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Narsixo: L'ideologia
Narsixo: L'ideologia
Narsixo: L'ideologia
E-book206 pagine2 ore

Narsixo: L'ideologia

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Info su questo ebook

Per Gianluca Raciti, una tranquilla giornata di lavoro è appena iniziata nella cabina del carroponte alla ILVA. Fino a quel momento, la sua vita era trascorsa pigra, tra qualche litigio a casa e un impiego monotono. Ad alleggerirla, frequenti pause di svago e ricorrenti sogni di fuga.
L’imprevedibile – annunciato dall’improvvisa comparsa di un’affascinante quanto misteriosa ragazza in nero – lo attende, però, nell’Ufficio del Capo Logistica, dove gli viene consegnata una lettera di licenziamento senza preavviso.
Da quel passaggio, conclusosi in maniera turbolenta, inizia per Gianluca la via del riscatto.
Decide di riprendere il proprio destino in mano, tronca il rapporto con il padre che lo ha sempre frustrato e faticosamente si avvia su un percorso finalmente tutto suo.
Un uomo nuovo.
LinguaItaliano
EditoreFrog Free
Data di uscita17 dic 2021
ISBN9791220875776
Narsixo: L'ideologia

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    Anteprima del libro

    Narsixo - Gianluca Raciti

    1.

    Miami-Massafra, 16 febbraio 2019

    «Escluso. Non ci vado».

    La voce arriva sfocata, ma non per via della connessione – seduto sul davanzale, Vodafone ancora prende – piuttosto perché se a Massafra fanno le sei di sera, in Florida sono le undici di mattina, quindi per Jah notte fonda. Io invece sono sveglissimo.

    «Ci vai, sicuro. Diretto. Monti sull’aero di Maha, scendi e ti scaraventi lì. Dai, rileggi».

    «E basta Gianlù, tre volte, a memoria la so».

    È emozionato, lusingato, a smascherarlo basta il tono. Come Fantozzi sotto la pentola e con la molletta sul naso. Poi, ovviamente arrivano al traino i residui della sua timidezza, la pigrizia e il post-sbronza o post-chissà cos’altro. Basta una spintarella, figurarsi se non calo la mia.

    «Non urlare che sei in vivavoce. Aspetto mia madre per salutarla, se ti sente, si esalta e finisce che dalla D’Ambrosio ci va lei».

    Intanto guardo in strada se la vedo parcheggiare. Mi sono barricato in bagno, l’unico punto dove Internet prende, ma se mai entrasse nel palazzo mi restano al massimo due minuti. Cronometrati.

    «Jah, ma hai capito? T’invitano loro… da Taranto in TV, via Miami. Stupendo. Ormai sei come Tiziano Ferro, George Clooney, come la Canalis».

    «Come un deficiente. Se ti entusiasma tanto, questa volta vacci tu. Così cambiamo, mica come a Milano».

    Sento che sta trafficando con una tazzina, allora è sveglio da un po’, più lucido del previsto. Chissà quanto l’ha tenuta in mano quella lettera prima di decidersi a chiamare. Adesso gode a farsi inseguire, desiderare. Quando succede torna il ragazzino che è veramente e per un attimo si rimescolano i ruoli. Mi piace l’occasione di essere io l’organizzatore che impartisce gli ordini, quello che pensa e risolve.

    «Jah, io ci vado. Esco da ‘sto cazzo di bagno e mi esibisco, la faccio io la star. Ma poi abbiamo tre problemi. Uno: di défilé non ci capisco un emerito, e in tre minuti ci sgamano secco. Due: io c’ho 45 anni e pure se mi metto quattro chili di bava di lumaca in faccia, e quella fa miracoli, fidati, si vedono tutti e ti saluto il Giovane Talento. Tre: quando sono lì, lo so io e lo sai tu, non mi tengo e parlo. Mi parte il nastro e racconto. Tutto».

    Alle volte su WhatsApp non capisci se l’altro se ne sta muto o se è solo caduta la linea. Il silenzio si fa assoluto, pieno, scompaiono vibrazioni e rumori di fondo. Per un attimo, sento solo la radio della Vincenzi, al terzo piano, con Albano in estensione plastica, e il cantiere del gas nel controviale di fronte.

    «Ci stai ancora?»

    Faccio la voce preoccupata, quasi sussurro per fargli sentire la mia pressione.

    «Era scritto che mi fregavi. In televisione di domenica pomeriggio. Nazionalpopolare proprio. Che tristezza. Anche l’orso da circo mi tocca fare. La tigre di Alejandro. Almeno ti vergogni, sì?»

    Si arrende subito, ci tiene a emergere – è giusto così, è il suo momento – lui è ancora pienamente da quella parte di mondo, sensibile ai giudizi degli altri.

    «Dobbiamo prepararci almeno, non possiamo fare una figura meschina».

    Riemerso in pieno, già in modalità creativo rampante, tipo mio fratello, ma con in più il talento e una testa che ragiona. È tornato grande.

    «Quante ne portiamo?» continua serio.

    Stavolta il silenzio lo prolungo io, mi prendo l’effetto.

    «Tutte, Jah. Le portiamo tutte» rispondo. E quella volta la voce mi esce giusta, ferma, da boss vero. «Sarà un altro grande successo» un filo ironico, ma poco, solo per diluire l’eccitazione. «E invece no. Non capirà niente nessuno: sarà uno spettacolare fallimento» e rido davvero.

    2.

    Tre anni prima

    Quando capitano queste giornate qui, se una farfalla sbatte le ali a Pechino, la sfiga arriva in testa a me. Ecco, quel 13 gennaio 2016 è una giornata così.

    Per una frazione di secondo di ritardo – qualche minuto, mezz’ora dai – l’unico posto rimasto è in fondo al parcheggio, sprofondato in pineta.

    Il tempo di scendere, lo sportello ancora aperto per prendere lo zainetto con il panino e lo schiocco, forte, vicino.

    Il bozzo della pigna sul cofano ha le dimensioni di una palla da cannone e la profondità di un catino. Alla prima pioggia, ci nasceranno le alghe.

    Fanculo, tanto la Panda è già da buttare. Però la sensazione di essere sul ciglio della tregenda monta.

    E non è nemmeno colpa mia.

    Mi sono alzato prima della sveglia e sono riuscito a filare prima dei passaggi a scuola, che altrimenti per attraversare Taranto ci vuole un mese. Con le chiavi in bocca e una scarpa in mano, sono saltato in ascensore e poi in macchina, di corsa al bar. Se non faccio colazione prima di andare al lavoro, io non connetto. Non potevo immaginare che avrei beccato la scolaresca in gita e che per un caffè e due brioche mi sarebbero partiti tre quarti d’ora.

    Camminando verso i tornelli dell’ingresso, una tregua.

    Attraversare il parcheggio dalla pineta è persino piacevole. Per un momento mi dico che magari sbaglio. C’è ancora qualche chance che la giornata si possa riprendere.

    Nessuno intorno, in fondo oltre le auto, il mare, me ne arriva l’odore. Sopra di me, alti, gli alberi. Si muovono lenti al vento – bellissimi, snelli ed eleganti, con i ciuffi verdi a nascondere tutto. Mi guardo in giro e mi sembra di essere in un bosco, in una foresta. Mi ci perderei. Sparito per ricomparire a fine turno. Non sarebbe la prima volta.

    È tutto così tranquillo, quasi quasi. Ma sì, chi potrebbe arrivare ormai, tutti sono già entrati. Mi metto le cuffiette, alzo il volume, chiudo gli occhi, apro le braccia. E via.

    It might seem crazy what I am about to say

    Sunshine she’s here, you can take a break

    I’m a hot air balloon that could go to space

    With the air, like I don’t care baby by the way

    Huh - Because I’m happy…¹

    Più volume. Non sono happy affatto, zero, ma non me ne importa. Volo, sono una mongolfiera anch’io, baby. Giro e ballo, in alto le mani, scuotimento delle spalle, salto a destra, salto a sinistra, shake.

    Huh - Because I’m happy

    La musica sfuma, mi fermo. Bello. Apro gli occhi e lo vedo, disteso a neanche un metro davanti a me.

    Coordinamento Agitazione Lavoro. Rosso scuro, la scritta gialla, una decina di mani a sorreggerlo.

    Sopra lo striscione ci saranno quaranta occhi, tutti in cerchio attorno a me, minimo sono venti persone, bandiere arcobaleno al vento.

    Per un attimo, rimaniamo tutti bloccati, occhi negli occhi, in silenzio. Poi si alza dal fondo, prima timido, quindi più corposo, infine scrosciante. Un applauso a piene mani, una vera standing ovation, si astengono solo – senza rinunciare a urla e fischi – quelli che reggono lo striscione.

    «Bravo!» fa uno in prima fila, capelli bianchi e fazzoletto rosso al collo. «Campione» una riccia accanto. «Vai a Ballando» un grido da dietro. «Ti ci portiamo noi» ancora belli i capelli. «Così conosciamo pure la Milly» ride Bella Ciao voltandosi e ammiccando a tutti.

    «Grazie, grazie. Mi è venuto così» saluto con le mani e vengo via, paonazzo per lo sforzo e la figura.

    Di merda.

    Mamma mia, meno male che non conosco nessuno.

    Però magari hanno ragione loro, uno prende, si fa un ballo e se ne va da là. Prima o poi…

    Intanto mi affretto. Dalla pineta, la ILVA ancora non si vede, forse i tetti e i forni lontani. Solo un brontolio di fondo. A me il rumore non ha mai dato fastidio. A dirla tutta, nemmeno la puzza di catrame bruciato, che dopo un po’ ci si fa l’abitudine e non la senti neanche più.

    È la polvere. Polvere che entra dappertutto, si infila tra i capelli, nelle narici, in bocca. A sera, sono rosse pure le mutande. Puoi farti la doccia a ripetizione, con i rulli del lavaggio auto se vuoi, ma non serve a niente. La polvere rimane addosso, ti entra dentro.

    Io quella non la sopporto proprio.

    Per questo, la conquista della postazione sul carrello-ponte è stato un vero successo. Forse è un’illusione, ma lassù in cima – saranno venti metri sul piazzale di carico – secondo me, ne arriva molta meno.

    Certo, quando piove o tira vento si balla parecchio, mentre in piena estate la cabina diventa rovente. Ma chissenefrega, se fa brutto veramente o troppo caldo, me ne rimango a casa. Che poi il carro-ponte ha un altro vantaggio: il piazzale è vicino agli ingressi, passando dietro alle officine ci arrivo subito e a fine turno, in cinque minuti cronometrati, sono al cancello per uscirmene.

    Penso già a quando me ne potrò ripartire, salendo con calma i gradini in metallo da terra alla cabina. Dopo il riposino, mi attira l’idea di una passeggiata in spiaggia, il mare la sera è stupendo anche d’inverno.

    Veicolo 15 terminato. Avanti il 16.

    L’interfono trasmette i soliti dialoghi tra gli addetti allo smistamento, se allungassi il collo li potrei anche vedere muoversi rapidi accanto alle bobine appena lavorate. Non lo faccio perché un po’ soffro di vertigini e, se mi sporgessi a guardare sotto, poi mi girerebbe la testa, arriverebbe il mal di stomaco e magari si riproporrebbero pure le brioche.

    Meglio guardare lontano, oltre il piazzale e le nuvole grigie. Sopra le chiome della pineta rivedo il mare, qualche cargo in rada. Caricano, scaricano e ripartono, se ne vanno lontano, in Spagna o magari in Marocco. In Marocco mi piacerebbe andare. Marrakech ormai no, troppa gente, ma un giro tra le montagne e il deserto, magari arrivare a Essaouira, l’ho vista a Dream Road, dovrebbe essere bella.

    Dalla cabina è divertente viaggiare, nessuno intorno, le voci di sottofondo, cielo e mare a 360 gradi, sono già su una nave o in aereo.

    Io mi sono organizzato bene. Radio e stufetta, che a stare seduti si prende freddo, il telefonino se viene voglia di qualche chiacchierata con il mondo. Quando sotto è calmo, me ne scendo per un caffè. Sono il barista indiscusso dell’officina-mezzi, l’inventore del caffè alla brasiliana: acqua, Kimbo e moka scaldata a mille gradi Fahrenheit puntando la fiamma viva dei saldatori sul fianco della macchinetta, ecco il segreto. Ne esce una crema eccezionale, calda – anzi rovente – che ti fa salire le lacrime agli occhi. Certo, dopo due o tre caffè la macchinetta la butti, le guarnizioni fuse con il basamento e tutto. Ma vuoi mettere. Tempo un’oretta e me ne faccio uno.

    Intanto, luce da lettura e La Settimana, con il Bartezzaghi che non riesco mai a finire. Matita. 25 verticale: Santo Patrono di Ancona. Prima lettera C, sarà Claudio, ci sta. 44 orizzontale: Imponente edificio dorico di Paestum. Boh.

    All’improvviso un’ombra. Enorme, scura. Senza alcun rumore riempie la porta con un balzo e la spalanca. Prima la pigna, adesso questa, è evidente che non arriverò a sera.

    «Raciti?» chiede la giacca a vento nera.

    San Claudio – che invece è Ciriaco – c’è rimasto secco, pover’uomo, c’aveva un’età. Io guardo la massa, riprendo a respirare e reagisco, questa è violazione di domicilio bell’è buona.

    «Ma che maniere sono? Ma l’educazione non ve la insegnano al piano terra?»

    La figura abbassa il cappuccio, ma il cromatismo non cambia. Appaiono un viso sempre scuro, due occhi di un nero profondo, lunghi capelli – neri anche questi, per coerenza – lisci e tirati indietro. Nera la tuta e neri gli stivali di gomma.

    La dama nera. È venuto a trovarmi Belfagor.

    «Scusa, non volevo spaventarti» fa l’ombra in controluce dalla porta, ad accentuare il total black. «Il Capo Squadra ti vuole vedere» continua. «A fine turno, in ufficio da lui. Sai dov’è, vero?»

    La voce non è antipatica, anche il tono si è fatto garbato. Però, insomma, maleducata è e incivile rimane.

    «Vabbè, ma non potevate usare il telefono di servizio? Qui c’è gente che lavora» replico sostenuto, guardandomi in giro con la matita in mano, manco avessi lo staff della Nasa intorno ad annuire per sostenermi.

    «Eh ci stava, ma l’hanno già scollegato» prosegue intimidita. «Però, carino quassù» aggiunge, entrando senza invito, si volta e sorride.

    È alta, deve essere magra, con tutta quella roba addosso si capisce poco, ma si intuisce. Nonostante la maglia sotto la tuta, spunta il collo alto, nero anche quello. Ha i lineamenti dolci, denti bianchissimi e labbra sottili. Bella di sicuro, anzi, a modo suo un tipo.

    «Va bene, appena finisco qui» gesto vago, in una direzione imprecisata.

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