e nessun argomento o prova che indicasse che una tale scelta avrebbe portato alla crisi avrebbe distratto Delors e la sua squadra da questo obiettivo. Delors sapeva che avrebbe potuto placare l’esigenza politica francese di evitare di consegnare a Bruxelles il potere decisionale dissimulando questo obiettivo dietro la necessità di mantenere la responsabilità nazionale in materia di politica economica. Sapeva anche che le dure regole fiscali da lui proposte, che limitavano la libertà di manovra dei governi nazionali, avrebbero soddisfatto i tedeschi. Il monetarismo aveva fatto da ponte tra i due campi.

    All’epoca l’intero processo era ammantato da un’atmosfera surreale.

    Per apprezzare appieno le opzioni disponibili per l’eurozona, la discussione deve essere inquadrata in un quadro economico valido. Mentre la scarsa motivazione politica non può essere ignorata, una parte importante del problema che attualmente affligge le nazioni dell’eurozona deriva dall’applicazione di un quadro macroeconomico imperfetto che è stato utilizzato dai funzionari e dai loro padroni politici fin dagli anni 80.

    L’eurozona è ora bloccata in una camicia di forza di austerità economica, guidata da un’ideologia economica cieca all’evidenza del proprio fallimento. Le politiche neoliberali di deregolamentazione e la demonizzazione dell’uso dei deficit fiscali discrezionali (spesa pubblica superiore al gettito fiscale) hanno creato inizialmente la crisi, e ora lo stesso tipo di politica la sta prolungando. L’attuale approccio politico ha istituzionalizzato la stagnazione economica, i diffusi tagli alla spesa, il deterioramento delle condizioni di lavoro e delle pensioni. Milioni di lavoratori europei sono ora disoccupati, i tassi di disoccupazione giovanile si aggirano intorno al 60% in alcune nazioni avanzate, i tassi di disuguaglianza e di povertà sono in aumento, e si assiste a massicce perdite giornaliere di reddito nazionale. I tassi di disoccupazione giovanile, drammaticamente elevati, garantiranno che i danni si estenderanno a tutte le generazioni e mineranno la prosperità futura quando una coorte di giovani disoccupati entrerà nell’età adulta senza esperienza lavorativa e con un crescente senso di estraneità rispetto alle norme sociali tradizionali.

    Le élite politiche dell’eurozona sostengono che non c’è alternativa (There Is No Alternative, TINA) se non quella di imporre una maggiore austerità riducendo i deficit fiscali e imponendo ingenti tagli ai sistemi di welfare sociale. I principali partiti politici della maggior parte delle nazioni, al governo come all’opposizione, hanno accettato senza porre resistenza il dominio dell’ideologia neoliberale, che non solo ha uniformato il dibattito politico, ma ha anche oscurato le uniche strade credibili per la ripresa. Una corretta valutazione dello stato attuale indica che i deficit fiscali devono aumentare. L’austerità è esattamente l’opposto della risposta politica necessaria. Una ripresa sostenuta nell’eurozona e altrove richiede un rifiuto categorico della teoria e della pratica macroeconomica tradizionale e una riorganizzazione delle strutture istituzionali per consentire l’aumento del deficit. La valutazione è che questo può essere fatto solo se l’unione viene smantellata.

    Questo libro rifiuta il mantra TINA che è stato un potente quadro organizzativo usato dai conservatori per promuovere il mito secondo cui la disciplina fiscale e la diffusa deregolamentazione permettano un libero mercato in grado di massimizzare la ricchezza per tutti. La posizione sostenuta in questo libro è abbastanza semplice, anche se i concetti su cui si basa non lo sono. Il quadro economico neoliberale promosso con vigore da molti economisti, dalle agenzie multinazionali come il Fondo monetario internazionale (FMI) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), oltre che da politici conservatori tra cui l’establishment dell’eurozona a Bruxelles e Francoforte, acceca gli occhi dell’opinione pubblica su alternative realistiche, limitando i confini del dibattito pubblico attraverso l’uso di priorità selettive, causalità indebite e scandalose rappresentazioni fuorvianti della realtà. Per questo, prima di poter apprezzare veramente le alternative è necessario riformulare la visione economica di fondo. Le alternative reali e migliori dell’attuale austerità fiscale sono troppo facilmente liquidate come ingenue, irrealistiche o semplicemente folli, se sono viste e valutate attraverso la lente economica neoliberale.

    La principale ipotesi di questo libro è che le élite politiche europee – i politici, le burocrazie di supporto, le banche centrali e i consulenti esperti – rimangano intrappolate nel pensiero di gruppo neoliberale che ha creato il mostro dell’euro. È una dinamica di gruppo che resiste al cambiamento e spiega l’evidente disinteresse per percorsi politici alternativi che potrebbero ripristinare la crescita.

    Il biologo americano Joseph Altman si è specializzato in neurobiologia e ha scoperto la neurogenesi degli adulti negli anni 60. Egli dimostrò che i cervelli adulti potevano creare nuovi neuroni, ma l’idea fu ferocemente negata dai suoi contemporanei. Solo quando il fenomeno fu riscoperto da un’altra scienziata (Elizabeth Gould nel 1999) l’ipotesi diventò di moda. Oggi la neurogenesi è una delle aree più significative delle neuroscienze. Perché le scoperte di Altman sono state ignorate per quasi 30 anni? Charles Gross scrisse nel 2008 che il dogma di ‘nessun nuovo neurone’ era universalmente sostenuto e vigorosamente difeso dal più potente e principale anatomista dello sviluppo dei primati del suo tempo (Gross, 2008: 331).

    L’esempio di Altman ci aiuta a comprendere il perdurare della crisi all’interno dell’UEM. In primo luogo, le discipline accademiche (come la neurobiologia, l’economia e così via) lavorano all’interno di paradigmi organizzati che il filosofo Thomas Kuhn ha identificato come conquiste scientifiche universalmente riconosciute che per un certo periodo forniscono problemi e soluzioni modello per una comunità di professionisti (Kuhn, 1996: X). In genere, il corpus di conoscenze che definisce il paradigma è raccontato… da libri di testo scientifici, elementari e avanzati (Kuhn, 1996: 10). Kuhn ha messo in discussione l’idea secondo cui l’attività scientifica è un processo lineare, in cui gli studiosi aggiungono alla base della conoscenza nuovi fatti supportati empiricamente che sostituiscono le nozioni precedentemente accettate. Anzi, Kuhn ha detto che i punti di vista dominanti persistono fino a quando non si trovano di fronte ad anomalie insormontabili che provocano una rivoluzione (cambiamento di paradigma). Il nuovo paradigma dimostra l’inapplicabilità delle vecchie teorie, introduce nuovi concetti, pone nuove domande e fornisce agli studenti un nuovo modo di pensare con delle metafore esplicative e dei linguaggi inediti. Una volta soppiantate, le vecchie teorie non sono più considerate conoscenze valide. Kuhn ha anche notato che c’è una sorta di regola mafiosa tra i praticanti all’interno di un paradigma dominante: essi mantengono con veemenza il loro punto di vista anche di fronte all’anomalia logica o empirica. Il gruppo dominante rimane intrappolato nel pensiero di gruppo teorizzato da Janis e inizialmente diffama coloro che propongono nuovi modi di pensare. Il lavoro di Altman ha rappresentato il potenziale per un cambiamento di paradigma ed è stato respinto dalla regola mafiosa fino a quando il cambiamento non è diventato ineluttabile.

    Imre Lakatos ha esteso la nozione di comunità scientifica proposta da Kuhn introducendo il concetto di programma di ricerca, che consisteva in uno zoccolo duro (teorie che definiscono il paradigma), presupposti ausiliari (la cintura protettiva) e regole metodologiche o euristiche (Lakatos, 1970). Lo zoccolo duro è simile a un credo religioso, in quanto non è mai sottoposto a un esame empirico da parte del gruppo ed è protetto dall’euristica. Esso definisce ciò che il gruppo rappresenta. L’euristica positiva definisce le attività di ricerca quotidiane, le domande ammissibili che possono essere esplorate e i metodi di ricerca che sono accettabili. È lecito contestare alcune delle ipotesi ausiliarie, dato che di per sé, plausibili o meno, non costituiscono una minaccia per le teorie fondamentali. Il nucleo è protetto dall’euristica negativa, che essenzialmente vieta di porre certe domande e di ammettere forme di indagine o prove, anche quando vengono prodotte schiaccianti prove contrarie. Si potrebbe pensare a tutto ciò come a una negazione. Per un certo periodo, un programma di ricerca mantiene il predominio perché aggiunge contenuto, che è considerato un progresso della conoscenza ed è di interesse per il gruppo. A un certo punto un programma di ricerca può diventare degenerativo in quanto il suo contenuto diminuisce di fronte all’aumento dell’anomalia empirica, cioè la teoria non fornisce più una spiegazione adeguata di ciò che le persone sanno e vedono. Ma un programma di ricerca degenerativo può mantenere la sua presa su un gruppo professionale per un periodo prolungato, tanto è forte la resistenza al cambiamento tra coloro che ne fanno parte.

    Poco prima che la CFG rivelasse il suo lato peggiore, Olivier Blanchard, capo economista del FMI, ha passato in rassegna la comprensione che i macroeconomisti avevano del mondo reale e ha affermato che lo stato della macro è buono (Blanchard, 2008: 2). Egli ha affermato che è emersa una visione largamente comune (p. 5) in macroeconomia, con una convergenza metodologica (p. 3) tale che gli articoli di ricerca in macroeconomia sono molto simili tra loro nella struttura, e molto diversi da come erano trent’anni fa (p. 21). Ora seguono regole severe, simili agli haiku (p. 26). Egli ha anche notato che il dominante approccio neokeynesiano alla macroeconomia era diventato un cavallo di battaglia per l’analisi delle politiche e del welfare (p. 8) perché è semplice, analiticamente conveniente… [e]… riduce una realtà complessa a poche semplici equazioni (p. 9). A questi economisti non sembrava importare che nel modello NK di base… non c’è disoccupazione (p. 12), tanto che tutte le fluttuazioni della disoccupazione misurata sono costituite in gran parte da lavoratori che scelgono se lavorare o meno come parte di una cosiddetta scelta ottimale tra lavoro e tempo libero.

    I macroeconomisti mainstream che hanno una smisurata fiducia nella capacità del mercato autoregolamentato di fornire risultati ottimali, che chiameremo approccio neoliberista, avevano dichiarato alcuni anni prima della crisi, con un’arroganza comune alla disciplina, che il ciclo economico è morto. Cioè venivano ora negate le grandi oscillazioni dei risultati macroeconomici (recessioni, disoccupazione di massa, boom e inflazione) che avevano dominato l’attenzione dei responsabili della politica economica nel secondo dopoguerra e che avevano portato alla politica fiscale (la manipolazione della tassazione e della spesa pubblica) come strumento primario utilizzato dai governi per mantenere la piena occupazione e la stabilità dei prezzi. Nel 2003 il professore dell’Università di Chicago Robert Emerson Lucas ha tenuto un discorso straordinario all’Associazione economica americana, in cui ha affermato che la macroeconomia in questo senso originale ha avuto successo: ai fini pratici il problema fondamentale della prevenzione della depressione è stato risolto, e di fatto è stato risolto per molti decenni (Lucas, 2003: 1). Un anno dopo il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, affermò che il mondo stava vivendo una Grande Moderazione, ed era il risultato di un cambiamento politico: i governi non tentavano più di gestire la spesa totale economica variando le impostazioni di politica fiscale, ma utilizzavano piuttosto la politica monetaria (fissazione dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali) per concentrarsi esclusivamente sulla stabilità dei prezzi e sulla ricerca del surplus fiscale (Bernanke, 2004).

    Secondo quanto riportato, le recessioni dannose erano un ricordo del passato e la bassa inflazione e la crescita costante erano ormai la norma. L’opinione pubblica è stata indotta a credere che questi economisti mainstream avessero trionfato sui vecchi interventisti keynesiani che avevano regolamentato eccessivamente l’economia, sottratto agli imprenditori privati lo spirito d’impresa, permesso ai sindacati di diventare troppo potenti e allevato generazioni di individui indolenti e demotivati che aspiravano a vivere solo di sussidi. Secondo la narrazione dominante, dato che il ciclo economico ora era sotto controllo, la politica economica avrebbe dovuto concentrarsi sulla deregolamentazione dei mercati del lavoro e finanziari, oltre che sulla riduzione del sussidio ai disoccupati; ridurre il sostegno al reddito avrebbe permesso al mercato di funzionare più efficacemente. Questo rappresentò una negazione in grande stile. Paul Krugman (2009) ha detto che questi successi hanno definito una sedicente epoca d’oro per la professione. Il paradigma economico maggiormente diffuso era cieco alla possibilità stessa di fallimenti catastrofici in un’economia di mercato (Krugman, 2009), e le sue prescrizioni politiche, basate su una credenza ingiustificata nell’efficienza dei mercati, creavano le circostanze che avrebbero portato alla crisi. Si stava sviluppando la peggiore crisi economica degli ultimi 80 anni, mentre la maggior parte degli economisti era intenta a tessere elogi rinchiusa nel proprio mondo di autocelebrazione e autocompiacimento.

    Questa visione dell’economia domina il mondo accademico, che poi alimenta il l’ambito della politica. Ma la CFG ha reso evidente a tutti che l’economia mainstream è basata su un programma di ricerca degenerativo con poca validità empirica. Krugman (2009) ha detto che la professione dell’economia è andata fuori strada perché gli economisti, come gruppo, hanno scambiato la bellezza, rivestita da matematica di grande effetto, per la verità. L’economista istituzionale americano David Gordon (1972) ha scritto che ogni volta che il paradigma dell’economia mainstream si confronta con prove empiriche che sembrano confutare le sue previsioni di base, crea un’eccezione in risposta all’anomalia e continua come se nulla fosse accaduto. Di conseguenza, i libri di testo di macroeconomia mainstream, che gli studenti sono costretti a usare, contengono ben pochi elementi utili a capire come funziona il mondo reale. Agli studenti vengono forniti falsi resoconti di come funziona il settore finanziario, compreso quello bancario, vengono insegnati diversi miti sull’impatto del governo sui mercati privati e, soprattutto, viene insegnato che se i mercati sono lasciati a sé stessi, i risultati saranno migliori rispetto ad altri scenari che comportano una regolamentazione o una supervisione governativa. Poiché il divario tra teoria ed esiti reali è diventato evidente a tutti, è facile bollare coloro che si aggrappano alle affermazioni teoriche mainstream come adoratori di un culto che hanno perso ogni credibilità scientifica.

    Questi fanatici mantengono la loro egemonia in vari modi, tra cui il controllo dei programmi di insegnamento nelle università, il controllo dei processi di assunzione all’interno dell’accademia, il controllo dei principali mezzi di pubblicazione, il controllo dei principali enti di finanziamento della ricerca e dominando i collegamenti tra l’ambiente accademico, le imprese e il governo. Gran parte del controllo è implicito e realizzato attraverso delle reti che aggirano i controlli esterni, ad esempio la legislazione antidiscriminazione. Jack Barbash ha discusso il modo in cui la professione economica protegge il suo sistema di credenze dalle critiche ed evita, per quanto possibile, di affrontare i problemi del mondo reale. Egli nota che non c’è nessun apparato formalmente coercitivo ma è in funzione l’equivalente di una rete di ’vecchi ragazzi’ (Barbash, 1982: 51). I vantaggi (pubblicazioni, borse di ricerca, promozioni, opportunità di consulenza, influenza, ecc.) spettano a coloro che si conformano alle regole. La socializzazione inizia ai tempi degli studi, dove i maestri del paradigma controllano i curricula, i sistemi di voto e chi ottiene borse di studio post-laurea per proseguire gli studi di dottorato. L’indottrinamento si intensifica quando si entra nel periodo post-laurea. In economia, il laureato impara che il rigore è più importante della sostanza e il metodo è più importante del risultato (p. 52). Ricordate quelle regole tipo haiku che determinano le possibilità di pubblicazione di un articolo di economia?

    Più insidioso è il fatto che l’economia neoliberale privilegi gli interessi del capitale e delle élite finanziarie. Per capire perché c’è così tanta resistenza ad abbandonare le teorie economiche fallite, dobbiamo capire che il paradigma dell’economia mainstream è molto di più di un insieme di teorie con cui i professori di economia indottrinano i loro studenti. Blyth (2013: 100) osserva che queste teorie economiche mainstream sanciscono differenti distribuzioni di ricchezza e potere e sono risorse di potere per coloro le cui rivendicazioni di autorità e di reddito dipendono dalla loro credibilità, il che spiega, in parte, perché ci sia tanta resistenza ad abbandonarle, anche se è chiaro che sono prive di qualsiasi fondamento.

    Storicamente, il corpus teorico che oggi rappresenta l’economia neoliberale è stato sviluppato per la prima volta alla fine del XIX secolo come antidoto contro la crescente influenza del marxismo, in particolare in Europa. Il messaggio di Marx secondo cui il profitto era il compenso per la proprietà del capitale, non un compenso per qualsiasi contributo alla produzione, risuonava fortemente nei lavoratori. La capacità dei proprietari del capitale di impossessarsi del surplus del lavoro dei lavoratori era un’idea pericolosa. I lavoratori consideravano questa caratteristica essenziale del capitalismo come palesemente ingiusta e le proteste sempre più violente minacciavano la capacità del capitale di mantenere la sua posizione d’élite rispetto alla grande maggioranza della popolazione. Occorreva trovare una soluzione. Gli industriali reclutarono economisti per sviluppare teorie che facessero apparire il capitalismo come un input produttivo equo e gratificante in proporzione al suo contributo alla produzione finale. In seguito queste teorie furono perfezionate per attaccare la politica del governo che mirava a redistribuire il reddito nazionale. Eppure per tutto questo lasso di tempo gli interessi di coloro che possedevano o servivano il capitale venivano fatti progredire a scapito dei meno favoriti.

    Questo ci porta alla seconda ragione per cui il caso Altman interessa a chiunque cerchi di capire perché l’UEM si ritrova in un tale casino. Il pensiero neoliberale di gruppo che domina la politica economica in Europa è un caso di negazione su larga scala. Non solo ha creato le strutture economiche e il contesto politico che hanno generato la crisi, ma ha anche portato a una risposta politica che ha garantito che i costi massicci continueranno a essere sostenuti per generazioni mentre i problemi rimangono irrisolti. Era ovvio che l’eurozona fosse condannata fin dall’inizio e ora la stessa ideologia neoliberale si spaccia come soluzione. Il pensiero di gruppo sopprime il pensiero alternativo e le prove che sono contrarie ai punti di vista dominanti.

    Nel 2011 l’Ufficio di valutazione indipendente (Independent Evaluation Office, IEO) del FMI ha pubblicato un’interessante valutazione dei risultati dell’istituzione alla vigilia della CFG (IEO, 2011). L’IEO ha detto: Avvertire i paesi membri sui rischi per l’economia globale e sull’accumulo di vulnerabilità nelle loro economie è probabilmente lo scopo più importante della sorveglianza del FMI (IEO, 2011: vii). Tuttavia, l’IEO ha identificato nel FMI alcuni condizionamenti ideologici neoliberali che non gli hanno permesso di avvertire adeguatamente dell’imminente CFG perché ostacolato da un alto grado di pensiero di gruppo (p. 17), che tra le altre cose ha soppresso le opinioni contrarie in cui anche una cultura insulare ha giocato un ruolo importante (p. 17). Il rapporto afferma che le debolezze analitiche sono al centro di alcune delle più evidenti carenze nella sorveglianza del FMI (p. 17) come risultato della tendenza tra gruppi omogenei e coesi a considerare le questioni solo all’interno di un certo paradigma e a non mettere in discussione le sue premesse di base (p. 17).

    L’opinione prevalente tra il personale del FMI – un gruppo coeso di macroeconomisti – era che la disciplina di mercato e l’autoregolamentazione sarebbero state sufficienti per evitare gravi problemi nelle istituzioni finanziarie. Essi ritenevano inoltre che le crisi fossero improbabili nelle economie avanzate, dove i mercati finanziari sofisticati potevano prosperare in modo sicuro con una regolamentazione minima di un’ampia e crescente parte del sistema finanziario. (p. 17)

    Il rapporto di valutazione esterna afferma che gli economisti del FMI tendono a tenere in massima considerazione (p. 18) modelli economici del mondo che si sono dimostrati inadeguati (i cosiddetti modelli dinamici stocastici di equilibrio generale). Willem Buiter (2009) ha descritto questi modelli economici come inutili distrazioni autoreferenziali e chiuse su sé stesse, nel migliore dei casi, che escludono tutto ciò che è rilevante per il perseguimento della stabilità finanziaria.

    L’economista Robert Schiller (2008), secondo cui il pensiero di gruppo spiega perché i gruppi di esperti potrebbero commettere errori colossali, include anche i banchieri delle banche centrali in questo comportamento autocensurante in cui i cani sciolti sono sottoposti a forti pressioni se mettono in discussione il consenso del gruppo. Per esempio la Federal Reserve degli Stati Uniti attraverso la sua vasta rete di consulenti, studiosi in visita presso le università, ex studenti e il suo team di economisti, domina così a fondo il campo dell’economia che per i membri della professione le vere critiche alla banca centrale sono diventate un rischio per la loro carriera (Grim, 2009). La Federal Reserve non solo finanzia un’enorme quantità di consulenti economici non assunti, ma tiene sul proprio libro paga molti degli influenti redattori di importanti riviste accademiche (Grim, 2009). Controllando ciò che viene pubblicato sulle principali riviste, la banca influenza anche la traiettoria della carriera degli economisti, e quindi sopprime le ricerche indipendenti che potrebbero essere critiche sul modo in cui opera la banca centrale. La Federal Reserve ha una intolleranza per il dissenso, cosa che il noto economista Alan Blinder ha scoperto rapidamente, dopo essere entrato in banca come vicepresidente. È durato circa 18 mesi dopo che molti alti dirigenti… si sono incazzati… [perché]… non giocava secondo le consuetudini a cui erano abituati (Grim, 2009). Il suo peccato? Ha fatto troppe domande e ha messo in discussione troppe ipotesi. Anche un critico moderato della banca, Paul Krugman, ha riferito di essere stato bocciato dalla conferenza estiva della Fed presso la Jackson Hole… da quando ho criticato il governatore Alan Greenspan (Democracy Now!, 2007).

    Alcuni economisti hanno (giustamente) osservato che la mancanza di una capacità fiscale federale e le restrizioni vincolanti sulla politica fiscale dei governi nazionali avrebbero portato l’UEM verso una bassa crescita e una disoccupazione costantemente elevata e, in ultima analisi, avrebbero fatto sì che il sistema non fosse in grado di resistere a un grande crollo della spesa come quello che ha colpito l’economia mondiale nel 2008. Ma il pensiero di gruppo ha eretto un muro di negazione e i politici europei sono riusciti a convincere la gente che, mantenendo la disciplina dei prezzi, la crescita economica sarebbe stata massimizzata. La CFG ha messo in evidenza quanto fosse ridicolo questo mantra. Ma coloro che hanno osato mettere in discussione la supremazia monetarista dell’epoca, e hanno invece sostenuto i rimedi keynesiani per ridurre la radicata disoccupazione europea, sono stati accolti con derisione dalla maggior parte degli economisti che aveva abbracciato la nuova teoria economica e le sue implicazioni politiche.

    Inoltre, insistendo sull’unione economica e monetaria in questi termini, e imponendo poi un’austerità autolesionista alle nazioni che più soffrono di quel disegno disfunzionale, le élite politiche europee hanno rovinato il progetto europeo che si stava costruendo da lunga data. La Germania si era reinventata con successo come un buon cittadino europeo, dopo il suo disastroso e criminale comportamento durante la Seconda guerra mondiale. Ma come percepito esecutore dell’austerità, la Germania è ora di nuovo diffamata: il cattivo tedesco è tornato. I membri non eletti dell’élite economica a Bruxelles e a Francoforte, aiutati e sostenuti dai funzionari irresponsabili del FMI, oggi esercitano la loro influenza su chi rimane in carica politica in alcune nazioni (per esempio, la nomina di Lucas Papademos in Grecia). All’inizio i cittadini sono stati costretti dai loro leader politici ad accettare l’euro e tutto ciò che ne è derivato, e ora gli stessi leader vengono visti procedere a testa bassa verso la troika per preservare la loro egemonia, imponendo ai cittadini un indicibile disagio sociale ed economico. Proliferano espressioni apertamente razziste (per esempio, le narrazioni sui greci pigri). Ora i media e i politici impiegano regolarmente il linguaggio della punizione, con la cooperazione che cede il passo all’ostilità, al risentimento e alla rottura dell’ordine sociale.

    Queste tensioni si sono espresse in occasione delle elezioni del Parlamento europeo nel 2014, mentre i partiti anti-austerity agli estremi dello spettro politico stanno riscuotendo uno straordinario successo in diversi paesi. La maggioranza del Parlamento rimane a favore dell’UE, ma l’allontanamento da questa posizione emerso dalle elezioni del 2014 è stato monumentale. La stampa francese ha pubblicato titoli come séisme e éruption volcanique per mostrare come il voto contrario all’UE sia stato un terremoto politico. Simili sentimenti sono stati espressi in molte lingue dai diversi media europei. Il nuovo partito di sinistra in Spagna ha dato una scossa ai due principali partiti politici al potere e il sorprendente successo dell’estrema destra in Francia ci dice che il popolo francese è stanco dell’austerità e dei bulli di Bruxelles, Francoforte e Washington. Anche il successo dei partiti anti-UE in Danimarca (Partito popolare danese), Gran Bretagna (UKIP) e Grecia (Syriza) sono sintomatici. I partiti di destra hanno anche promosso politiche anti-immigrazione che stanno diventando sempre più popolari. L’austerità economica si è trasformata in un pasticcio molto sgradevole.

    Le attuali opzioni politiche hanno dimostrato di non funzionare e non saranno alla base di un benessere duraturo. Le economie europee finiranno per stabilizzarsi e ricominceranno a crescere, ma i danni residui dell’austerità saranno enormi e si estenderanno per generazioni. Milioni di persone saranno più povere e private di opportunità soddisfacenti. I leader politici neoliberali si rallegreranno e rivendicheranno il successo, ma non citeranno la piccola base da cui è ricominciata la crescita. L’UEM è un sistema imperfetto. Deve cambiare e questo libro si occupa di discutere la forma che dovrebbe assumere questo cambiamento.

    Tre opzioni principali sono considerate in dettaglio. In primo luogo, si valuta la fattibilità della creazione di una vera e propria federazione, con una capacità fiscale a livello europeo per garantire che la spesa totale nella zona euro sia sufficiente a generare abbastanza posti di lavoro per soddisfare il desiderio dei lavoratori. Vengono presi in considerazione diversi schemi ibridi che sono stati proposti dagli economisti in Europa e non solo. Tuttavia, le differenze tra le nazioni europee sono così grandi che una simile scelta è altamente improbabile, anche se l’UEM potrebbe funzionare efficacemente se ci fosse una tale capacità.

    In secondo luogo, viene avanzata la proposta nota come finanziamento monetario palese (Overt Monetary Financing, OMF). L’OMF richiederebbe alla BCE di utilizzare la propria capacità di emissione di valuta per sottoscrivere i disavanzi di bilancio degli Stati membri al fine di creare crescita e occupazione nelle loro economie nazionali senza incontrare le restrizioni che i mercati obbligazionari privati pongono alla loro spesa. L’OMF, erroneamente chiamata opzione di stampare moneta, è universalmente considerata un tabù tra i neoliberisti perché sostengono erroneamente che porterà all’inflazione, e forse all’iperinflazione. La nostra analisi mostra che può essere un modo molto efficace per i governi di gestire responsabilmente la crescita economica senza dover emettere debito pubblico. L’OMF è una strategia che potrebbe rendere l’UEM fattibile. Rappresenta anche un’opzione operativa auspicabile nel caso in cui l’euro venisse abbandonato da una o più nazioni, nel qual caso l’OMF verrebbe agevolato da una nuova legittimazione delle banche centrali dei paesi uscenti.

    La terza opzione considerata in dettaglio è la cosiddetta opzione di uscita. Questa è l’opzione da preferire, in quanto è in linea con le realtà storiche e culturali dell’Europa. Sarebbe ideale se le nazioni della zona euro accettassero un ordinato smantellamento della moneta comune e il ripristino della sovranità monetaria individuale per ogni nazione. Dato che una tale svolta degli eventi sembra improbabile, l’uscita unilaterale rimane l’opzione migliore per una singola nazione, come la Grecia o l’Italia. Data la dimensione della sua economia in rapporto all’economia complessiva dell’eurozona, l’Italia dovrebbe, infatti, dimostrare la sua leadership finalizzando un’uscita negoziata con Bruxelles che riduca al minimo i danni per tutte le parti. Ciò funzionerebbe da esempio per altre nazioni come la Grecia, la Spagna, il Portogallo e altri paesi.

    In un certo senso, la storia di questo libro è in bianco e nero. La scelta è netta, abbandonare questo incubo neoliberale o continuare la sofferenza. La scelta migliore per la maggior parte dei cittadini europei sarebbe un’uscita ordinata con scelte politiche che stimolino la crescita anziché consolidare la stagnazione e la sofferenza, nonostante i costi sostanziali che comporterebbe la ricreazione delle monete nazionali. Ciò si accorda alla natura dicotomica di TINA, la strategia adottata dai neoliberali: l’euro è la salvezza ed è irrevocabile, abbandonarlo sarebbe catastrofico. Non ci sono sfumature nell’approccio TINA.

    Il libro consta di tre parti. La prima parte fornisce una critica dettagliata delle decisioni storiche che hanno portato al Trattato di Maastricht del 1991 e alla decisione di introdurre la moneta unica. Questa decisione aveva pochissime basi economiche ed era in gran parte motivata dal desiderio francese di essere una forza europea dominante in grado di interagire con la paura ossessiva dell’inflazione di cui erano vittima i politici tedeschi. Questa dinamica franco-tedesca disfunzionale ha preso una brutta piega quando ha incontrato la rinascente ideologia economica neoliberale alla fine degli anni 80. Il Trattato di Maastricht è stato il risultato diretto di questa combinazione di fattori.

    La seconda parte esamina il periodo che va dall’inizio della moneta comune fino alla crisi. Nonostante le affermazioni dei leader politici secondo cui l’introduzione dell’euro era stata un grande successo, si stavano creando i presupposti per la crisi. L’attacco della Germania alla capacità dei lavoratori di godere di una crescita reale dei salari, e la sua ossessione mercantile per l’aumento del surplus di esportazione, crearono in altre parti d’Europa pericolosi squilibri che avrebbero intensificato la crisi una volta iniziata. Ma la crisi avrebbe potuto essere minimizzata e si sarebbe potuto garantire un rapido ritorno alla crescita se non fosse stato applicato il Patto di stabilità e crescita (PSC), parte essenziale dell’attacco neoliberale alla capacità dei governi di perseguire politiche di spesa responsabili di fronte agli shock esterni. La BCE avrebbe potuto utilizzare la sua capacità di emissione di valuta per garantire che gli Stati membri non si mettessero in difficoltà sui mercati obbligazionari privati. La riluttanza della BCE ad agire in modo responsabile ha fatto sì che la crisi del debito privato diventasse una crisi del debito pubblico.

    La terza parte fornisce un’analisi dettagliata delle opzioni sopra descritte. È chiaro che ci sono due realtà che devono essere affrontate. La prima riguarda la politica intrinseca dell’Europa, esemplificata dalla pluridecennale rivalità franco-tedesca. La seconda riguarda l’influenza che gli economisti neoliberali esercitano sul dibattito politico. La proposta di uscita è coerente con la prima realtà: rompere l’unione economica contribuirà a ripristinare l’efficacia degli aspetti politici del progetto europeo. Non c’è nessun legame tra l’abbandono dell’euro e l’eventuale smantellamento dell’Unione europea. Se l’Unione sia funzionale o meno è una discussione a parte, che esula dall’ambito di questo libro. Ma affinché l’uscita dall’euro sia l’opzione migliore, i governi devono abbandonare le loro pretese neoliberali e comprendere meglio le opportunità che avranno quando restaureranno le proprie valute, le faranno fluttuare sui mercati valutari internazionali e ristabiliranno le proprie banche centrali riacquisendo la capacità di fissare i propri tassi di interesse.

    Esistono argomentazioni dettagliate che sfatano i miti neoliberali che hanno costruito l’austerità come unica alternativa. Questa parte della narrazione offre al lettore un’avventura in un nuovo modo di pensare l’economia, che richiede alla professione economica di rendersi conto che il paradigma economico attuale è fallito e deve essere sostituito. Questo compito sarà contrastato con forza dagli interessi radicati che traggono il loro potere dal mantenimento dello status quo economico, per quanto sia stato disastroso per i cittadini comuni.

    Al momento, l’Europa è intrappolata in un pensiero di gruppo neoliberale distruttivo che si manifesta come una negazione su larga scala.

    Per ripristinare la prosperità e la speranza è necessario evadere da questa prigione.

    PARTE I

    I PRIMI ANNI

    2

    I PRIMI TENTATIVI DI UNIONE MONETARIA E IL VERTICE DELL’AIA

    I PRIMI TENTATIVI DI UNIONE MONETARIA EUROPEA

    A lungo fu accarezzata l’idea di una moneta comune in Europa o in alcune parti d’Europa. Nel XIX secolo, quando in Europa si stavano unificando diversi Stati nazionali, l’introduzione di una moneta comune era vista come un fattore nazionale essenziale. La Germania unì i suoi stati nel 1834 e formò l’Unione doganale tedesca (o Zollverein) con una moneta comune, il Vereinsmunze. Nel 1876, una volta che la Reichsbank tedesca prese il controllo di tutte le emissioni di valuta (Holtferich, 1993), il Reichsmark divenne moneta nazionale. Allo stesso modo, anche l’unificazione italiana del 1861 fu accompagnata dall’accettazione della lira da parte di tutti gli Stati.

    Altri accordi di moneta comune formatisi in Europa nel XIX secolo sono falliti. Dopo aver ottenuto l’indipendenza nel 1830, il Belgio adottò il franco francese, che costituì la zona franco. Nel 1848 la Francia e il Belgio formarono l’Unione monetaria latina (UML) con la Svizzera. L’Italia vi aderì nel 1861, la Grecia e la Bulgaria nel 1867. Ai fini della nostra ricerca sugli sviluppi moderni, è importante sottolineare che la motivazione per la formazione dell’UML venne dalla Francia, preoccupata per il declino del suo potere coloniale e la perdita di potere economico (cfr. Flandreau 1995, 2000; Einaudi 2000; Flandreau e Maurel, 2005).

    L’UML era un accordo monetario bimetallico (oro e argento) che prevedeva che ciascuna nazione conservasse la propria moneta (d’oro e d’argento) e che venisse scambiata alla pari in tutta l’unione (a parte una minima commissione sulle transazioni). Le rispettive banche centrali garantivano la convertibilità dell’oro e dell’argento in monete coniate a parità fissa. Quando l’argento perse valore, le banche centrali sospesero la convertibilità. All’inizio della Prima guerra mondiale il gold standard venne abbandonato: quando i governi iniziarono a finanziare le spese di guerra vendendo le loro scorte d’oro, il prezzo dell’oro crollò. Questo portò finalmente alla fine del sistema dopo anni di disfunzioni. Il gold standard fu ufficialmente abbandonato nel 1926.

    Un simile esperimento valutario multinazionale prese forma nel 1873, quando fu istituita l’Unione monetaria scandinava (UMS) tra la Svezia e la Danimarca, con l’adesione della Norvegia due anni dopo. Si trattava di un’unione monetaria basata sull’oro, in cui ogni nazione introduceva il sistema decimale e adottava un’unità monetaria comune, la corona scandinava (Bergman, 1999: 365). Le valute dei paesi membri (monete d’oro e altre valute d’argento e di bronzo) furono fissate in base al prezzo dell’oro e sarebbero rimaste liberamente scambiabili a parità per un periodo di otto anni, dopodiché sarebbe prevalsa l’unità monetaria comune (Bergman, 1999; Bergman et al., 1993; Henrikson e Kaergard, 1995). Gli sviluppi politici minarono questo sistema. Ad esempio, quando la Norvegia ruppe con la Svezia nel 1905, gli svedesi limitarono la convertibilità. Ma, come per l’UML, l’instabilità monetaria associata all’inizio della Prima guerra mondiale fu la goccia che fece traboccare il vaso. L’accordo formale terminò nel 1921. Bordo e Jonung (2003) documentano altri tentativi falliti di istituire unioni monetarie in Europa nel XIX secolo.

    Quali lezioni possiamo trarre per capire quali opzioni ha l’Europa nel 2014? In primo luogo, l’adozione di una moneta comune da parte di Stati precedentemente separati può avere successo se fa parte di una strategia di unificazione nazionale. È importante notare che gli Stati precedentemente indipendenti che accettarono di unificarsi avevano strutture economiche piuttosto diverse (per tipi di industria e fonti di occupazione) oltre che notevoli disparità di reddito. Gli Stati precedentemente indipendenti avevano anche chiare differenze culturali. Quindi non possiamo concludere che l’omogeneità culturale o le grandi disparità economiche pregiudichino il possibile successo di un’unione monetaria. L’elemento comune è che questi Stati precedentemente indipendenti accettarono, politicamente, di rinunciare alle loro differenze e di creare un unico Stato nazionale, che stabilì poi, tra le altre cose, un meccanismo di politica economica nazionale che avrebbe operato per migliorare la prosperità di tutti i cittadini della nuova nazione.

    In secondo luogo, gli accordi multilaterali come l’UML e l’UMS fallirono perché mancava un accordo politico che prevedesse di fondere le strutture governative indipendenti in un’entità nazionale. Durante tutta la vita di queste unioni, ogni governo accettò di partecipare all’unione monetaria solo nella misura in cui ciò permetteva di fare progredire i propri obiettivi nazionali. Questi scopi contrastanti emersero in tempi di estrema instabilità monetaria (Prima guerra mondiale) quando l’abbandono del gold standard era chiaramente un riflesso degli interessi nazionali indipendenti che venivano esercitati.

    L’idea di una moneta europea tornò alla ribalta nel 1929, quando il ministro degli Esteri tedesco Gustav Stresemann, che lavorò assiduamente nel periodo tra le due guerre per riconciliare Germania e Francia, il 9 settembre presentò alla Società delle Nazioni una petizione con la seguente domanda: Dove sono la moneta europea e il francobollo europeo di cui abbiamo bisogno? (Commissione europea, 2012a). Appena sei settimane dopo la Borsa di New York collassò durante il famoso venerdì nero, mettendo fine a ogni idea di cooperazione valutaria internazionale in Europa per un futuro indefinito.

    Tuttavia, per comprendere lo stato attuale delle cose, è importante evidenziare che Stresemann capì che era necessario avvicinare Francia e Germania attraverso una più stretta collaborazione economica; questo tema dominò e motivò le discussioni nel secondo dopoguerra e culminò con l’adozione dell’euro.

    Dopo la Seconda guerra mondiale, le 44 nazioni alleate accettarono di tornare a un modello simile al gold standard perché credevano che questo avrebbe portato stabilità economica. Il cosiddetto sistema di Bretton Woods fu istituito nel luglio 1944 e richiese alle banche centrali delle nazioni partecipanti di mantenere le loro valute a tassi fissi concordati rispetto al dollaro statunitense. Per permettere il mantenimento delle parità di cambio concordate, il nuovo Fondo monetario internazionale (FMI) fu autorizzato (con i contributi degli Stati membri) a offrire finanziamenti a breve termine a tutte le nazioni che non riuscivano a guadagnare sufficienti riserve di valuta estera attraverso il commercio. Il governo statunitense, a sua volta, accettò di convertire i dollari in oro a un prezzo fisso.

    IL SISTEMA DI CAMBIO BRETTON WOODS E IL RAPPORTO BARRE

    Dopo il Trattato di Roma del 1957, che istituì la Comunità economica europea (CEE), si discusse regolarmente sulla necessità di una più stretta cooperazione economica tra gli Stati membri. Nel febbraio 1969 il cosiddetto Rapporto Barre riaffermò la preferenza europea per i tassi di cambio fissi e il passaggio a una politica monetaria comune (Rapporto Barre, 1969). Gli europei erano preoccupati per l’evoluzione dei mercati valutari mondiali e per l’esaurimento delle riserve auree statunitensi rispetto all’impegno di garantire la convertibilità del dollaro in oro assunto dal governo americano sotto Bretton Woods. Nel corso degli anni 60 una grande quantità di riserve auree si spostò dagli Stati Uniti all’Europa a causa del persistente deficit della bilancia dei pagamenti statunitense.

    L’uso del dollaro statunitense come valuta di riserva mise a nudo l’instabilità del sistema di Bretton Woods. Nei primi anni 60 l’economista Robert Triffin avvertiva che il sistema richiedeva agli Stati Uniti di gestire i deficit della bilancia dei pagamenti in modo che altre nazioni, che utilizzavano il dollaro come valuta dominante nelle transazioni internazionali, potessero acquisirli. Negli anni 50 ci fu una carenza internazionale di dollari disponibili, mentre le nazioni si riprendevano dalla guerra e il commercio si espandeva. Ma negli anni 60 la situazione cambiò. Le nazioni cominciarono a preoccuparsi del valore delle loro crescenti riserve di dollari USA e se gli Stati Uniti avessero continuato a mantenere la convertibilità in oro. Questi timori portarono le nazioni a esercitare sempre più il diritto a convertire le loro riserve di dollari in oro, il che ridusse significativamente lo stock delle riserve auree statunitensi. Il cosiddetto paradosso di Triffin era che il sistema di Bretton Woods richiedeva l’espansione del dollaro nei mercati mondiali, cosa che però minava la fiducia nel valore del dollaro e causava l’aumento della domanda di convertibilità in oro. La perdita di riserve auree rafforzò ulteriormente l’opinione che il dollaro fosse sopravvalutato e che il sistema avrebbe finito per collassare (Triffin, 1960).

    Per risolvere questo dilemma gli Stati Uniti avrebbero dovuto aumentare i tassi d’interesse in modo da attirare di nuovo i dollari verso gli investimenti in attività finanziarie americane. Questo però avrebbe spinto l’economia statunitense verso la recessione, e sarebbe stato politicamente sconveniente. Inoltre era sempre più incoerente con altri sviluppi interni (la guerra alla povertà) e con l’ossessione della politica estera statunitense di combattere il comunismo, esemplificata dalla costruzione di installazioni NATO in Europa occidentale e dalla prosecuzione della guerra del Vietnam. Le spese associate alla guerra del Vietnam surriscaldarono l’economia interna degli Stati Uniti e aumentarono ulteriormente la liquidità del dollaro sui mercati mondiali. L’inflazione risultante si trasmise attraverso il sistema di scambio fisso all’Europa e oltre, perché l’aumento dei disavanzi commerciali negli Stati Uniti divenne uno stimolo per le eccedenze commerciali in altre nazioni. Queste altre nazioni non poterono gestire una politica monetaria indipendente perché le loro banche centrali dovevano mantenere le parità di cambio previste dall’accordo di Bretton Woods.

    È importante notare che il deficit della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti fu il riflesso anche di scelte fatte da altre nazioni. Nel periodo di crescita dopo la Seconda guerra mondiale, altre nazioni dimostrarono un forte desiderio di accumulare riserve di dollari americani, cosa che richiedeva di gestire il surplus commerciale estero verso gli Stati Uniti.

    IL PROGETTO EUROPEO DEL SECONDO DOPOGUERRA

    Nel XX secolo il progetto europeo era in gran parte sul punto di smorzarsi dopo le fratture delle due guerre e altre controversie minori, ma nell’immediato secondo dopoguerra fu ripreso come piano ambizioso per l’integrazione europea. Si pensava che creando un’unione politica si sarebbero potute favorire relazioni più cordiali e le inimicizie storiche sarebbero svanite; era un’estensione della logica che nel 1904 portò all’entente cordiale tra francesi e inglesi, ponendo fine alla lunga storia di conflitti militari tra le due nazioni.

    Era logico che l’UE cercasse anche di armonizzare alcuni parametri economici per poter lavorare insieme al bene di tutti. Così, all’inizio del secondo dopoguerra, il senso di profondo antagonismo nei confronti dei tedeschi fu attivamente scoraggiato, poiché la Germania si risollevò dai disastri che causò a sé stessa e al resto d’Europa, fino a diventare un’economia forte. Un importante impulso alla crescita in Europa fu il Piano Marshall, che permise agli Stati Uniti di fornire una consistente iniezione fiscale alle economie europee. Si è discusso lungamente sul contributo globale del Piano Marshall, è ormai opinione comune che abbia contribuito a rilanciare l’economia europea che si dimenava tra infrastrutture devastate, bassi tassi di investimento, grandi carenze alimentari e di altro tipo, ed era pervasa da un’aria di pessimismo generale. Il Piano Marshall fu anche una parte iniziale del piano per l’integrazione europea, in quanto eliminò le barriere commerciali all’interno dell’Europa e istituì strutture istituzionali a livello europeo per facilitare la ripresa socio-economica. È interessante notare che se l’attuale mentalità di austerità fiscale e l’ossessione per le regole fiscali avessero prevalso nell’immediato dopoguerra, il Piano Marshall sarebbe stato impossibile e l’Europa avrebbe sguazzato nella stagnazione economica, in tassi elevati di disoccupazione e nella carenza di cibo che contraddistinsero la fine degli anni 40.

    Il primo risultato significativo della neonata CEE fu la politica agricola comune (PAC), che fu introdotta nel 1962 e costituì un importante passo avanti verso l’obiettivo dell’integrazione. Questa politica eliminò i dazi doganali sui prodotti agricoli e instaurò dei prezzi comuni, anche se ciò richiese un certo tempo per essere realizzato, data la resistenza campanilista delle comunità rurali delle nazioni partecipanti. Al centro del disegno politico c’erano gli interessi concorrenti della Francia, che voleva proteggere i suoi agricoltori, e della Germania, che voleva espandere il suo mercato di esportazione industriale. La PAC, più o meno, prevedeva un sussidio tedesco agli agricoltori francesi, che era il compromesso necessario affinché ogni nazione potesse soddisfare le proprie esigenze politiche interne.

    Se da un lato la PAC incarnava queste tensioni politiche, dall’altro, data la moltitudine di prezzi agricoli che dovevano essere sostenuti in tutta la Comunità e per facilità amministrativa, si basava anche sui tassi di cambio fissi di Bretton Woods. La PAC non poteva funzionare efficacemente in presenza di fluttuazioni improvvise o significative dei valori monetari degli Stati membri. Negli anni 60 l’incertezza del sistema di Bretton Woods accelerò l’idea che fosse necessaria una moneta comune all’interno della Comunità.

    I conservatori desideravano tornare al sistema aureo, ma la realtà era che il sistema di Bretton Woods funzionava male. Dopo che la piena convertibilità tra il dollaro e l’oro fu finalmente raggiunta nel 1959, la situazione ha iniziato a degradarsi e il paradosso di Triffin divenne chiaro a tutti. Ci furono vari sforzi ad hoc, i cui dettagli non verranno qui trattati, per evitare l’inevitabile collasso del sistema (per esempio, l’aumento degli scambi di valuta tra banche centrali), ma nessuno di questi palliativi poteva eliminare le contraddizioni intrinseche del sistema.

    LA SVALUTAZIONE BRITANNICA

    Alcuni eventi che risalgono agli anni 60 sono molto pertinenti per il nostro compito attuale. Il primo grande evento fu, nel novembre 1967, la svalutazione del 14,3% della sterlina britannica rispetto al dollaro (1 sterlina equivaleva a 2,40 dollari). Il governo britannico aveva lottato durante tutti gli anni 60 per mantenere la sterlina a 2,80 dollari a fronte dei continui deficit commerciali. Il 1967 fu un anno di crisi economica mondiale, la più grande dal 1949. La pressione sui costi stava aumentando e si traduceva in un’inflazione persistente in molte nazioni. Nel 1966 e 1967 la Gran Bretagna registrò deficit della bilancia dei pagamenti molto elevati e ci fu una sostanziale perdita di riserve di valuta estera, mentre la Banca d’Inghilterra intervenne per mantenere il tasso di cambio. L’industria britannica era anche meno in grado di sfruttare i crescenti mercati di esportazione rispetto alle più competitive economie francesi e tedesche.

    La fiducia nella sterlina crollò. Una contrazione della spesa pubblica, accompagnata da un blocco dei salari e dei prezzi a metà del 1966, portò a un calo delle importazioni e a un miglioramento della posizione commerciale. Nel complesso si registrò un leggero rallentamento della produttività e la disoccupazione aumentò. Ciò fornì una temporanea tregua alle pressioni speculative sulla sterlina, rafforzata anche dai tagli dei tassi di interesse negli Stati Uniti e in Europa che incoraggiarono l’afflusso netto di capitali in Gran Bretagna alla ricerca di rendimenti più elevati. La Gran Bretagna approfittò di questo momento favorevole per rimborsare vari debiti internazionali, compresa la riduzione dei debiti verso il FMI.

    La quiete ebbe vita breve. La prima perturbazione avvenne il 5 giugno 1967, quando scoppiò la guerra dei sei giorni tra gli Stati arabi (Repubblica Araba Unita, Giordania e Siria) e Israele dopo l’aggressione militare israeliana (gli attacchi aerei in Egitto). La guerra ostacolò le esportazioni britanniche, aumentò il costo del petrolio e portò alla liquidazione della sterlina. In secondo luogo, gli Stati Uniti aumentarono i tassi di interesse per sedare il loro boom del credito facendo così aumentare il valore del dollaro, in quanto i fondi affluirono negli Stati Uniti alla ricerca di maggiori rendimenti. In terzo luogo, l’inizio della recessione europea danneggiò ulteriormente le esportazioni britanniche, e la sua bilancia commerciale affondò nel deficit. La perdita dei proventi delle esportazioni portò anche a un aumento della disoccupazione britannica e fece sprofondare la Gran Bretagna in un dilemma politico.

    La sterlina era sotto pressione a causa del crescente deficit esterno e del deflusso netto di capitali, cosa che, dato il tasso di cambio fisso, avrebbe dovuto portare a una contrazione della politica interna. Ma col profilarsi della recessione, il governo britannico doveva sostenere la domanda interna, per questo scelse di evitare il costo politico di un ulteriore aumento della disoccupazione. La Banca d’Inghilterra tagliò i tassi d’interesse, mentre il Tesoro ampliò la spesa, facendo così aumentare il deficit commerciale. Il governo Wilson impose anche controlli sul capitale per arginare il deflusso di sterline, ma con scarso successo.

    Si è discusso a lungo se il governo britannico si sia impegnato a mantenere la stabilità monetaria, visti questi interventi espansivi di politica interna. Inoltre, nonostante le iniziali restrizioni salariali del 1967, a seguito del loro congelamento nel 1965-66, la crescita dei salari fu rapida nell’ultima parte del 1967 e superò la crescita della produttività, compromettendo così la competitività internazionale della Gran Bretagna. La situazione si esacerbò a causa dei disordini industriali sulla costa (nel maggio 1966 e poi nel settembre 1967), il che limitò ulteriormente le esportazioni della Gran Bretagna.

    Il governo britannico dovette arrendersi all’evidenza: per difendere la crescente pressione sulla sterlina avrebbe dovuto provocare una dura recessione e far aumentare ulteriormente la disoccupazione. Il modello di crescita stop and go degli anni 60, tipico delle nazioni con deficit commerciali sotto il sistema di Bretton Woods, si era duramente scontrato con i vincoli politici. Questo conflitto tra economia e politica è uno dei principali motivi per cui i sistemi di cambio fisso falliscono e presenta un chiaro interesse per l’UEM.

    Il governo britannico sapeva anche che i precedenti sforzi compiuti negli anni 60 per far fronte a una situazione di debolezza della bilancia dei pagamenti avevano portato a una perdita del reddito nazionale, ma non risolvevano realmente il problema di fondo. Era ovvio che la sterlina era sopravvalutata, e per quanto si potesse cercare di preservare quel valore per ragioni di prestigio nazionale, doveva essere svalutata; ciò avvenne il 18 novembre 1967.

    Questo fu il primo passo piuttosto significativo verso la bara di Bretton Woods e rifletteva le tensioni che si erano accumulate nel corso del decennio. La svalutazione britannica creò

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1