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Il cavaliere del mio cuore: Harmony Jolly
Il cavaliere del mio cuore: Harmony Jolly
Il cavaliere del mio cuore: Harmony Jolly
E-book149 pagine1 ora

Il cavaliere del mio cuore: Harmony Jolly

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Info su questo ebook

Non tutti credono all'amore a prima vista. Come definire, allora, quella strana sensazione che prende la bocca dello stomaco quando due sguardi si incrociano e non si lasciano più?
Eve Read non ha bisogno dell'aiuto di nessuno, e men che meno di quello offertole da Marshall Sullivan, meteorologo ribelle che gira l'Australia in sella a una potente motocicletta. Certo che con quel giubbotto di pelle e i capelli spettinati sembra un cavaliere moderno, pronto ad affrontare ogni genere di impresa per soccorrere una fanciulla in difficoltà... Potrà Eve fidarsi davvero di lui e andare incontro a ciò che l'aspetta senza rischiare il proprio cuore?
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2020
ISBN9788830513549
Il cavaliere del mio cuore: Harmony Jolly

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    Anteprima del libro

    Il cavaliere del mio cuore - Nikki Logan

    978-88-3051-354-9

    1

    Erano quelli i momenti che Evelyn Read detestava di più. I momenti in cui le sue paure e i suoi pregiudizi le si paravano davanti agli occhi e la affrontavano, proprio come avrebbe fatto un King Brown, il più velenoso dei serpenti australiani, sorpreso a prendere il sole lungo la strada.

    Socchiuse gli occhi per mettere a fuoco il motociclista che avanzava zoppicando verso di lei e strinse convulsamente il volante.

    Era un momento come quello che poteva essere costato la vita a suo fratello. Forse Trav si era fermato a dare un passaggio all'autostoppista sbagliato. Forse era proprio lì che era scomparso tanti mesi prima. Il suo istinto di autoconservazione le urlava di premere l'acceleratore finché quell'uomo – il pericolo! – fosse stato a un'ora di distanza da lei. D'altro canto, un momento come quello avrebbe potuto essere la salvezza di suo fratello. Se un estraneo fosse stato tanto gentile e tanto coraggioso da fermarsi e aiutarlo, adesso Travis sarebbe stato con loro. Al sicuro. Amato.

    Anziché solo, spaventato... o peggio.

    La paura di non sapere mai che cosa gli fosse successo le attanagliò la gola come le accadeva sempre quando pensava troppo a lungo alla follia che stava facendo.

    Intanto, il motociclista continuava ad avvicinarsi.

    Si chiese se avrebbe dovuto dar retta al suo istinto di sopravvivenza e darsela a gambe o comportarsi da brava cittadina e aiutare un essere umano nei guai.

    Lanciò un'occhiata alla motocicletta posteggiata in lontananza sul ciglio della strada lunga e deserta, prima di riportare lo sguardo sull'uomo trasandato che aveva ormai raggiunto il vecchio autobus Bedford trasformato in camper con cui stava facendo il giro dell'Australia.

    Zoppicando, l'uomo si fermò molto vicino alla porta da cui salivano i passeggeri e lei, dopo essersi accertata di aver messo la sicura, lo guardò notando che aveva un gran barbone, un paio di occhiali a specchio che gli nascondevano gli occhi e un pugnale tatuato che gli sbucava dalla manica della T-shirt.

    No. Quell'autobus era casa sua. Non avrebbe mai aperto la porta dei passeggeri a un completo sconosciuto. Soprattutto, non nel bel mezzo dell'entroterra australiano.

    Perciò, gli fece cenno di avvicinarsi alla portiera dell'autista.

    Lui non batté ciglio e quando, zoppicando, ci arrivò, Evelyn abbassò di qualche centimetro il finestrino e gli disse, simulando una tranquillità che non provava affatto: «Salve! Sembra nei guai».

    Su uno dei mille opuscoli sulle persone scomparse che aveva letto, c'era scritto che i sociopatici decidono se tu sei un carnefice o una vittima nei primi secondi in cui t'incontrano e lei non voleva avere la parola preda stampata sulla fronte.

    «Emù» bofonchiò lo sconosciuto aprendo la bocca quel tanto che bastava perché lei potesse rendersi conto che aveva denti perfetti e gengive sane.

    Stupidamente, la cosa la rassicurò. Come se il diavolo non potesse usare il filo interdentale.

    Poi, però, cercò tra gli arbusti lungo il ciglio della strada tracce di un emù ferito. Che non trovò.

    «Spero che non si sia fatto male» commentò.

    «No, sto bene, grazie.»

    «Questo lo vedo. Mi riferivo all'emù.»

    «Oh, andava talmente veloce, alla testa della sua nidiata, che a quest'ora sarà a trenta chilometri di distanza da qui, cercando di capire quando e come gli sia finita della vernice nera sulle zampe.»

    Le mostrò il suo casco graffiato, evidentemente reduce da uno scontro. Altre prove. Lei si limitò ad annuire, perché non voleva cedere di un millimetro più del necessario. Probabilmente l'aveva già catalogata come un'animalista sensibile alla causa degli emù.

    Il che la rendeva una preda.

    «Dov'è diretta?»

    «A ovest.»

    «Può darmi un passaggio fino alla città più vicina?»

    Per tutta risposta, Eve lanciò un'altra occhiata alla moto e lui soggiunse scrollando le spalle: «Dovrò lasciarla qui finché non ritornerò a prenderla con un carro attrezzi».

    Eve era indecisa: il tono della voce di quell'uomo e il suo modo di comportarsi la rassicuravano. La barba, il tatuaggio e il giubbotto di pelle sul sellino della moto no. Poi le venne in mente che il suo autobus trasformato in camper aveva solo un posto davanti... quello del guidatore.

    «C'è la mia casa là dietro» gli spiegò.

    «E allora?»

    «E allora, io... ecco... non la conosco.»

    «Ci vorrà solo un'ora per arrivare a Eucla. Starò in piedi accanto a lei.»

    «Un'ora in moto, forse. Con questa vecchia carretta ci metteremo di più. Almeno due ore.»

    «Bene. Vorrà dire che starò in piedi due ore. Ce la posso fare.»

    «Non la conosco» ripeté lei con un filo di voce.

    «Guardi, capisco perfettamente che cosa le sta passando per la testa. Una donna che viaggia da sola, un motociclista grande, grosso e minaccioso. Fa bene a essere prudente, ma la verità è che oggi per questa strada potrebbe non passare nessun altro, perciò se mi lascia qui potrei rimanerci tutta la notte, al freddo e senza niente da mangiare.»

    Eve tirò fuori di tasca il suo cellulare, ma lui osservò scuotendo la testa: «Non crede che se ci fosse stato campo avrei usato il mio?».

    Aveva ragione: non c'era campo.

    «Ha almeno un documento da mostrarmi?» gli chiese, rimettendo in tasca il cellulare.

    Lui prese il portafoglio e le porse la patente.

    «No, non la patente» protestò lei. «Potrebbe essere falsa. Intendevo un documento con una foto.»

    Lui esitò per qualche istante, sbalordito da quella diffidenza così esagerata, ma poi prese il cellulare, premette un paio di tasti e le mostrò lo schermo attraverso il vetro del finestrino.

    Un viso serio la fissò. Glabro, con i capelli corti e il colletto della camicia immacolato. Un tipo rispettabile. E anche piuttosto carino.

    Pfui! «Non è lei!»

    «Sì, invece.»

    «No!» ribadì Eve.

    Poteva essere un'immagine scaricata da Internet, per quello che ne sapeva. Bastava cliccare uomo d'affari e se ne trovavano a bizzeffe di foto come quella!

    «Oh, per l'amor del cielo!» sbuffò lui. Poi premette un altro paio di tasti e le mostrò un'altra foto. Stavolta, l'uomo che la fissava aveva un po' di barba, ma non folta come quella dello sconosciuto che le stava di fronte. Sempre più perplessa, scosse la testa e lui, esasperato, si tolse gli occhiali da sole, rivelando un paio di occhi grigi incredibilmente miti.

    D'accordo, forse l'uomo ritratto era davvero lui.

    «Se non le dispiace, ora vorrei vedere la sua patente.»

    «Senta...» cominciò lui irritato, ma poi si trattenne e le mostrò il documento.

    Lei riprese il cellulare e gli scattò una foto attraverso il vetro del finestrino, con la patente in mano. Marshall Sullivan, lesse.

    «A che le serve?» le domandò lui accigliandosi.

    «Per l'assicurazione.»

    «Ho solo bisogno di un passaggio. Non voglio nient'altro da lei.»

    «Per quanto mi riguarda, è meglio prevenire che curare» replicò Eve inviando la foto alla sua migliore amica e a suo padre a Melbourne.

    «Non c'è campo» le rammentò lui alzando gli occhi al cielo.

    «Non appena ci sarà, questi scatti arriveranno a destinazione.»

    «Ha dei grossi problemi in fatto di fiducia, lo sa?»

    «Non direi. Un veicolo fuori uso in una strada deserta è forse il più antico cliché che esista. Anche se...» Evelyn indicò col mento il suo casco rigato da quelli che potevano senz'altro essere artigli di emù prima di concludere: «... devo ammettere che ci sono alcuni dettagli che rendono plausibile la storia che mi ha raccontato».

    «Perché è la verità.»

    «Ma io viaggio da sola e non posso correre rischi» continuò Eve, ignorando il suo commento. «Perciò non posso permetterle di stare qui con me. Dovrà andare nel retro.»

    «E ai pericolosi germi di motociclista che potrei spargere sulla sua roba non ci ha pensato?» borbottò lui.

    «Lo vuole un passaggio o no?»

    «Sì» ammise lui con un sospiro. «Vado a prendere il giubbotto e lo zaino.»

    Zoppicò fino alla sua moto e, quando fu di ritorno, Eve gli aprì le porte sul retro, aspettò che salisse e le richiuse.

    Due ore...

    «Cerchiamo di metterci un po' meno, vecchio mio!» disse poi all'autobus, avviando il motore.

    Marshall cercò a tentoni un interruttore della luce, ma tutto quello che trovò fu una tenda di cotone spesso. La scostò e la luce del giorno invase l'interno dell'autobus, rivelandogli uno spettacolo incredibile.

    In vita sua aveva visto parecchi autobus trasformati in camper, ma nessuno come quello. Gli altri erano squallidi, freddi, impersonali, questo caldo e accogliente. Non somigliava affatto alla sua proprietaria!

    Sembrava un piccolo cottage. Tutto legno e morbide coperte colorate. Con un cucinino, un soggiorno, un televisore a schermo piatto, un frigorifero e un divano. E in fondo, dalla parte del guidatore, una porta chiusa doveva condurre all'unico pezzo di mobilia che mancava: il letto.

    E all'improvviso comprese il motivo della riluttanza di Miss Ostilità a farlo entrare lì dentro. Era come invitare un perfetto sconosciuto nella tua camera da letto.

    D'un tratto l'autobus sobbalzò e Marshall finì lungo disteso sul divano. Non era comodo come il sofà del suo attico, che poteva ospitare fino a otto persone, ma era di gran lunga meglio dell'asfalto su cui era stato seduto nelle ultime due ore.

    Ce ne sarebbero volute altrettante per arrivare a destinazione, pensò mettendo un paio di cuscini sotto la gamba ferita e chiudendo gli occhi. Giusto il tempo che gli occorreva per riposare un po' e riprendere le forze.

    «Chi dorme nel mio letto?» borbottò Eve guardando l'uomo profondamente addormentato sul suo divano.

    Col barbone che si ritrovava sembrava proprio un orso e per un attimo le parve di stare vivendo la favola di Riccioli d'Oro alla rovescia.

    Tossì con discrezione, ma niente. L'uomo non si mosse di un millimetro.

    «Signor Sullivan!» esclamò allora.

    Ancora nulla.

    Per la prima volta, le venne in mente che forse non stava affatto dormendo. Forse era in coma. Forse la ferita alla gamba era peggiore di quello che aveva pensato.

    Mettendo da parte il suo terrore per i pericolosi uomini tatuati, allungò una mano e gli toccò il collo.

    Il battito c'era. Forte e regolare. E la pelle era calda.

    Meno male!

    «Signor Sullivan!» ripeté. «Si svegli! Siamo arrivati!»

    Lentamente, lui aprì gli occhi e la fissò in silenzio.

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