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Ti amerò mio malgrado
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Ti amerò mio malgrado
E-book469 pagine7 ore

Ti amerò mio malgrado

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Info su questo ebook

Maria Carmen ha sedici anni e vive un'esistenza serena con la mamma e la zia. Finché un giorno certe compagne di scuola le dicono che le due donne non sono sorelle, ma amanti. Trovandole abbracciate al ritorno da scuola, la ragazza vede confermati i sospetti e fugge, finendo contro una macchina. E così Maria Anna, la zia, fuori dalla sala operatoria ricostruiscono alla ragazza l'articolazione del gomito, narra a Maria Carmen la sua vita, intrecciata con quella di Marianna e di Manuel, la madre e il padre della ragazza. Presto ciò che dovrebbe essere il racconto del legame tra le due donne diventa la storia di un amore capace di perdonare tutto.
LinguaItaliano
EditoreAbel Books
Data di uscita20 mar 2013
ISBN9788867520503
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    Anteprima del libro

    Ti amerò mio malgrado - Chiara del Soldato

    Chiara del Soldato

    Ti amerò mio malgrado

    Abel Books

    Proprietà letteraria riservata

    © 2013 Abel Books

    Tutti i diritti sono riservati. È  vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Abel Books

    via Terme di Traiano, 25

    00053 Civitavecchia (Roma)

    ISBN 9788867520503

    A tutte le fate gentili

    Che da sempre seguono

    Sostengono e diffondono

    I miei lavori

    Video meliora proboque

    deteriora sequor

    Ovidio, Le Metamorfosi, 7

    1

    Maria Anna, con la testa infilata tra i gerani color rosso smalto, scrutava dal terrazzo di cucina nel cortile, cercando di non farsi vedere. Di sotto giocavano gli altri bambini del condominio: un paio erano della sua età, un paio più grandi, tre avevano un anno meno di lei. Giocavano a nascondino e Miriam contava velocemente, mentre gli altri si eclissavano uscendo anche sulla strada privata adiacente, in cui di rado passavano automobili.

    Maria Anna avrebbe tanto voluto esser lì con loro, ma come poteva scendere se nessuno l’aveva chiamata? La mamma le diceva di andare a giocare, senza aspettare inviti ufficiali, ma lei era ancorata al balcone dalla sua timidezza. Così stava trascorrendo in solitudine anche quel bellissimo pomeriggio di sole.

    An-na, An-na, An-na sentì urlare da sotto e si chiese subito se la stessero canzonando, perché si erano accorti che li spiava, o semplicemente la chiamassero. Decise di credere alla seconda ipotesi e si affacciò.

    Ehi, scendi? disse Rosetta, la ragazza del piano di sopra, che frequentava la prima media e le sembrava già signorina, con la forma del petto un po’ pronunciata.

    Che fate? chiese con sufficienza, mentre avrebbe voluto dire: perché non mi avete chiamato prima, cattivi?

    Nascondino.

    Ritenne che fosse giusto tenerli un po’ sul filo. Rosetta la guardava tenendosi il palmo della mano sugli occhi, per pararsi dal sole.

    Veramente starei leggendo.  

    E dai, siamo pochi. Nascondino è bello in tanti.

    ‘Ah, ecco perché mi cercate!’ Doveva immaginarlo.

    E su, non fare la preziosa sentì dire a sua madre dietro di lei. Scende, scende, aspettatela. Poi la prese per le spalle, la voltò come se fosse una marionetta e le fece gli occhiacci. È inutile che tu spasimi dietro i fiori e poi la fai tanto lunga, quando ti chiamano!

    Poi le rassettò il collo della camicetta, le riavviò bruscamente i capelli ricci sempre in disordine, le diede due forti pizzichi sulle guance, che riteneva troppo bianche. In ognuno di quei gesti Maria Anna non riuscì a sentire altro che stizza.

    Stringendola forte su una spalla la mamma la spinse fino alla porta e poi fuori di essa. Un suono secco segnò la definitiva separazione dal luogo protetto che era casa sua. Si ritrovò sola sul pianerottolo: le veniva da piangere. Scese piano gli scalini, uno per volta, reggendosi al corrimano e stropicciandosi un occhio.

    Uno… prima un piede, poi l’altro accanto;

    due… prima un piede, poi l’altro accanto;

    tre… prima un piede, poi l’altro accanto…

     Dalle aperture delle scale arrivava la voce dei compagni che le urlavano di far presto. E lei che prolungava quella discesa all’infinito: prima un piede, poi l’altro accanto; prima un piede, poi l’altro…

    Si fermò dietro al portone chiuso, prendendo fiato, ipnotizzata dal verde acceso della pianta grassa che ornava l’atrio, finché il rumore di qualcuno che scendeva la costrinse ad accelerare i tempi di preparazione psicologica.

    Uscì.

    Finalmente! disse Carlo, un ragazzino magrissimo, che le puntava addosso due insolenti occhi neri e in genere la metteva in soggezione con le sue continue burle.

    Ciao salutò in modo strascicato, tirando da una parte il vestitino rosa a fiori bianchi.

    Visto che ci hai fatto aspettare, conti tu e noi ci nascondiamoe le indicò il muretto.

    Maria Anna sorrise ma fingeva. Le dava il patema mettersi a fare la conta, rischiando di sbagliare i numeri. Una volta Carlo, che aveva pure un anno meno di lei, ma contava benissimo, se n’era accorto e l’aveva canzonata davanti agli altri per una settimana intera.

    Soprattutto però la terrorizzava cimentarsi nella ricerca, convinta com’era della propria inettitudine, che l’avrebbe costretta a restare in quel ruolo, finché qualcuno per pietà o noia non avesse deciso di sostituirla.

    Lanciò un’occhiata alla terrazza, sperando che non ci fosse sua madre, che invece era lì, affacciata, con le braccia appoggiate al parapetto e l’aria pensierosa. Ci mancava solo lei, non bastavano gli altri! La tortura iniziava.

    Uno due tre quattro cinque sei sette otto nove dieci dodici undici tredici…

    Maria! tuonò la mamma da lassù. Undici, dodici, accidenti! Poi si rivolse alla signora del terrazzo vicino, anche lei affacciata. Non riesce a superare questo errore; non capisco.

    ‘Perché non lo dici con l’altoparlante?’ e due lacrime uscirono senza essere state chiamate, mentre a bocca semichiusa Maria Anna continuava a contare. Sarebbe restata all’infinito in quella posizione con la testa appoggiata sulle braccia incrociate, ma doveva alzare la faccia e guardarsi intorno.

    Per forza.

    Lo fece. Sbatté le palpebre, strizzò gli occhi, fece una smorfia con la bocca, mentre sua madre dall’alto le gridava di cercare, di darsi da fare. "Coraggio, Annina, vai, fatti onore!"

    Che brutta parola le aveva detto! Era la parola che le faceva scattare un’ansia ancora maggiore, perché significava che la mamma si aspettava qualcosa  e lei di certo non sarebbe stata all’altezza.

    Si allontanò dal muretto mezzo metro, poi un altro mezzo, sbirciando a destra e a sinistra inutilmente.

    Dietro la macchina! urlò sua madre e lei, per farla contenta, camminò in quella direzione in modo guardingo, senza accorgersi che dietro, veloce come una lepre, sopraggiungeva Carlo.

    Tana! disse sbellicandosi dalle risa. Ma con te è troppo facile, dormi da ritta! e in men che non si dica, anche gli altri uscirono dal nascondiglio e più veloci di lei raggiunsero il muretto. Era rimasto nascosto solo un certo Vittorio, un ragazzo dai riccioli biondi e belli, non come i suoi, ispidi e insulsi, uno del palazzo accanto che veniva di tanto in tanto a giocare.

    In quel mentre uscì dal portone la signora che abitava proprio sopra al loro appartamento e che aveva avuto un bambino da poco. Ciao ragazzi.

    Era molto bella. Aveva un vestito a grandi riquadri bianchi, rossi e blu con una striscia gialla in basso; i capelli erano tirati su, ma una grande frangia faceva ombra a occhi dolci. Maria Anna pensò che avrebbe voluto che anche sua madre si vestisse in quel modo così colorato.

    Tutti le corsero incontro e si affacciarono alla carrozzina per guardare il piccolo. Non Maria Anna, che temeva di allontanarsi dalla postazione e rendere più facile a Vittorio la salvezza.

    Dorme Manuel? chiese la mamma dal balcone, mentre controllava tra i gerani l’eventuale presenza di qualche foglia secca.

    La signora alzò lo sguardo e la salutò con la mano. Non c’è male. Speriamo continui così. L’altro figlio mi ha fatto dannare! Mentre continuava a parlare, si tolse un orecchino, si massaggiò il lobo e lo riposizionò. Era un orecchino appariscente, che Maria Anna vide bene anche dalla sua posizione defilata.

    La signora si infilò poi grandi occhiali da sole quadrati e aggiustò il lenzuolo nella carrozzina intorno al corpo del figlio. Dopo qualche altra moina, i ragazzi la lasciarono uscire e, come se si fossero dimenticati del gioco lasciato a metà, guardarono Maria Anna meravigliati. Ancora lì sei? Non l’hai trovato Vittorio?

    Capì che il neonato era stato per loro solo un modo per ingannare il tempo, visto che lei non era divertente da guardare, non era capace, non osava. Fu presa da un moto d’orgoglio. Doveva stupirli.

    Si avventurò lontano dal muretto, assumendo una calcolata aria sicura. ‘Signore ti prego, almeno uno! Non farmi fare la figura della patata anche oggi!’

    E il Signore a suo modo l’aiutò. Come lei vide arrivare con la coda dell’occhio Vittorio da destra, si voltò di centottanta gradi e cominciò a correre, mentre tutti intorno facevano il tifo per l’altro. Ce la mise tutta, ma le scarpe dalla suola di cuoio non aderivano all’asfalto e fu lì che intervenne il Signore o l’Angelo custode. Dopo non seppe a chi dovesse dire grazie, dato che al catechismo le avevano insegnato che ognuno ha un angelo che lo protegge, ma lei aveva continuato ad immaginare che Dio fosse comunque superiore.

    Tesa al massimo nella posizione della corsa, sentì mancarle la presa sotto il piede e scivolò malamente, andando a sbattere la faccia contro l’asfalto.

     Sentì insieme un oh in coro, il suo nome gridato con trepidazione dalla madre, un qualcosa di dolce e caldo in bocca ed un bruciore sulle labbra.

    Per terra c’era del sangue, il suo, e le labbra battevano da morire, ma gli altri la stavano soccorrendo: Carlo le chiedeva se faceva male e la guardava con occhi buoni, Rosetta l’aiutava ad alzarsi, Miriam guardava la sua bocca gonfia pietosamente. Poi arrivò la mamma: l’accarezzò, la prese sulle braccia e la portò in casa. Tutti la seguirono. La medicò con acqua ossigenata, le mise dei cerotti sulle ginocchia e del ghiaccio sulla bocca.

    Ed ora un bel gelato esclamò, la miglior medicina! Tutti intorno al tavolo, ragazzi, a far compagnia alla povera Annina!

    I bambini mangiarono, risero e mimarono all’infinito il volo che Maria Anna aveva eseguito come se fosse un’acrobata, facendola ridere, anche se ridere le dava dolore al labbro.

    Quel pomeriggio di maggio rimase tra i ricordi più belli della sua infanzia. Aveva otto anni. Era il 1964.

    2

    Ecco, questa ero io e quel bambino nella carrozzina era tuo padre.

    Vuoi sapere tutto di lui. E te lo dirò, cominciando proprio dalla carrozzina.

    Perché non l’ho fatto prima?

    Lo capirai alla fine. Alla fine di tutto il racconto sarà molto chiaro il perché io e tua madre non ne abbiamo parlato. E sarà chiaro anche il rapporto tra me e lei, quello che ti ha fatto soffrire, per il quale non potevi chiedere chiarimenti. E certo! Come si fa a domandare: zia è la tua amante?

    Erano settimane che ti comportavi in modo strano, che non eri la ragazza che conoscevamo. Avrà litigato con un’amica, saranno pene d’amore, ci dicevamo, ma c’era qualcosa che andava oltre, che ci sfuggiva. Per questo ho frugato tra le tue cose. Sì, certo, non si fa…

    Mi immagino le tue tribolazioni: non voler credere alle cattiverie delle tue amiche nemiche, ma avere un tarlo in testa che lavora a loro favore, che mette in ordine i pezzi del puzzle e presenta un’immagine plausibile.

    Per questo sei fuggita come un’ossessa, quando ci hai visto abbracciate ( quante volte te l’avevamo detto di non uscire dal cancello in modo così disinvolto?).

    Ora che di là, in sala operatoria, cercano di rimetterti insieme il gomito, mi sembra tutto insensato.

    Hai ragione, ti abbiamo privato di un padre, ma l’abbiamo fatto perché fosse meno difficile sopportare i nostri ricordi. Parli di menzogna: capirai che l’amore ha tante facce, anche quella del silenzio. Si può fare e dire qualunque cosa per amore, ma si può anche tacere per lo stesso motivo. Tua madre ti ha voluto proteggere, ma ha voluto preservare anche me. Poi, sai come vanno le cose, passa il tempo, non è mai il momento giusto per riempire i vuoti.

    Ma ecco, ora ti dirò tutto e sarà utile anche per me.

    Non che siano mancati i bilanci nel tempo, ma a poco a poco tutto si livella. Si addolciscono i ricordi dolorosi, si illuminano quelli belli e non vedi piena di buche la strada percorsa, ma luminosa di un sole che non era forse così splendente e che rende meno pericolosi gli avvallamenti.

    Ho imparato a trovarci segni, affetti, gratificazioni. Ho imparato a voltarmi indietro e a dire che ne è valsa la pena: quella strada non è stata senza fatica, ma per dove mi ha portato è stato conveniente percorrerla.

    Oggi, però, per te riprenderò in mano tutto e lo farò munita di lente d’ingrandimento per capire con quanta ipocrisia io abbia camuffato le cose, esorcizzando con la serenità quel nodo della mia vita. Ci si può salvare dall’infelicità cancellando i difetti delle persone care, riempiendo di perdono sacchi e sacchi, così tanti sacchi che non possono più essere portati via ma restano ad ingombrare la visuale.

    È una storia, la mia, lunga molti anni, fatta di dolore, disistima, amore non corrisposto.

    Maria Anna è lì, piccola, con quell’occhio dalla palpebra leggermente abbassata, come se fosse davanti ad una forte fonte di luce, caratteristica che le fa assumere un’espressione strana, un po’ distante, leggermente altezzosa. E quella bocca così grande, sproporzionata, che si apre sguaiatamente in un sorriso quasi sbilenco.

    Oggi posso dire che se avessi avuto il dono di un figlio, non avrebbe avuto alcuna importanza il suo aspetto fisico.  Ma allora non lo sapevo. Credevo che la bellezza fosse il più efficace biglietto da visita anche nei rapporti d’affetto più stretti ed io non l’avevo, né avevo una simpatia tale che potesse compensare l’imperfezione. Ero timida, bruttina, assetata di affetto.

    3

    Non ricordo un tempo in cui mi sia sentita all’altezza degli altri. Mai. Avrei tanti esempi da portarti dell’asilo, della scuola elementare, delle superiori, ma tu vuoi sapere di tuo padre, quindi cerco di accelerare i tempi, di arrivare a lui quanto prima; un’altra cosa però voglio raccontartela. Dai, ascoltami, abbi pazienza. Non capiresti molte altre cose se non sapessi questa. Non avere fretta. Voi giovani volete tutto e subito, non sapete pregustare il finale durante il viaggio. Oggi dovrai farlo. Metterai un tassello per volta e avrai il quadro conclusivo. Non saltare pagine, lettrice del mio cuore, mia dolce Maria Carmen.

    Ti terrò per mano, come ho fatto tante volte con te bambina ubbidiente e fiduciosa. Abbi fiducia ancora una volta. Fatti guidare…

    Facciamo il gioco della bottiglia! urlò qualcuno alle mie spalle. Mi girai e vidi Angelo, il bello della classe, che sedeva nel banco posto dietro al mio e mi chiedeva sempre aiuto durante il compito di greco. Era arrossato, perché si era scatenato in una successione di balli veloci. Portava una camicia a fiori in perfetto stile fine anni ‘60, mostrando anche nell’abbigliamento una totale padronanza della scena, lui che raccontava di andare ogni anno a Londra e di acquistare da Harrod’s le cose più alla moda.

    Neanche mi vide. Del resto non mi cercava mai, ad eccezione del momento del compito. Mi sorpassò con lo sguardo benché fossi davanti a lui e per giunta vestita carina, con un abito color panna a piccoli fiori, che la mamma mi aveva fatto cucire dalla sarta. Mi pare di vederlo, di sentire il fruscio della stoffa… la parte alta era rappresentata da un corpetto aderente dotato di un foulard che si annodava per formare un fiocco, quella bassa da una gonna molto vaporosa e un po’ corta, che lasciava intravedere le gambe ben fatte.

    Forse ero fin troppo elegante per una festa di compleanno, ma davanti allo specchio mi ero sorrisa compiaciuta. I capelli si erano allungati e i ricci non sembravano più così brutti. L’unica cosa che non cambiava e mai sarebbe cambiata era la palpebra socchiusa, anche se avevo provato meticolosamente tutte le espressioni per scegliere quelle in cui il difetto sembrava meno vistoso.

    Un altro compagno, Bruno, sembrava farmi un po’ la corte. Era il primo che mostrava interesse per me e questo bastava per renderlo interessante. Avevo finito per essere contenta lo stesso. Per di più le mie compagne dicevano che non era male, nonostante il naso grosso e la pelle un po’ chiazzata.

    ‘Ha un pacco!’ avevano detto strabuzzando gli occhi.

    ‘Un pacco di che?’ avevo chiesto, prima di sentirmi dire che il pacco era il guardaroba maschile, quello basso. ‘Le palle, insomma!’ aveva sghignazzato Stefania, l’amica esperta.

    Facciamo il gioco della bottiglia urlò Angelo, cercando con lo sguardo la fata della classe, capelli lunghi biondi ossigenati, gonna e maglione a collo alto neri, stivali di pelle lucida che salivano sopra il ginocchio. Quindici anni che sembravano diciotto.

    Posizionarono le sedie in cerchio e ci sedemmo come veniva. A me capitò vicino Bruno. Peccato, pensai, ma poi vidi davanti a me Angelo in tutto il suo splendore apollineo ( la sua testa bionda e riccia mi ricordava quella della statua greca di Apollo posta sulla copertina del libro di storia) e fui ugualmente contenta di poterlo contemplare, senza destare sospetti.

    A me non toccò mai né dare, né ricevere penitenze; invece Stefania dette un bacio con la lingua a Bruno e dopo mi disse nell’orecchio che sapeva baciare. Sembrava proprio mi volesse spingere tra le sue braccia.

    In effetti lui non la smise di strofinare il braccio contro il mio e di mandarmi, più o meno velatamente, messaggi di corteggiamento, oltre ad un buon profumo di dopobarba.

    Poi a luci abbassate furono messi i lenti e lui mi invitò a ballare: mi stringeva anche troppo, ma era una bella sensazione sentirsi aderente ad un corpo maschile. Non riuscii a non pensare con imbarazzo al pacco, che percepivo chiaramente contro di me.

    Ero al settimo cielo. Avevo un corteggiatore anch’io, come le mie più esperte compagne che raccontavano di essere uscite già con tanti ragazzi, di aver baciato con la lingua, di essersi lasciate toccare il petto, cose che, solo a pensarci, mi facevano arrossire.

    Bella festa, eh? disse, ondeggiando la schiena per assecondare il ballo.

    Mi sto divertendo… un sacco. Alzai gli occhi verso di lui e vidi che guardava in giro, distratto. Siamo una classe unita, per essere in quarta ginnasio! In fondo fino a qualche mese fa nemmeno ci conoscevamo... e mi stupii di aver fatto un discorso così impulsivo.

    Scusa, ti ho pestato disse Bruno, che aveva scarpe di cuoio marrone lunghissime a causa di una punta sottile come un pungiglione. Si scostò e guardò le mie scarpe di pelle lucida, quasi piane, con un basso tacco quadrato. In confronto al piede di lui, i miei sembravano quelli di una bambina.

    Carine le scarpe... e anche il vestito. Stai bene vestita così.

    Il cuore mi batteva di gioia. Cercai disperatamente qualcosa da dire. Siamo fortunate oggi. Fino a qualche anno fa andavano i tacchi a spillo. Non so proprio come avrei fatto.

    Imagine on the people... e ancheggiò vistosamente, portandomi dentro il suo movimento.Non riesco a non pensare che lunedì c’è l’ultimo compito di greco. Se va male, sono caput.

    Andrà bene. La prof ce lo darà facile per non rovinarci.

    E comunque mi aiuti, vero? e lo disse facendo un esagerato sorriso.

    Ovvio. Lo guardai dritto negli occhi, ma lui allontanò lo sguardo.

    Cercai altri argomenti di conversazione. Mi venne in mente la nostra quasi coetanea Milena Sutter, rapita e ritrovata morta giusto qualche giorno prima. La sua storia m’aveva così scombussolata, che avrei avuto voglia di parlarne con chiunque, ma capii che non era il momento. E così mi venne l’ansia a forza di pensare a qualcosa di carino da dire. Inutilmente.

    Quando la lampada venne riaccesa, sbattei le palpebre per riabituarmi alla luce; nonostante la tensione legata alla ricerca di argomenti di conversazione, mi sentivo ammorbidita, rilassata. Mi chiesi cosa avrebbe fatto Stefania a quel punto e mi risposi che per farsi desiderare sarebbe andata in terrazza fingendo di aver bisogno di una boccata d’aria.

    Come fui sul balcone, però, vidi due corpi così avvinghiati in un bacio appassionato, che non riuscii ad indovinare a chi appartenessero. Ebbi un attimo di esitazione, poi feci dietro front e mi buttai contro la finestra, che in quel momento qualcuno stava chiudendo.

    Allungai le mani contro il vetro con un gesto istintivo e il vetro si ruppe fragorosamente, cadendomi sulla mano. Vidi il mignolo destro percorso da una lunga apertura bianca, che un secondo dopo si riempì di sangue. Cominciai ad urlare da fuori e gli altri da dentro. Tutti mi furono intorno, volevano fare qualcosa, ma fu Stefania a prendere la situazione in mano. Aveva in mente di fare il medico da grande e già si dichiarava abile in molte situazioni di pronto soccorso.

    Strinse al massimo con una fascia il polso per fermarmi il sangue, mi fece tenere il braccio alto rispetto alla spalla per bloccare il flusso, mi blandì con mille parole professionali, mentre i padroni di casa cercavano di contattare i miei genitori, senza trovarli. Venne allora deciso di condurmi al pronto soccorso, senza aspettare ulteriormente. Il padrone di casa in fretta e furia prese il borsetto, rimasto sotto una pila di giacche e maglioni, e mi guidò per le scale, mentre la madre restava a guardia della casa e dei ragazzi.  

    Stefania non mi lasciò sola un attimo, entrando con me nell’ambulatorio, dove a metà intervento, un intervento piuttosto lungo perché la ferita non era lineare ma sfrangiata, arrivarono finalmente i miei, mortificati del fatto di non essere stati rintracciati. Papà era bianco come un panno e fu fatto uscire, la mamma stette dentro, ma a distanza. La parrucca che indossava, gonfia di riccioli morbidi, e il trucco allungato all’egiziana stonavano col suo viso derelitto. La guardavo per non posare gli occhi sulla mano, che veniva ricucita. Stefania mi teneva l’altra e fu un conforto, anche se il cuore mi faceva più male della mano stessa.

    Mentre, dopo l’incidente,  ero in attesa di essere condotta al pronto soccorso, seduta in corridoio con l’asciugamano intorno al polso, avevo sentito due che parlavano, un po’ distanti.

    Uno diceva: Si è fatta male la tua ragazza.

    Non è la mia ragazza aveva risposto l’altro, che riconobbi come Bruno.

    Insomma quella che ti piace.

    Chi ti ha detto che mi piace?

    Credevo. Ci hai ballato i lenti. Carina... la faccia un po’ meno!

    E chi la guarda in faccia? Quando te la scopi, sei al buio.

    4

    Ecco perché piangevo. Lo squarcio era arrivato direttamente al cuore.

    Nessun ragazzo mi tentò più. Nei pochi, che cercarono di avvicinarmi, pochi perché io per prima mi isolavo durante le feste o durante l’intervallo delle lezioni, vedevo il probabile spettro della beffa, dell’inganno, della derisione. Lo specchio non mi rassicurava. Per quanto il mio corpo stesse crescendo normalmente in altezza e formosità, al punto da apparire gradevole, il mio viso era ancora orribile.

    Mi mancavano anche i vezzi che tradizionalmente le mamme e le nonne regalano ai figli, incoraggiandoli a credere nella loro bellezza. Mia madre era arida di complimenti e la nonna anche, sebbene mi spingesse almeno a prendermi meno sul serio.

    I miei complessi non si contavano, il mio desiderio di esser accettata pure.

    Avrei dato qualunque cosa per essere più spigliata, capace di cavalcare l’onda, ma, come dice un personaggio di Svevo, ci si nasce con il becco, come i gabbiani; non s’impara. Ed io non ho mai imparato, anche se ora, ironia della sorte, mi sento dire che sono un punto di riferimento, che sono solida e rassicurante.

    Mi viene da ridere! O forse dovrei piangere rendendomi conto di quanto poco gli altri, anche quelli che ti vogliono bene, ti conoscano. Poco fa tua madre, prima di addormentarsi con il tranquillante che le hanno somministrato i medici, mi diceva che se non ci fossi stata io, quando ti abbiamo vista per terra, svenuta, in quella pozza di sangue…

    Lei, infatti, si è buttata addosso a te e sono stata io a chiamare l’ambulanza, a dire agli infermieri quello che era successo. Lei è stata leggermente sedata, in preda com’era ad una crisi isterica ed ora è lì, nel letto accanto a quello che accoglierà te. Non ha un sonno tranquillo; ogni poco è scossa da tremori: forse la sua mente ripercorre quel momento, quell’immagine terribile.

    Insomma per qualcuno sono diventata un punto di riferimento. Eppure tua madre lo sa come sono davvero, mi ha conosciuto anni fa. Forse è per questo che ci tiene così tanto a sottolineare le mie abilità presunte; vuol dimostrarmi i miei punti di forza oppure rassicurarmi sul fatto che il mio posto nel mondo, nel suo mondo,  non è usurpato.

    Sto divagando, come succede sempre.

    Di questi primi anni, comunque, ricordo quello stare dietro alle porte, ai fiori del balcone, agli spigoli delle pareti. Curiosità, paura, inettitudine? Paura di essere ingannata, forse; desiderio di sapere cosa gli altri pensassero di me, facessero senza di me; voglia di vedere come il mondo andasse avanti, senza doverlo vivere.

    Che strana bambina, così vulnerabile e sola! Ho pietà di te, mia cara me stessa. Eppure ti rivedo in tante mie alunne, che portano frange lunghissime per coprire gli occhi o un’acne odiosa, che balbettano arrossendo se sbagliano una parola mentre leggono in classe, che evitano gli scherzi dei compagni.

    Vorrei far loro sapere che l’acne passa, ma non mi crederebbero, come non lo credevo possibile io. Eppure passò davvero quell’orribile menomazione che mi dava l’impressione di apparire agli altri quasi ripugnante.

    Io, almeno, questo leggevo in ogni sguardo. Pietà no, purtroppo. L’avrei apprezzata, ma quella non c’era. E allora studiavo, studiavo e studiavo ancora. Meno male che ebbi i libri a quell’epoca. Mi chiudevo in camera, studiavo e poi leggevo, appiccicata con la schiena al termosifone. Mi staccavo da lì solo per andare allo specchio a controllare lo stato della mia faccia. Mai avrei creduto di rimpiangere la faccia di prima, che già detestavo, ma che almeno era pulita e fresca.

    A ventidue anni, però, mi andò via tutto e fui anche fortunata, perché nonostante fossi stata continuamente a strizzarmi brufoli non avevo sulla pelle crateri o cicatrici.

    Come faccio a  ricordare la data così precisa? È facile, facilissimo. Nuvole nere si stavano addensando sul mio mondo domestico.

    In questa situazione è presente anche tuo padre. Manuel aveva ormai dodici anni e non era mai stato un bambino calmo. Da piccolissimo si era distinto per i suoi pianti sfrenati in piena notte, poi era stata la volta delle corse col triciclo, poi il turno dei petardi, con cui mia madre sobbalzava da morire; poi era iniziato il periodo dei dispetti, fatti per vendicarsi di lei che si lamentava per come scendeva le scale, per il volume dello stereo, per il tifo violento e anche un po’ volgare urlato da lui e dai suoi amici  durante le partite di campionato.

    Elena non sopportava lui e lui faceva di tutto per non farsi sopportare. Eppure la signora Gemma  l’aveva sempre difeso. Mi era rimasta impressa quella volta in cui mia madre aveva aspettato sulla soglia di casa Manuel che scendeva con la sua mamma e si era astiosamente lamentata per l’ennesima volta.

    La signora l’aveva guardato con un’occhiata di bonario rimprovero e l’aveva accarezzato sulla testa. Signora mia, lei ha una figlia che è un angelo. Ma i maschi sono diversi, sa… se poi si prendono di punta!

    In quel momento pensai che mai mia madre m’aveva guardata con quegli occhi ed ebbi invidia di lui.

    Manuel squadrò Elena in modo impertinente, come a dire: e adesso come la mettiamo? Poi si voltò verso sua madre e cambiò espressione, mentre lei gli chiedeva di promettere alla signora di non farlo più. Di nuovo guardò Elena in modo spudorato, mentre diceva che avrebbe cercato di ricordarlo. Mi venne da ridere per l’abilità di quel mascalzoncello e pensai che nessuno gli avrebbe mai messo i piedi in testa.

    Manuel non smise, anzi ci furono gli scherzi gratuiti, i vermi attaccati al filo, che dondolavano ad altezza d’uomo dal piano di sopra, le scampanellate finte, che portavano mia madre a correre alla porta inutilmente, i giochi al telefono, che nessuno poté mai con certezza attribuire al ragazzo, ma che rientravano senza dubbio nel suo programma di snervamento di Elena.

    5

    Maria Anna, ormai ventenne, era in camera davanti alla finestra aperta, concentrata sulla lettura dei drammi pirandelliani per un esame di letteratura italiana, che non scorreva come avrebbe voluto. In realtà era in contemplazione dello spettacolo naturale incorniciato dal vano della finestra, che era il motivo per cui da qualche anno aveva cambiato posizione alla scrivania, in precedenza appoggiata alla parete.

    Stava seguendo il volo leggero di una farfalla, con la guancia appoggiata alla mano aperta e la mente persa in chissà quali lidi, quando fu svegliata dall’urlo di sua madre, divenuta da qualche tempo irascibile con tutto e tutti. Di certo non c’era alcun motivo serio per il suo scatto d’ira, ma ugualmente lasciò la camera e andò a chiederle cosa fosse successo.

    Ancora! L’ha fatto di nuovo! Io lo denuncio quel teppista! urlò, muovendo le mani con le dita piegate ad uncino, come se volesse strozzarlo. Gli occhi, spalancati, facevano impressione tanto erano stravolti.

    Elena alludeva a Manuel che, come Maria Anna capì guardando sul terrazzo, aveva di nuovo scrollato la tovaglia di cucina dalla finestra, facendo finire sui suoi fiori e sul terrazzo immacolato briciole, grassi della carne, qualche buccia di mela, un tappo, un tovagliolo di carta appallottolato e sporco di sugo.

    Ora sono veramente, veramente stufa e si tolse ansimando il grembiule da cucina per salire di sopra.

    Dai mamma, se vai con questo stato d’animo dici qualcosa di troppo e dalla ragione passi al torto. Aspetta domani per parlarne con la signora e la trattenne per un braccio, che le sembrò troppo flaccido in rapporto all’età di sua madre, che, vicina alla cinquantina, aveva cominciato a lasciarsi andare, sicura com’era che verso i sessant’anni sarebbe morta com’era successo a suo padre, a sua nonna paterna e alla bisnonna  prima di lei.

    Ti prego! ripeté la figlia.

    In casa nessuno appoggiava le sue sfuriate. Edoardo non aveva voluto mai saperne. Erano finiti i tempi in cui la assecondava in tutto. Lui mostrava di non sopportare più la sua rigidità, il frequente nervosismo, i mal di testa che uscivano all’occorrenza come conigli dal cappello del prestigiatore, la sua apatia, a causa della quale il desiderio del marito di viaggi o gite o ristoranti veniva sempre frustrato.

    Quel giorno, dopo che Maria Anna riuscì a calmare sua madre, aiutandola poi a liberare il terrazzo dai residui del pranzo dei vicini, il pomeriggio trascorse tranquillamente: Elena andò a riposarsi sul letto, poi si dedicò alla pulizia dei suoi gerani da foglie e fiori secchi, infine ricevette la telefonata di una conoscente, che aveva iniziato a vendere creme a domicilio e le chiedeva di poter fare una presentazione a casa sua.

    Maria Anna lesse Pirandello, riconoscendone una volta di più il fascino, l’attualità dei temi, ma anche la ripetitività. Per compensare la monotonia, mangiò un intero sacchetto di patatine, odiandosi poi per averlo fatto.

    All’ora di cena tutto sembrava rientrato nella normalità.

    Quando Edoardo tornò dall’officina affamato come il suo fisico grande richiedeva, la tavola era pronta. Qualche minuto più tardi, erano seduti ai loro posti tutti e tre ed Elena stava raccontando con una certa avversione la novità della sua conoscente che si era data agli affari, quando squillò il telefono. Vado io disse, facendo segno alla figlia di restare seduta.

    Vorrei sapere perché la gente chiama proprio all’ora di cena!bofonchiò Edoardo, aspettando la moglie prima di iniziare a mangiare la zuppa di fagioli. Lo studio procede bene? chiese poi alla figlia, spostando i pezzi di pasta con il cucchiaio.

    Lei non fece in tempo a rispondere.

    È di nuovo lui! urlò Elena irrompendo come una furia in cucina, con gli occhi spalancati dalla rabbia e ancora quelle mani uncinate e i denti digrignati. Al telefono! Era lui. Di certo… l’ha fatto apposta! Sa che siamo a tavola!

    Edoardo si voltò verso Maria Anna, chiedendo spiegazioni con lo sguardo.

    Sì, oggi c’è stata una nuova scaramuccia. Mamma ha trovato di tutto nel terrazzo... di certo l’hanno sentita urlare.

    Questa storia non finirà più. Questo mi vuol mandare al manicomio, te lo dico io. Manigoldo, cattivo, delinquente… e si sedette, con le mani tra i capelli. Senti, va presa una decisione, una volta per tutte. O cambiamo casa o divento matta davvero. E giù a dire che era anche una questione di principio, che lei da quel farabutto non ci si faceva prendere in giro, che lei aveva finito la pazienza, che sarebbe andata lei a un’agenzia per cercare un’altra casa, se Edoardo non voleva fare quel passo.

    Quella debole di sua madre, poi, mai che gli dia un bel ceffone… Ah l’avessi avuto io un figlio così te lo raddrizzavo in quattro e quattr’otto. E suo padre, poi? Ma quell’uomo a che ora arriva a casa? Per forza i figli vengono su così… E tu di’ qualcosa, almeno, aiutami a dargli una lezione… Ehi, dico a te, Edoardo, non puoi far sempre finta di niente. Siete tutti d’accordo per farmi passare da scema? Ma io scema non ci sono, ricordatelo, te e tutta la banda di criminali del piano di sopra!

    Maria Anna guardava rispettivamente sua madre e suo padre, aspettando le solite parole rassicuranti o le altrettanto solite raccomandazioni di non farsi vedere così vulnerabile da quella peste di ragazzino.

    Lui invece taceva, muovendo il cucchiaio nel piatto e allargando i fagioli, come se aspettasse qualcosa. Poi alzò la testa e guardò sua moglie. Sul volto Maria Anna non vide muoversi un muscolo, né in un sorriso, né in una smorfia.

    Sono io che non ne posso più. Lo sguardo era duro. Di te, però.

    Maria Anna incassò il capo dentro le spalle, imbarazzata. Non le era mai piaciuto sentir litigare i suoi genitori. E sì che c’era stato un periodo in cui accadeva spesso, quello seguito all’aborto che Edoardo imputava non senza motivo alla scarsa volontà della moglie di portare avanti la gravidanza. Ma era accaduto tanti anni prima; ormai una pacifica e a volta apatica convivenza rappresentava il loro modo di stare insieme.

     In questa casa non si ride più, non si vive più. La tua ossessione è questo ragazzo. Se tu mettessi la stessa determinazione, lo stesso zelo per vivere meglio, guardarti intorno, guardarmi, saresti una donna felice e io sarei l’uomo più contento del mondo. Non ce la faccio più. Non volevo arrivare a questo, ma mi costringi. Me ne vado. È un po’ che ci penso e stasera me l’hai levato di bocca!

    Si alzò, senza mangiare la zuppa che gli piaceva tanto e si diresse in camera. Poi si voltò. Scusa, Maria Anna, mi dispiace tu abbia dovuto assistere.

    Sparì dentro la camera, chiuse la porta, lasciandole senza parole.

    Maria Anna guardò sua madre: i capelli allungati senza un taglio preciso erano percorsi da fitti fili bianchi e le davano un’aria trasandata, il vestito da casa era senza colore, di un celeste appassito come i capelli, le pantofole avevano una grossa macchia di caffè sulla punta. Allontanò da sé l’insofferenza e disse: Dai, mamma, non diceva sul serio, mangiamo!

     Mangia tu, io non ho fame.  Mentre si allontanava lisciandosi la vestaglietta, borbottò che nessuno la capiva, nessuno prendeva in considerazione la sua malattia.

    Maria Anna rimase seduta da sola e mangiò la minestra, pensando che tutto si sarebbe bene o male aggiustato, perché suo padre non era tipo da prendere risoluzioni importanti a stomaco vuoto. Poi però si alzò di scatto, colta da un pensiero orribile; corse in bagno, accese tutte le luci e squadrò la sua immagine riflessa nello specchio. Vide una certa somiglianza con la madre, lo stesso grigiore nello sguardo e nella pelle. Era vecchia anche lei e suo padre non voleva più vivere con due vecchie.

    6

    Lui se ne andò davvero,  già dal giorno dopo. Non ci furono ripensamenti ed anzi nel giro di qualche mese trovò una vedova allegra, come la chiamava Elena, che lo consolò e accolse in casa sua.

    Tutte le recriminazioni di mia madre non m’impedirono, però, di restare in buoni rapporti con lui. Ci vedevamo regolarmente il martedì, per mangiare insieme.

    Maria Anna era seduta da una decina di minuti al solito tavolino nel loro ristorante e sfogliava un giornale femminile per ingannare il tempo: sfilavano, fotografia dopo fotografia, modelle con capelli cotonatissimi, grossi orecchini di plastica, jeans stretti a sigaretta, fuseaux, pantaloni a vita alta, Timberland, Superga, scarpe con tacchi a sezione triangolare.

    Lei non si ritrovava in nessuna di quelle proposte di moda: semmai solo le espadrilles le sembravano veramente comode e le aveva scelte come sue calzature fisse dell’estate. Ne aveva di vari colori.

    Adocchiò, fuori dalla vetrina del ristorante, una ragazza poco più giovane di lei con una coda di cavallo laterale, una corta gonna a balze, scarpe da ginnastica, guanti di pizzo senza punte, secondo la moda lanciata da Madonna. Le parve orribile: pensò che quello era il modo per non passare

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