Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Gli attimi in cui Dio è musica
Gli attimi in cui Dio è musica
Gli attimi in cui Dio è musica
E-book140 pagine2 ore

Gli attimi in cui Dio è musica

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Per la giovane protagonista, alla prospettiva di una vita monotona e vuota segnata da difficoltà economiche si contrappone il sogno di diventare una ballerina professionista. I suoi giorni sono in apparenza tutti uguali, chiusi in frasi brevi e in viaggi interminabili, raccontati in prima persona. Un passo dopo l'altro, tra la vita vera e il sogno, una speranza.
LinguaItaliano
Data di uscita24 dic 2019
ISBN9788831651882
Gli attimi in cui Dio è musica

Leggi altro di Paola Ferrero

Correlato a Gli attimi in cui Dio è musica

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Gli attimi in cui Dio è musica

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Gli attimi in cui Dio è musica - Paola Ferrero

    P.

    Antefatto

    Anni ’80, non importa quando esattamente. Un periodo in cui la leggerezza si respirava. In cui tutti ammiccavano al successo, facendolo sembrare facile; in cui tutto sembrava quasi possibile.

    Un paesino nel torinese, non importa quale. Nella nebbia di ogni stagione i posti hanno tutti lo stesso aspetto. E la stessa sostanza.

    Una ragazza come tante, con la sua vita complicata e i suoi sogni.

    Una passione fortissima cui aggrapparsi.

    Una musica di sottofondo, costante e onnipresente, a dare un ritmo e un senso a tutto quanto…

    1

    Prima di azionare la maniglia, raccolgo il mio borsone dal pavimento e me lo metto a tracolla. Mi sono alzata prima che il treno si fermasse quando, con l’avvicinarsi della stazione, ha cominciato a rallentare.

    Mi piace guardare fuori quando il treno va piano, soprattutto se i paesaggi sono conosciuti. Una volta giunta alla stazione so già che tornerò indietro a piedi fino all’altezza del passaggio a livello, il campo sportivo, il cavalcavia…

    Lo faccio ogni giorno e ormai è diventato automatico. Nemmeno noioso.

    Il treno si ferma, apro la porta e scendo i due scalini. Al ritorno resto sempre seduta per terra, tra uno scompartimento e l’altro, accanto alla porta. Non ho voglia di cercare un posto dopo aver visto le porte chiudersi tra me e i miei amici, che restano a Torino mentre io torno a casa.

    Fuori fa freddo. Non mi dà fastidio. Percorro il marciapiede ed esco dalla stazione senza guardarmi intorno. Non c’è molto da vedere. Tanti mattoncini grigi, qualche pianta, delle panchine. Porte e uffici chiusi. Una biglietteria, l’edicola, qualche persona che viene o che va. Nessuno di cui m’importi.

    Esco, appunto. Giro a destra, poi ancora a destra al semaforo. Scendo verso la mia destinazione, a passi sicuri e testa bassa. È buio e l’aria è umida come sempre. Un cono di aria bianca segnala la presenza dei lampioni che mi guideranno nella nebbia. Non c’è il marciapiede, da un certo punto in poi. Devo spostarmi in modo da avere le auto che arrivano davanti. Così cambio lato della strada. Costeggio muri grigi, la fabbrica, le villette. Poi lo spazio si apre e di nuovo avverto la pendenza che aumenta e che mi tira verso il negozio dove mi aspetta mia madre. Dieci minuti di strada dalla stazione. Sembra una vita quando cammini nell’ovatta della nebbia, cioè almeno dieci mesi all’anno.

    Prima di rientrare definitivamente attraverso di nuovo la strada. Paolo sta chiudendo bottega ed io vado a fare due chiacchiere, come ogni volta che lo trovo solo. Il distributore è deserto. A quest’ora quasi tutti in zona stanno mangiando al calduccio delle loro cucine. Sono le 19,30 e le serrande dei negozi sono tutte già a mezzo. Compresa quella del nostro alimentari.

    Paolo è carino. Lo conosco da un paio d’anni e ci divertiamo a stuzzicarci. Non c’è volta in cui lui non cominci coi doppi sensi ed io lo assecondi. Non manco mai di fargli intendere che ci starei, se ci provasse. So che lo farà, prima o poi, ma è un ragazzo serio. Ed è fidanzato. Non che io desideri prendere il posto di Irene. Non potrei mai mettermi seriamente con un benzinaio. Forse lui non è abbastanza testa di cazzo per andarmi bene. E se lo diventasse non mi andrebbe più.

    Mi vede arrivare da lontano, nonostante la nebbia. Mi saluta con le mani che sanno di benzina, come sempre. Il sorriso furbetto mi fa capire che sta già escogitando qualcosa da dire. Mentre parliamo e ridiamo lo fisso nei suoi occhi verdi e oro. Un colore che mi piace molto e che non è facile trovare. Ha tagliato i capelli castani chiari da poco e ora le sue orecchie piccole e perfette sono in bella vista, con un brillantino al lobo sinistro. So che sua madre non ha gradito l’orecchino. Non se ne vedono molti, qui.

    Perdo tempo.

    Mia madre mi chiama dal negozio, è ora di andare. Lei ha già fatto la chiusura della cassa, contato i pochi soldi che quel posto rende giornalmente, calcolato cosa comprare all’ingrosso l’indomani a pranzo.

    Io non amo quel posto. Non so se è per lo smacco che rappresenta per la mia vita o se è solo il fatto che sia così normale a infastidirmi. Avere un negozio di alimentari non è particolarmente interessante, anche se quando ci lavoro aiutando mia madre e mia sorella in fondo mi ci diverto pure. Forse perché immagino che durerà poco e che non sarà il mio lavoro. Non quello vero.

    Saluto Paolo e vado incontro a mamma. Lei, intanto, tira giù la serranda e apre la macchina. La nostra 127 spork rosso pomodoro di ultima mano. L’unica auto che possiamo permetterci. L’unica che potevamo pagare in contanti al concessionario, dopo che ci avevano portato via la Uno.

    Butto il borsone sul sedile posteriore, sfiorando mia sorella Maria. Mi siedo e faccio le chiacchiere di rito mentre torniamo a casa. Ancora una ventina di chilometri, più o meno. Nel nulla del nulla.

    Mamma ci tiene molto a sapere come è andata la mia giornata. E’ uno svago rispetto a quello che ha fatto lei, alle clienti capricciose e ladre che serve ogni giorno col sorriso stampato sulle labbra. Non era questo che voleva, nemmeno lei. Ma è una donna pratica, mia madre. Non è mai stata più di una settimana senza almeno un lavoro minimo da fare. Che fosse guardare un’anziana, o dare ripetizioni di francese e matematica, fare la segretaria, la baby sitter… Non si è mai lamentata della vita, nonostante tutto.

    Così le racconto per filo e per segno la mia giornata. Chi ho visto, che lezioni ho fatto e con quale sorprendente risultato. Io tento di vivere il suo sogno e fare la ballerina, lei cerca di fare il possibile per aiutare me e mia sorella ad arrivare alla maggiore età senza troppi sacrifici.

    A casa ceniamo, usando gli alimenti in scadenza o scaduti che avanzano dal negozio. Quasi tutto è commestibile anche giorni dopo la scadenza. Latte, yoghurt, pasta, biscotti, surgelati e formaggi. Frutta e verdura la mangiano quasi sempre loro, visto che a me non piacciono. Tutto scorre tranquillo, a tavola.

    Poi vado a prepararmi, con Maria. Andiamo a ballare, anche stasera. Lo facciamo ogni sera in cui la discoteca è aperta, estate e inverno. A volte anche solo una toccata e fuga, per non rientrare troppo tardi. Abbiamo una tessera con ingresso gratuito: il lato positivo di essere femmine. Come anche i passaggi in auto o moto che rimediamo con facilità.

    Non sono mai troppo in tiro, tanto non vado per avere una vita sociale.

    Io in discoteca ci vado per ballare. Punto. Da quando entro a quando è ora di uscire non mi muovo dalla pista, parlo solo con Maria o con chi conosco già, non bevo, non uso il bagno, non mi siedo sui divanetti. Tranne quando ho un ragazzo. Ma se non è uno che balla la storia non dura, a meno che non ci si veda solo nei giorni in cui la discoteca è chiusa.

    Maria ed io salutiamo mamma e andiamo a piedi fino in piazza, un po’ di fretta. Dobbiamo trovare il passaggio giusto, la vespa è l’ultima alternativa. Fa freddo. Per raggiungere la piazza dobbiamo attraversare mezzo paese, con la gente che ci guarda da dietro le tendine e domani avrà da raccontare. Non sopporto questa gente di paese, chiusa nel suo ritmo agricolo e nella morale superficiale delle chiacchiere tra vicine. Basta avere un pizzico di originalità per diventare argomento di storie fantasiose e mai troppo benevole. Eppure mi sono adeguata, in un certo senso, ribellandomi. Sono eccessiva anche quando faccio le cose normali, anche quando non c’è un briciolo di sporco in me faccio di tutto per dare l’impressione di essere lercia.

    Così mi diverto a conciarmi in modi stravaganti per andare a ballare, insieme a Maria, ogni volta un travestimento diverso. Perché sì, in fondo ci travestiamo.

    Un carnevale perenne a uso e consumo di un branco di pettegole sciocche.

    Massimo, con la sua Golf nera, ci porta alla meta. Maria incontra subito dei suoi amici, io mi dirigo tranquilla alla pista piccola, quella con gli specchi. Il mio angolo. La serata vera e propria deve ancora iniziare, ma io comincio subito a ballare, per scaldarmi. Non guardo molto gli specchi, in realtà. Ballo con lo sguardo verso la pista più grande. Ma ho il mio spazio assicurato e nessuno mi spingerà un passo più in là.

    Sto bene. Quando ballo sto meglio.

    Mi muovo. Mi scateno. Dimentico ogni cosa.

    Le vibrazioni della musica sembrano far parte di me, io le seguo come se fossi in trance. È sempre così, quando ballo. Sono una specie di burattino e lascio che la musica mi porti dove vuole andare lei. Non c’è sensazione che mi dia la stessa tranquillità. Non ho preoccupazioni di sorta.

    Ogni tanto passa Maria a presentarmi qualcuno. Come fosse il mio pierre, tutti passano prima da lei. Io saluto e continuo a ballare.

    La serata finisce, almeno per noi. Non possiamo fare troppo tardi, cerchiamo il nostro accompagnatore e torniamo.

    Maria ha bevuto un po’. Cercano sempre di farla ubriacare, e a volte ci riescono. Mamma dorme e noi andiamo a letto, ognuna in camera sua. Tranquille.

    Al mattino la sveglia suona presto. Dobbiamo andare al paese vicino a prendere il pane appena sfornato. Lo carichiamo in macchina e imbocchiamo la statale, avvolta nella nebbia lattiginosa. Non si vede a un metro, ma andiamo. Dobbiamo andare. La poca luce del mattino non ci aiuta. La macchina ormai conosce la strada.

    Aprire il negozio è un’operazione consueta, veloce. Serrande, luci, luci dei banchi frigo. Sistemiamo il pane nelle ceste, tiriamo fuori frutta e verdura dai frigo, i salumi e i formaggi vanno al loro posto, coi cartellini del prezzo piantati sopra. Tra poco arriverà il furgone del latte, ci sono ordini, merce in scadenza. Una rapida occhiata a tutto, l’apertura della cassa… Poi l’attesa.

    Certe mattine passano quasi senza un cliente, mentre noi stiamo lì, pronte. C’è sempre qualcosa da fare, ma quando non vedi entrare nessuno ti passa la voglia. Il sabato, poi, c’è il mercato su in centro. Le nostre clienti ci passano davanti cariche di borse e salutano, ma spesso non entrano.

    Al distributore là davanti, Paolo è già all’opera. Benzina, vetri, olio, acqua. Qualche gonfiatina di gomme. Mi saluta con un cenno, io ricambio e rientro. C’è tempo, lui verrà prima di pranzo a comprarsi il solito panino del sabato. Così avremo modo di farci le solite battute stronze e di fantasticare.

    Qualche cliente entra, finalmente. Poca roba, ma va bene. Mi tocca la cassa.

    Un anno fa un tizio mi ha puntato una pistola, proprio qui alla cassa. È stata una cosa insolita, non so nemmeno se ho avuto paura. Ero molto arrabbiata, questo sì. Con tutta la fatica che facciamo a tirare avanti, vieni proprio a rapinare me? L’incasso del giorno non raggiunge le trecentomila lire, capirai che ci facciamo con tutti ‘sti soldi… Eppure il tizio, capelli neri e mossi unti di gel, alto e magro, con una camicia a quadri mi ha puntato la

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1