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Uno, due, tre: Natalya, #1
Uno, due, tre: Natalya, #1
Uno, due, tre: Natalya, #1
E-book276 pagine3 ore

Uno, due, tre: Natalya, #1

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Info su questo ebook

Quando il sogno della diciassettenne Natalya di diventare una ballerina muoiono in un incidente stradale insieme a suo padre, lei dovrà fare una scelta: darsi per vinta, come sua madre, o aprirsi all'amore.

 

Lo scorso anno, la diciassettenne Natalya Pushkaya frequentava la Scuola di Discipline dello Spettacolo di New York. Lo scorso anno, era sulla strada giusta per diventare una ballerina professionista. Lo scorso anno suo padre era ancora vivo. Ma un incidente stradale ha cambiato ogni cosa, e Natalya non riesce a evitare di sentirsi in colpa. Adesso frequenta una scuola normale nel New Jersey, abita con la madre, una famosa ex ballerina diventata un'alcolizzata, e non ha più alcuna speranza per la propria carriera.

 

Alla nuova scuola però c'è Antonio, un calciatore alquanto sexy, che vede per lei un futuro migliore o almeno un presente più piacevole. Tenerlo alla distanza di un arabesque si rivela per Natalya una sfida tutt'altro che semplice, e il suo fascino paziente finisce per riuscire a farla uscire dal guscio. Quando terribili segreti vengono alla luce e viene risucchiata dai problemi di Tonio, Natalya si chiude di nuovo in se stessa, trovando a sua volta rifugio nell'alcol.

 

Natalya riuscirà a fidarsi di nuovo di Antonio prima di perderlo, e di perdere se stessa?

LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2021
ISBN9798201636104
Uno, due, tre: Natalya, #1
Autore

Elodie Nowodazkij

Elodie Nowodazkij crafts sizzling rom-coms with grumpy book boyfriends and the bold, funny women who win their hearts. Sometimes, she even writes stories that scare the crap out of her. Raised in a small French village, she was never far from a romance novel. At nineteen, she moved to the U.S., where she found out her French accent is here to stay. Now in Maryland with her husband, dog, and cat, she whips up heartwarming, hilarious, and hot romances. Ready to take the plunge? The water’s delightfully warm.

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    Uno, due, tre - Elodie Nowodazkij

    Quando il sogno della diciassettenne Natalya di diventare una ballerina muoiono in un incidente stradale insieme a suo padre, lei dovrà fare una scelta: darsi per vinta, come sua madre, o aprirsi all’amore.

    Lo scorso anno, la diciassettenne Natalya Pushkaya frequentava la Scuola di Discipline dello Spettacolo di New York. Lo scorso anno, era sulla strada giusta per diventare una ballerina professionista. Lo scorso anno suo padre era ancora vivo.

    Ma un incidente stradale ha cambiato ogni cosa, e Natalya non riesce a evitare di sentirsi in colpa. Adesso frequenta una scuola normale nel New Jersey, abita con la madre, una famosa ex ballerina diventata un’alcolizzata, e non ha più alcuna speranza per la propria carriera.

    Alla nuova scuola però c’è Antonio, un calciatore alquanto sexy, che vede per lei un futuro migliore o almeno un presente più piacevole. Tenerlo alla distanza di un arabesque si rivela per Natalya una sfida tutt’altro che semplice, e il suo fascino paziente finisce per riuscire a farla uscire dal guscio. Quando terribili segreti vengono alla luce e viene risucchiata dai problemi di Tonio, Natalya si chiude di nuovo in se stessa, trovando a sua volta rifugio nell’alcol.

    Natalya riuscirà a fidarsi di nuovo di Antonio prima di perderlo, e di perdere se stessa?

    UNO, DUE, TRE

    Autore Elodie Nowodazkij

    Copyright © 2021 Elodie Nowodazkij

    Tutti i diritti riservati

    Distribuito da Elodie Nowodazkij

    www.elodienowodazkij.com

    Traduzione di Maria Giulia Cecchini

    Editor Elisa Pardini

    Progetto di copertina © 2021 Elodie Nowodazkij

    Ai miei genitori, che hanno festeggiato il quarantesimo anniversario di matrimonio il giorno della pubblicazione del mio primo libro... e che non assomigliano per niente ai genitori di Natalya.

    Merci de tout mon coeur pour tout!

    A mia suocera, per avermi permesso di usare il suo nome per un personaggio, e per avermi insegnato che esiste un proverbio russo per qualsiasi situazione.

    1.

    Chopin è la colonna sonora della mia vita.

    Papà amava suonare i suoi valzer più struggenti, mamma usava i suoi notturni come ninna nanna per me quando ero piccola, e le gambe mi prudevano per la voglia di fare un arabesque ogni volta che sentivo la Polonaise op.40. Chopin era la mia via di fuga, un modo di sognare il futuro e tutto quello che desideravo: non avere più paura di innamorarmi e ballare il ruolo di Cenerentola al Bolshoi di Mosca.

    Ma questo era prima.

    La lugubre melodia del Preludio op.28 di Chopin mi avvolge. È un pezzo che viene chiamato anche soffocamento. Molto appropriato. Mamma lo ascolta continuamente. È seduta curva al tavolo della sala, lontano da me. Funziona una sola lampadina, e il buio la avvolge quasi del tutto mentre si versa un bicchiere di vodka dopo l’altro.

    Mamma, devi andare a dormire, le dico per la quinta volta. Sta scolandosi quella bottiglia come se non ci fosse un domani, e forse è proprio quello che spera. La testa le ciondola a destra e a sinistra, è andata. Oggi non sono potuta andare all’appuntamento col dottore perché lei era troppo ubriaca per guidare, e ho dovuto mentire di nuovo. Il dottor Gibson mi ha creduta e mi ha spostato l’appuntamento tra due settimane. Mi ha detto che se seguo i suoi consigli (portare il tutore, fare riabilitazione ed evitare di saltare) potrò fare volontariato al centro sociale e insegnare danza ai bambini. Ha perfino parlato di me alla persona che coordina i volontari. Stavano cercando uno studente del college, ma al colloquio li ho convinti a darmi una possibilità anche se ho ancora solo diciassette anni. Se sabato con i bambini andrà bene, potrò dare una mano tutti i weekend per qualche ora al giorno.

    Mamma si alza in piedi, oscillando con la bottiglia in mano.

    Levati di torno, farfuglia, e mi spinge via. Prima, non avrei inciampato. Dopotutto l’equilibrio per una ballerina è la cosa più importante, ma il tutore mi rende i movimenti un po’ difficoltosi. Cado addosso agli scaffali e mi aggrappo ai romanzi degli autori preferiti della nonna, Tolstoj e Shakespeare: adorava Anna Karenina e Romeo e Giulietta. La divertiva parlare di un pamphlet in cui Tolstoj critica Shakespeare, e poteva discutere di letteratura per ore. Se la mia Babushka fosse qui, forse lei riuscirebbe a farsi comprendere da mamma, ma allo stesso tempo sono felice che non sia costretta a vedere la sua famiglia che, dopo l’incidente, è andata in pezzi.

    È stata colpa mia! Le parole di mamma mi trafiggono il cuore, e so che non posso convincerla del contrario. È stata colpa mia, sussurra. L’ho ammazzato! La sua voce diventa più forte, in un crescendo. Non ti voglio vedere! Vai via!

    Sento una stretta allo stomaco. Non importa quante volte mi cacci via, la mia reazione è sempre la stessa: voglio confortarla, ricordarle che non è lei la responsabile.

    Sono io.

    Tu non c’eri, in macchina. Lo dico con la voce più rassicurante possibile. C’ero io. Tu non hai fatto niente.

    Ti ho detto di andartene! mi aggredisce, ma io non batto ciglio. Anche se la sua furia mi terrorizza, non mi ha mai colpita nemmeno una volta, nonostante dall’incidente abbia passato più tempo ubriaca che sobria.

    Ascolta, mamma.

    No, ascolta tu. Mi punta contro un dito tremante, il bel viso contratto in una maschera di disperazione: il mascara le è colato lungo le guance, gli occhi azzurri, un po’ più chiari di quelli di papà e dei miei, sono tutti gonfi, e la bocca che potrebbe incurvarsi in un meraviglioso sorriso non è altro che una linea sottile. Voglio che tu te ne vada. Se solo tu non gli avessi chiesto di portarti all’aeroporto...

    Io non avrei voluto che mio padre lo facesse, ma non mi aveva lasciato scelta. Volevo sapere perché fosse così arrabbiato, volevo che parlasse con me. Ma dovevo tornare a scuola. Lui sapeva quanto fosse importante per me, e aveva insistito perché non perdessi il volo.

    Se solo... Non finisce la frase e butta giù un altro bicchiere. Vattene!

    Stringo tra le dita la collanina che i miei genitori mi hanno regalato quando ho compiuto tredici anni. La catenina d’argento tiene il ciondolo su cui avevo posato gli occhi da settimane: scarpette da ballo di diamanti rosa pallido. Papà mi disse che sarebbe stato il mio portafortuna. La indossavo il primo giorno alla scuola di Discipline dello Spettacolo, ed era con me quando avevo ottenuto il mio primo ruolo importante. Ma non ci aveva protetti dall’incidente. Toccarla mi calma e mi agita al tempo stesso, ma non oso togliermela.

    Mamma, provo di nuovo.

    Io l’ho ucciso! Mamma urla così forte che potrebbe sentirla tutto il vicinato. Ci sono solo quindici case o poco più sparse in questa piccola comunità, ma sono qui da secoli. Quando ci siamo trasferite dalla nonna due settimane fa, ci hanno accolti tutti a braccia aperte e ci hanno portato cose come torte di mele e stufato. Mamma ha recitato la sua parte, li ha ringraziati tutti calorosamente e si è scolata mezza bottiglia di vodka non appena richiusa la porta.

    Quella casa era stata sinonimo di estate, divertimento e tempo trascorso con Becca, la mia migliore amica, con i miei genitori che almeno fingevano di andare d’accordo per non far preoccupare la nonna e gli amici. Ma io non avrei scelto di tornare in questa casa dopo tutto quello che è successo. La mia Babushka è morta lo scorso gennaio e ha lasciato la casa ai miei. Ho chiesto a mamma perché non abbiamo ricominciato da capo da qualche altra parte, lontano. Mi ha risposto che all’infelicità non importa dove sei, il dolore ti segue ovunque, e che almeno in questo paesino in cui era cresciuta e aveva trascorso tutte le estati magari qualche amico avrebbe potuto aiutarla a trovare un lavoro. Da domani comincia come segretaria part-time allo studio legale del padre di Becca. Restare nella nostra vecchia casa nel Maine sarebbe costato comunque troppo, e questo era un altro motivo per cui tornare a Everbird nel New Jersey era una scelta sensata, secondo lei.

    La pressione sul mio petto aumenta, ma piangere non cambierebbe nulla. Non importa quanto io possa essere arrabbiata o triste, lei adesso non mi ascolterebbe comunque.

    Mi dispiace, sussurro. Prendo il cappotto e lo zaino e chiudo la porta, fregandomene di coprirmi la cicatrice come faccio di solito. Quando la macchina ha colpito l’albero, frammenti di vetro mi si sono conficcati nella pelle e mi hanno lacerato la guancia sinistra. L’operazione mi ha lasciato una traccia rossa che parte da metà guancia e arriva fino all’orecchio.

    Ma non mi importa del mio viso, adesso. Devo andare in un posto in cui potermi calmare e poter arginare la tristezza che mi scorre nelle vene come un torrente senza fine. Il lago che si trova a poco più di un chilometro e mezzo da casa è sempre stato un posto speciale per me, in estate. Lì, Becca mi ha insegnato a nuotare e ci siamo autonominate Sirene per la vita, è lì che andavo ad allenarmi in segreto dopo il coprifuoco, ed è anche il luogo in cui ho i ricordi più belli dei miei genitori. Prima che mamma iniziasse a bere troppo, prima dei litigi, prima dell’incidente che mi ha portato via papà e tutti i miei sogni.

    Il tragitto più breve dalla casa al lago è una stradina sterrata non molto illuminata, ma io la conosco a memoria. Mi affretto lungo il sentiero, con le opere più allegre di Chopin nelle orecchie, ma nemmeno la musica riesce a sovrastare la voce di mia madre che mi riecheggia in testa. È colpa mia! Io so che si sbaglia, non è lei che lo ha ucciso, sono stata io. Se solo l’avessi avvisato del camion... Trattengo un singhiozzo e mi strappo via il tutore per poter camminare più veloce. All’inizio il ginocchio è rigido, ma almeno ora riesco a stendere la gamba.

    La vista del lago mi calma e mi dà conforto. D’estate c’è sempre tanta gente, ma in questa fredda sera di settembre non c’è nessuno. I lampioni tutto intorno tremolano, gli alberi gettano ombre particolari sul terreno e c’è un ombrello rosa tutto rotto accanto alla panchina nell’area grill. Alzo ancora un po’ il volume del mio iPod, mi siedo e rovisto nello zaino. Le mie scarpe da punta portano i segni del lavoro degli ultimi anni, e nonostante le abbia strofinate e strofinate c’è una macchia che non vuole proprio andarsene.

    Quando me le infilo, arrivano i flash: mio padre che mi porge un mazzo di gigli alla fine di ogni spettacolo, lo staff della scuola di Discipline dello Spettacolo che sgattaiola fuori per andare a prendersi un gelato, le estati sul gommone al lago insieme a Becca e alla nonna, le ore passate alla sbarra.

    Non c’è più niente di tutto questo.

    La danza è sempre stata la mia fuga dalla realtà: dai litigi sempre più frequenti dei miei genitori, dalla morte della mia Babushka, che se n’è andata tutta sola all’ospedale perché nessuno mi aveva detto che stava male, dalla mia paura di affezionarmi veramente a qualcuno.

    La danza è sempre stata il mio futuro.

    Ed è sempre stata tutto quello che sono. Anche se adesso non posso ballare come prima e sforzare troppo il ginocchio, sono certa che riuscirò a tornare al massimo e che dimostrerò al dottor Gibson e a tutti gli altri che si sono sbagliati, quando hanno detto che è molto improbabile che io possa salire di nuovo su un palco. La Juilliard ha posposto la mia audizione e il direttore della scuola di Discipline dello Spettacolo ha detto che mi avrebbe tenuto un posto se fossi voluta tornare. Se avessi potuto farlo.

    Uso la panchina come sbarra, piego lentamente le ginocchia, mantenendole al di sopra della punta dei piedi. Con i talloni ben ancorati a terra, mi abbasso più che posso, ma non riesco ad andare oltre un demi-plié. Mi riscaldo per una decina di minuti e mi lascio andare a quei movimenti così familiari. Le stelle si riflettono sulla superficie del lago; potrebbe essere la scenografia perfetta per Il lago dei cigni. Vorrei tanto poter fare un grand jeté e sentire il vento intorno a me mentre mi sollevo in aria, ma non intendo rendere vani i progressi che ho fatto finora. L’ultima volta che ci ho provato mi è quasi uscita di nuovo la rotula. Ho sbattuto forte entrambe le ginocchia nell’incidente, ma la gamba perno ne ha risentito più dell’altra.

    Posiziono invece i piedi per eseguire qualche piccolo pas de bourrée. Aumento la velocità e finisco a inciampare in un sasso; la paura mi toglie il fiato. Evito di atterrare sulla gamba e cado sul sedere.

    Papà diceva sempre che esiste un proverbio russo per qualsiasi cosa. Ogni volta che ero delusa da una prova andata male, lo chiamavo, e lui mi chiedeva sempre se avevo fatto del mio meglio. Quando gli rispondevo di sì, mi chiedeva se avevo imparato qualcosa, e poi diceva Na bezryb’ye i rak-ryba, che significa quando la pesca scarseggia, anche un gambero è pur sempre un pesce. Era il suo modo per dirmi che qualcosa è già meglio di niente.

    Mi ripeto quelle parole nella mente, mentre con le dita mi tocco nervosamente il ginocchio alla ricerca di qualche gonfiore.

    Stai bene? Nell’ombra c’è un tizio, che parla con un accento e una piacevole voce baritonale.

    2.

    Mi asciugo gli occhi , non voglio apparire tanto disperata. So bene come farlo, mamma non mostra mai i suoi sentimenti al resto del mondo. Soltanto a me.

    Ti sembra che stia bene? gracchio. Cerco di lanciargli un’occhiataccia, ma ricevo in risposta solo una specie di sogghigno. Il ragazzo ha la fronte imperlata di sudore, e tiene un pallone in equilibrio su un piede. I suoi vestiti sportivi hanno su lo stemma di Cedarwood High, la scuola che inizierò domani.

    Aspetta, ti aiuto. Mi offre la mano, ma io resto immobile. Direi che sei caduta piuttosto male.

    Alzo lo sguardo, osservo le sue spalle larghe, e quando mi soffermo sul suo viso avverto calore in tutto il corpo. Non è soltanto bello; mi guarda come se mi vedesse davvero, come se sapesse chi sono, e io ho chiaramente perso la testa.

    È stato un colpo per il mio ego, soprattutto. Ignoro la sua mano tesa e cerco di alzarmi spostando il peso sulla gamba sinistra, ma vacillo e cado di nuovo all’indietro.

    Sta’ attenta. Si siede accanto a me, e la preoccupazione nei suoi occhi scuri sembra sincera. Mi porto le dita al volto, ma la lascio cadere non appena mi rendo conto che non posso nascondere la cicatrice a meno di non tenere per tutto il tempo la mano sulla guancia. Il ragazzo mi si avvicina e cerco di non guardarlo. Sul collo ha un tatuaggio che gli spunta dalla maglietta: esperanza, una parola spagnola di cui credo di conoscere il significato.

    Tu sei Nata, vero?

    Faccio una smorfia. Sa davvero chi sono, ecco perché mi compatisce. Natalya, replico.

    Becca mi ha parlato di te. Mi dà un colpetto col gomito e io gli lancio un’occhiata, senza sapere cosa dire. Becca mi ha insegnato a nuotare in questo posto. Passavamo ore al lago a sognare del futuro. Lei voleva diventare un famoso avvocato, io una prima ballerina assoluta, il più alto grado possibile per una ballerina. Soltanto dodici ballerini sono riusciti a ottenerlo nel corso di più di cento anni.

    Becca può ancora realizzarlo, il suo sogno.

    Vi siete incontrate la settimana scorsa, no? Solleva un sopracciglio come per spronarmi a partecipare alla conversazione.

    Annuisco e basta, temendo che le corde vocali possano farmi qualche scherzo. Becca è venuta a trovarmi giovedì scorso, dopo che io avevo continuato a trovare scuse per non vederla da quando io e mamma ci siamo trasferite, due domeniche fa. È la prima volta che non passiamo qui l’intera estate, ma dopo l’incidente sono rimasta all’ospedale per due settimane e poi ho avuto due mesi di intensa fisioterapia. Becca è venuta a trovarmi senza dirmelo, e mamma era nel bagno a dormire sul pavimento. La conversazione è stata a dir poco imbarazzante. Quando parlavamo, era sempre come se ci vedessimo tutti i giorni e non tre mesi l’anno, ma dopo l’incidente mi sono chiusa in me stessa. La scuola inizia domani, e il pensiero di dover avere a che fare con gli altri, anche se solo nei corridoi, mi dà la nausea. Il centro sociale è diverso. Miss Morrow, la responsabile, mi ha detto che i bambini sono stati contenti di imparare qualche passo di danza. Lei starà con me durante le lezioni, e anche se lasciare da sola mamma per un paio d’ore tutti i sabato mattina mi spaventa da morire, devo farlo. Mamma passa praticamente tutti i weekend tappata in camera a bere o a russare, comunque.

    Io sono Antonio. Puoi chiamarmi Tonio. Mi tende la mano e stavolta la prendo. Quando le nostre dita si toccano, il mio intero corpo sobbalza e si risveglia. Colgo un luccichio nei suoi occhi, e continua a stringere la mia mano nella sua finché non la ritraggo.

    Si schiarisce la voce. Becca parla sempre di te. L’altro giorno ha perfino raccontato a mia sorella che sai volare.

    Le mie labbra si sollevano in un sorriso. "È quello che ho detto a Becca la prima volta che sono riuscita a fare un grand jeté. Mi sembrava di volare, non posso credere che se lo ricordi."

    Mia sorella ora vuole imparare a ballare. Tonio ridacchia. Il mio sguardo si posa sulle sue labbra. Il sorriso di questo ragazzo dovrebbe essere messo fuorilegge. Mi impongo di guardare lontano.

    Il centro sociale ha organizzato un corso.

    Karina vuole fare danza classica, l’anno scorso non c’erano volontari a insegnarla, dice.

    Ce n’è uno ora. Be’, forse. Sono in prova sabato prossimo, replico.

    Davvero? Fantastico! Dirò a mia madre di iscrivere Karina. Cambia posizione e allunga una gamba. Dev’essere strano per te, vivere in casa della tua nonna. La mia abita in Colombia.

    Potrei parlare per ore del modo perfetto di eseguire un rond de jambe, di come essere sicuri che il movimento parta dalla tua gamba mentre mantieni una posizione aggraziata del corpo, ma non posso parlare con lui di mia nonna, della sua, o di qualsiasi altra cosa lui voglia parlare.

    Devo andare, dico, ma prima che provi di nuovo ad alzarmi, Tonio mi tocca il braccio.

    Mi dispiace molto per la tua caduta.

    Non importa. Si dice così, no? rispondo.

    Dipende da cosa vuoi dire, questo è ciò che conta. Si passa la mano tra i capelli neri tagliati corti e si stringe nelle spalle. Ho sentito dire che anche piangere può essere utile. Mi fa l’occhiolino. Se non te ne fossi accorta, sono un tipo profondissimo. Una specie di filosofo. Mi osserva. E in più sono anche carino. Becca ti avrà detto tutto di me, sono sicuro che ha cercato di convincerti a uscire con noi.

    Ha provato a convincermi a uscire con lei il giovedì che è passata a trovarmi, e mi ha parlato di un ragazzo carino che pensava mi sarebbe piaciuto, ma non ha specificato che potrebbe far girare la testa

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