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Beyond the Veil
Beyond the Veil
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E-book292 pagine3 ore

Beyond the Veil

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Info su questo ebook

"Ognuno di loro custodisce storie e vite piccola mia… devi sempre osservarli con estrema attenzione. Nascondono, a volte, anche pericolosi segreti, che forse è meglio rimangano tali…".

Con queste parole custodite nell'anima, Emma Valenti, giovane laureata in Conservazione e Restauro, approda tra le mura del più antico monastero nel cuore della Foresta Nera. Ancora scossa per la perdita dei genitori, periti in circostanze poco chiare proprio in Germania, Emma sa di essere l'unica in grado di scoprire la verità. Tra quelle antiche mura, Emma si scontrerà con l'austero professor Von Richt, custode di un antico segreto, e tenere a bada l'attrazione tra loro sarà quasi impossibile. Proprio nel cuore di quel monastero, tuttavia, si cela una maledizione che narra di un passato fatto di inganni, tradimenti e una vendetta bramata dal fantasma di un oscuro abate.
LinguaItaliano
Data di uscita19 dic 2021
ISBN9788831481243
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    Anteprima del libro

    Beyond the Veil - Maria Margherita Messina

    1

    Al di là delle montagne

    Germania, 2017


    Con le dita sbloccò rapidamente i bottoni della valigia e diede un’occhiata agli abiti. Per fortuna, nessuno dei suoi adorati maglioni di ciniglia si era spiegazzato, nonostante la forte turbolenza che l’aereo aveva attraversato durante il volo. Era abituata a viaggiare sin da bambina, ma l’ansia per quella partenza improvvisa, seppure voluta, si era radunata tutta nel petto, impedendole di respirare e godersi in serenità la breve tratta che l’aveva portata in Germania.

    Iniziò a tirarli fuori a uno a uno, insieme con il resto dei vestiti e dei numerosi volumi che si era portata dall’Italia. Non si sarebbe mai separata dai propri libri, li avrebbe portati con sé persino in capo al mondo.

    Sentì d’un tratto bussare alla porta e sbuffando richiuse la valigia.

    «Sei arrivata, finalmente! Ero curiosissima di conoscerti. Benvenuta, io sono Glinda, la tua compagna di camera… posso?»

    «Oh, certo.»

    Si fece da parte e osservò quello strambo esserino che si era catapultato in camera: una crocchia di capelli rossi decorata da mille e più matite colorate e che faceva da contorno a un viso color latte, con qualche spruzzo di lentiggini, dove spiccavano luminosi e vispi occhi verdi; una t-shirt larga più del necessario, di un rosso acceso, era stata abbinata a un paio di leggins neri e a degli stivaletti dal tacco vertiginoso.

    Al confronto, si sentì sciatta. Aveva ancora addosso il cardigan beige, i jeans chiari e gli stivali con tacco basso indossati per il viaggio. In aereo preferiva stare comoda e non amava truccarsi, eccezion fatta per gli occhi. I capelli, invece, erano legati in una lunga treccia laterale. Tutto sommato non stava male, ma di fronte a quel figurino di ragazza lei si eclissava.

    «Tu come ti chiami?»

    «Sono Emma.»

    Con un sorriso smagliante, Glinda le tese la mano.

    «Wow! Hai degli occhi splendidi. Sono… viola, vero? Una rarità.»

    «Ecco…»

    «Be’, Emma, sono certa che ci troveremo benissimo. Ora corro, ho l’accoglienza delle matricole. Se hai domande, chiedi pure. Questo posto lo conosco meglio delle mie tasche. Immagino che ci vedremo a lezione.»

    «Sì, ecco, a tal proposito…»

    Ma, così com’era entrata, Glinda sparì.

    Emma battè più volte le palpebre, poi un piccolo sorriso le si palesò sulle labbra.

    Il bip del cellulare le fece voltare lo sguardo, ma leggendo da chi proveniva il messaggio sbuffò. Non era ancora pronta ad affrontarlo.

    Finì di svuotare i bagagli, ripose tutto nell’armadio e si preparò ad affrontare quella giornata.

    Quattro volumi da seicentottantaquattro pagine l’uno, una manciata di fogli protocollo e delle penne colorate infilate nelle tasche le consentivano di restare a malapena in piedi. Ma le gambe sapevano che doveva correre, perché era in ritardo e per di più era il suo primo giorno in quel luogo sconosciuto, ma affascinante.

    I tacchi rimbombavano lungo i corridoi, mentre il vociare degli studenti permeava le pareti. Ogni tanto Emma si guardava attorno per verificare che la direzione presa per l’aula studio fosse esatta ed evitare di incappare in qualche muro; ogni tanto rallentava per godersi la bellezza delle vetrate colorate e l’architettura di quell’edificio.

    Girò a destra, a sinistra e infine imboccò l’ultimo corridoio utile per giungere a destinazione. Il suono del cellulare la distrasse e improvvisamente la pila di libri volò in terra, seguita dal suo sedere che si schiantò contro le fredde pietre del pavimento.

    «Accidenti! Ma che…»

    «Dovrebbe stare più attenta. Non distrarsi come se fosse una bambina, siamo in un’università.»

    Gli occhi pervinca di Emma si piantarono sulla figura di nero vestita che l’osservava attraverso gli occhiali stretti: un uomo alto, dal fisico asciutto, con i capelli lunghi sino alle spalle che contornavano un viso dalla carnagione di un bianco che mai prima aveva visto nella vita.

    Il cuore le prese a battere all’impazzata: imbarazzo, un tremendo imbarazzo si stava impadronendo di lei, insieme con una raffica di pensieri che non riusciva a mettere a fuoco.

    «Mi scusi. Purtroppo, i libri pesavano e…»

    «È in ritardo» le disse lui secco, inforcando ancor di più gli occhiali sul naso. Poi riprese a camminare e la lasciò lì, ancora col sedere per terra e il sopracciglio sinistro che si inarcava infastidito.


    «Emma! Emma, vieni qui!»

    La voce squillante di Glinda le fece alzare gli occhi e arrossare leggermente le guance, soprattutto perché alcuni sguardi si posarono su di lei. L’aula, prettamente lignea e dalla forma ellittica, sembrava poter contenere un’intera cittadina, eppure poteva contare a malapena quaranta persone. Non come le aule studio in Italia: lì spesso la gente trovava posto solo a terra, e per giunta incastrata in modo strategico.

    Salì i gradini e si posizionò al fianco della ragazza dalla folta chioma rossa, adesso lasciata completamente sciolta a ricaderle lungo la schiena.

    «Accidenti, ti sei preparata un armamento. Ma ti servirà a poco, qui vale l’attenzione e ascoltare ogni singola parola che lui dirà.»

    «Conosci il professore? Io ho solo trascinato con me i libri che usavo a Verona, pensavo potessero essere utili.»

    «E invece temo tu abbia attraversato l’intero monastero con quintali di poveri alberi tra le braccia quando quei fogli e quelle penne erano l’unica cosa che ti servivano.»

    «Accidenti, oggi non me ne va bene una. Il mio taxi è arrivato in ritardo, ho urtato contro un becchino lungo i corridoi e mi sono trascinata dietro libri inutilmente.»

    «Hai urtato contro un becchino?»

    «Un tizio vestito di nero mi è venuto addosso. O meglio, io ci sono finita contro perché non vedevo nulla. E non mi ha nemmeno aiutata ad alzarmi. Che gran cafone.»

    «Ho capito solo il tre percento delle parole che hai pronunciato, benché il mio italiano sia in fase di miglioramento.»

    «Perdonami», le disse, attivando nella testa il suo tedesco non del tutto arrugginito. «Invece hai una buona pronuncia del tedesco, ma non hai l’accento di queste parti…»

    «No, sono una degna figlia della terra di Babbo Natale e delle band metal che si perdono nei boschi per fare i servizi fotografici. Sono finlandese, ma abito qui da tempo.»

    Un sorriso spontaneo incurvò le labbra di Emma, facendola ridere di gusto.

    «È la carta d’identità più carina che mi abbiano mai fornito.»

    «Oh, sì. Sono un tipo un po’ particolare. Ti ci abituerai» le rispose l’altra facendole un occhiolino divertito. Poi continuò: «E a proposito di becchini, credo di aver capito a chi ti riferissi» aggiunse Glinda indicando con la matita l’entrata dell’aula.

    Mentre lo sguardo di Emma si spostava verso la porta, un silenzio più assordante del brusio che l’aveva accolta avvolse l’elegante figura che fece il suo ingresso nell’aula. Con gli occhi sgranati, osservò con quanta lentezza l’uomo vestito di nero si avvicinava alla cattedra. Dopo averne sfiorato la superficie con le dita, le sfregò fra loro, con meticolosa attenzione. Con la mano destra sfilò via le lenti per riporle sul tavolo ben ripiegate. Poi lo sguardo, fino a quel momento distaccato da tutto, si sollevò sulla platea.

    Solo in quel momento Emma si rese conto di quanto accesi e dal profondo color blu cobalto fossero quegli occhi, seppure privi di ogni briciolo di emozione.

    «Quello è il professor Markus Von Richt» disse a bassa voce Glinda, ma Emma rimase incatenata alla visione, con il cuore che fece un piccolo salto quando gli occhi dell’uomo si posarono fermi e decisi nei suoi.

    Enrico spense l’auto e osservò il palazzo dalle fini decorazioni in stile rococò che lo aveva sempre affascinato. Quando lo aveva visto la prima volta aveva creduto di essere di fronte al palazzo di Pollicina, talmente i balconi strabordavano di fiori profumatissimi e colorati. Lei, in effetti, somigliava un po’ alla piccola fata dei tulipani, malgrado i folti capelli scuri. Sorrise e, scendendo dalla macchina, prese in mano il mazzo di tulipani bianchi che le aveva comprato. Sapeva che lei li adorava.

    «Ispettore, è sempre un piacere vederla» lo salutò il portiere. «Cerca la dottoressa?»

    «Precisamente. Non dirle che sono qui, voglio farle una sorpresa.»

    «Credo che la sorpresa l’abbia fatta lei a voi!» rispose l’uomo, ridendo e riprendendo in mano il quotidiano che stava leggendo.

    «Che vuoi dire?»

    «La piccola dottoressa è partita tre giorni fa.»

    «Che cosa? E per dove?»

    «Non saprei, ispettore. Non mi ha lasciato detto nulla, se non che non sarebbe tornata per un bel po’.»

    «Addirittura! Sicuro che non abbia lasciato almeno un messaggio per me?»

    «Mhm… no. Però aspetti. Se per caso, ecco, riuscisse a rintracciarla, le dia questo. È arrivato dalla Germania.»

    Enrico prese in mano il pacchetto e scrutò chi fosse il mittente, poi alzò lo sguardo verso l’uomo.

    «Quando è arrivato?»

    «Il mattino dopo la partenza della Emma.»

    «Grazie, Edo.»

    «Non sarà facile consegnarglielo, non è vero?»

    «Sarò con lei. A presto.»

    «A presto, ispettore Magistris.»

    Enrico guardò per un secondo i fiori che teneva in mano, poi tornò da Edo e gli disse di darli alla moglie. L’istinto di gettarli a terra era stato forte, ma almeno qualcuno avrebbe potuto godere di quella bellezza. Rigirò ancora il pacchetto fra le mani e poi, una volta tornato in auto, digitò un messaggio pur sapendo che non avrebbe ricevuto risposta. Dove diamine si era cacciata?

    Un ultimo sguardo all’indirizzo del mittente, poi accese l’auto. Non solo Emma era sparita, ora pure sua madre si metteva a inviarle pacchetti dall’oltretomba.

    Foresta Nera, 1140


    Il respiro era sempre più affaticato.

    Dinanzi agli occhi solo un’immensa distesa di alberi e neve. Fredda e pungente neve, che non aveva smesso nemmeno per un attimo di posarsi addosso, sul mantello e sulla criniera del cavallo, che di tanto in tanto scuoteva il capo per liberarsene.

    Aveva perso l’orientamento, dovette ammetterlo, e la notte stava sopraggiungendo, silenziosa e letale. Non poteva restare a lungo in mezzo al bosco, doveva trovare un riparo.

    Spronò ancora il fedele compagno e si strinse di più il mantello addosso: doveva restare vigile, ma gli occhi iniziavano a dolerle per l’aria gelida e la stanchezza. La tentazione di chiuderli era terribile e dovette appellarsi a tutte le proprie forze per non cedere. Per non lasciarsi prendere da sorella morte. O dai suoi inseguitori.

    Ladri, sicuramente, che avevano adocchiato una donna che viaggiava sola. Sciocchi che non erano altro, avrebbero trovato pane per i loro denti.

    Un nitrito in lontananza attirò la sua attenzione: di nuovo cavalli in avvicinamento. Spronò il destriero, convinta che in quella fitta foresta, oscura e gelida, li avrebbe seminati. Che sarebbe riuscita a fuggire via una volta per tutte. Poi vide in lontananza un’oscura figura che galoppava veloce nella sua direzione.

    Seminiamolo.

    Corri Idra, nascondiamoci!

    In quel giorno grigio e freddo, al di là delle montagne, in mezzo a una fitta foresta di alberi immortali, i suoi occhi blu cobalto la videro.

    Una bellezza senza pari, folti capelli color ebano che ondeggiavano al galoppo di uno stallone nero.

    Spronò il cavallo e si lanciò all’inseguimento della giovane donna che se ne andava da sola in giro per quel bosco selvatico. Il terriccio bagnato si rialzava a ogni colpo degli zoccoli del cavallo, il freddo lo carezzava in modo sempre più pungente, finché le guance non gli si tinsero di un tenue rosso.

    La creatura femminile non accennava a smettere di correre, spronando il cavallo a tenere un’andatura sempre più veloce, più pericolosa, spingendolo sempre più vicino alla ripida discesa alla quale si stavano avvicinando.

    L’uomo gridò qualcosa, ma quella frase non giunse alle orecchie di lei, soffocata dal rumore degli zoccoli dei cavalli. Il cappuccio in velluto nero che indossava iniziò a traballare e gli cadde sulle spalle, lasciando che i lunghi capelli bianchi fossero liberi di svolazzare durante la corsa.

    Fu allora che la giovane si voltò per un attimo, lanciando un rapido sguardo al cavallo bianco che la stava inseguendo. E al suo fantino.

    Gli occhi cobalto incontrarono quelli pervinca, frenetici e luminosi, che però si nascosero nuovamente, per tornare a guardare il percorso innanzi a lei.

    Doveva rivederli.

    Di nuovo.

    E ancora.

    Una creatura umana non poteva possedere quegli occhi.

    Spronò il cavallo e gli sembrò di avvicinarsi un po’ di più a quella figura che, molto più esile di quello che aveva pensato, si mostrava ai suoi occhi.

    Era lì, vicino a lei.

    Tese il braccio, le urlò di fermarsi.

    Ma poi la vista divenne offuscata, le palpebre si fecero pesanti.

    E gelide tenebre lo avvolsero.


    «Sommo Guardiano, è riuscito a scappare!»

    «Razza di idioti! Dovete trovarlo, assolutamente.»

    «Una delle guardie lo ha ferito, non riuscirà ad andare lontano.»

    «Non sottovalutatelo, non è un ingenuo. Si pentirà di aver ostacolato i miei piani, di esser fuggito alla condanna. Ma adesso è lei quella che mi interessa. Non perdete tempo e raggiungete quella maledetta strega! Qualsiasi cosa pur di prendere ciò che è mio!»


    Qualcosa di freddo e fievole gli sfiorò le dita.

    Avrebbe voluto aprire gli occhi, ma il torpore alla schiena e alle gambe glielo impediva. Probabilmente era morto, o perlomeno sul punto di morire, poiché quella sensazione di freddo intorno, di silenzi sinistri, poteva appartenere solo alla tomba nella quale lo avevano seppellito. L’odore di terra umida gli penetrò le narici, inebriandolo e stordendolo.

    Mosse ancora le dita, toccando una sostanza setosa e gelida che gli parve familiare.

    Neve.

    Allora chiese agli occhi di ascoltarlo, di provare a fargli vedere nuovamente la luce. Li pregò, e infine eccolo, un pallido chiarore lunare che quasi lo accecò.

    Provò anche a muovere la testa e capì che la neve l’aveva quasi del tutto ricoperto, facendolo divenire un tutt’uno con candore e gelo. L’uomo si fece forza e alla fine riuscì a spostare il capo, prima a destra e poi a sinistra.

    Nulla. Il vuoto totale.

    Ma dove diamine era finito?

    Alberi alti e dai rami bruni lo circondavano, ma non sembrava esserci anima viva, neanche il suo cavallo.

    Provò a ricordare, ma niente. Poi un frammento, come un lampo che preannuncia il temporale.

    Sensuali occhi pervinca.

    Scattò, mettendosi a sedere e spazzando via la neve dal proprio corpo. Provò una forte fitta alla schiena, come mille e più aghi conficcati nella carne.

    Era intirizzito dal freddo e non sapeva quanto fosse rimasto sepolto sotto quella coltre gelida, ma quando scorse una figura pallida distesa a terra, a poca distanza, una strana forza gli si scatenò nell’animo facendolo correre verso la fata dai meravigliosi capelli corvini.

    2

    Anche i becchini hanno fascino

    Germania, 2017


    Pigiò il numero diciassette sul display della macchinetta, inserì le monete e attese la sua cioccolata calda.

    «Ma voi italiani non prendete solo il caffè? La cioccolata è più da finnici.»

    Emma alzò lo sguardo su quello allegro di Glinda, intenta a giocherellare con una ciocca di capelli che non decideva da che parte stare.

    «In realtà, la cioccolata mi rende più attiva del caffè e con questo freddo ho bisogno di ritemprare i muscoli. Vuoi qualcosa?»

    «Assolutamente no, sto cercando di smettere. Sino allo scorso anno quella macchinetta era la mia droga, prendevo cioccolata ogni due ore.»

    Emma prelevò la bevanda e soffiò leggermente su di essa: il profumo era tanto invitante, caldo e avvolgente che d’istinto la portò più vicina alle labbra per saggiarla.

    «Allora, cosa ne pensi del tuo becchino

    La lingua si ustionò ed Emma allontanò il bicchiere cercando di non bruciarsi ulteriormente.

    «Cos… cosa intendi?»

    «Ehi, ti sei fatta male? Lo so che quello porta solo rogne, ma la sua è una materia obbligatoria. Analisi e Letteratura degli Archetipi, che pesantezza…»

    «A me piace. La materia, ovviamente. Sono venuta qui proprio per questo motivo. Devo perfezionarmi nello studio di alcuni manoscritti e ho necessità di seguirla.»

    «Catapultata nella tenebrosa terra della Foresta Nera per seguire un altrettanto tenebroso professore. Sei fortunata, almeno hai solo il suo corso da seguire. A me mancano altre materie per completare il ciclo di studi. Poi potrò considerarmi una paleografa a tutti gli effetti.»

    «Non è poi così tenebroso.»

    «Ma se lo hai definito becchino!»

    Emma alzò lo sguardo, inarcando il sopracciglio e cercando una via di fuga da quella stramba discussione.

    «Oh, andiamo, sto scherzando. Markus incute terrore, ma è uno dei più bravi qui. Ti annienta agli esami, ma ne esci soddisfatto.»

    «Markus? Lo chiami per nome?»

    «Solo quando non è presente. Detesto i cognomi, sono un tipo semplice. A te ho chiesto il cognome? No. Pronunciare Emma è già difficile, pensa se dovessi aggiungere il cognome. Voi italiani avete nomi assurdi.»

    Emma scoppiò a ridere, riportando alle labbra la cioccolata, ormai non più così bollente.

    «Toglimi una curiosità. A cosa ti serve la materia del becchino? Mi hai detto che hai già una laurea.»

    «Diciamo che serve un po’ a tutto: università e curiosità personale. E poi avevo bisogno di allontanarmi da Verona.»

    «Verona! La città dell’amore. Certo, se pensi a che brutta fine hanno fatto Romeo e Giulietta… ma, dimmi, si tratta di questioni di cuore?»

    Emma si schiarì la voce, poi gettò il bicchiere nel cestino.

    «Più o meno.»

    «Non dirmelo, un fidanzato geloso?» chiese divertita Glinda, ma cambiò espressione quando Emma si arrestò di colpo.

    La guardò confusa.

    «I miei genitori sono morti quasi un anno fa. Incidente d’auto.»

    Lo scrosciare dell’acqua attutì solo per qualche minuto il turbinio di pensieri che in meno di un’ora si erano accalcati rabbiosi nella sua testa: si era ripromessa di non parlare di quella storia, di loro, di quel maledetto giorno. E invece Maria e Guglielmo erano di nuovo lì, non smettevano di tormentarla, di ossessionarle l’anima e la coscienza.

    Non è stata colpa tua, non è stata colpa di nessuno. È stato il destino, il fato crudele ha deciso di giocarti un brutto tiro.

    Lo ripeteva come una cantilena, con i denti stretti e il cuore sanguinante. Ricordava ancora le parole del terapista: Non si addossi colpe che non ha. Lei deve vivere, deve ricominciare a vivere la sua vita. Chiuda col passato.

    L’acqua smise di scorrere, i lunghi capelli le ricaddero appiccicati alla pelle, come a voler proteggere l’esile corpo, ora immobile, ma spezzato irrimediabilmente.

    Emma si osservò le mani che tremavano, il dolore le risalì nel petto e così fece il senso di nausea. Strinse i denti, chiuse gli occhi e poi li riaprì, osservando le braccia con lo sguardo velato da lacrime

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