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Piccola gente di città
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Piccola gente di città
E-book216 pagine2 ore

Piccola gente di città

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Info su questo ebook

"Le coccinelle", "Il sonatore di tamburo", "Piogge d'autunno" "Il giorno delle nozze": ecco alcuni degli evocativi titoli dei sette racconti che si susseguono in questo piccolo gioiellino antologico. Il filo conduttore che percorre le storie è la fragilità d'animo dei protagonisti, la loro rassegnazione nei confronti di un'esistenza apparentemente già scritta e disperata.-
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2022
ISBN9788728195086
Piccola gente di città

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    Anteprima del libro

    Piccola gente di città - Umberto Fracchia

    Piccola gente di città

    Translated by

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1925, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728195086

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Bello, ma non cammina…

    I

    Quando le guardavano il bimbo, che essa portava sempre in collo, la gota sulla gota, e, sorridendo, dicevano: — Guarda bello! Che angelo! Guarda se non sembra una rosa… — la mamma lo dondolava un poco, ancora più stretto, e, abbassando gli occhi, rispondeva: — Bello, sì… Ma non cammina… Ora lodavano meravigliati i suoi ricciolini biondi e leggieri, come piumini d’oro che un soffio avrebbe potuto portar via, ora i suoi occhi celesti e illuminati, ora le labbruzze umide come un fiorellino carnoso. — Bello! esclamavano, sorridendo alla madre che se lo teneva stretto contro la gota, quel suo tesoro tutto oro azzurro e rosa. Ma senza sorridere, scotendo il capo, la mamma rispondeva a tutti sempre con la stessa voce: — Non cammina… Come il suo viso non tradiva alcuna emozione, così pure non c’era nella sua voce nessuna nota grave accorata. Pareva soltanto che essa, dicendo: — Non cammina, volesse mettere gli altri a parte di quella infermità fisica del suo bambino che sarebbe rimasta altrimenti ignorata.

    Era certamente la madre del piccino quella povera donna ancor giovane che tanto gli somigliava nei capelli biondi, e negli occhi azzurri, e nella forma della bocca che era anch’essa simile a un bel fiore carnoso, ma avvizzito dall’arsura. Anche lei aveva la fronte liscia, alta e dolcemente incurvata, e l’ovale del viso di una regolarità perfetta. Forse quella perfezione e il pallor roseo tutto uguale, dalla fronte al mento, davano al suo viso un’espressione fredda, di statua, che anche certi fanciulli troppo belli hanno. E non si sapeva se fosse freddezza o candore.

    Se ne andava col suo fardello lieve sempre in braccio, e pareva che le pesasse assai. La stanchezza si vedeva dalla curva delle sue spalle, che si piegavano abbandonate al peso delle braccia. Dove andava, chi sa? Era sempre in moto, e mattina e sera si incontrava nei punti più diversi della città, ora alla periferia, ora al centro, nei quartieri più affollati e in certi angoli morti dove nessuno passa mai. Talvolta si vedeva ai giardini pubblici, ferma all’ombra spiovente dei salici, presso il piccolo lago dei cigni, intorno al quale i bambini giocano a rincorrersi, gridando: Aoè! E, tardi, dopo il tramonto, seduta, con il bambino posato sulle ginocchia, in uno dei tramways che portano all’estremo limite dell’abitato, si lasciava sballottolare come un fantoccio nella corsa pazza sulle rotaie.

    Era impossibile, vedendo quel bambino tanto bello, non contemplarlo a lungo con ammirazione e con allegrezza. Anche i misantropi per un attimo si riconciliavano con lui, e, facendogli l’occhietto, sorridevano alla madre che se lo stringeva così teneramente al collo. Allora essa, perdendo a poco a poco quell’aria distratta e abbandonata, fissava a lungo lo sguardo sulla persona che le stava di fronte e che le sorrideva; finchè, schiudendo le labbra come se le s’aprissero senza volontà, mormorava: — Non cammina…

    Vedeva occhi spalancarsi stupiti, volti fatti subito scuri piegarsi verso di lei per udir meglio quell’inaspettata confidenza. Ripeteva:

    — Non cammina…

    — Ma come non cammina?

    Si stringeva nelle spalle e rispondeva:

    — No, non cammina.

    Il bimbo tendeva le manine rosee e apriva d’un tratto il bocchino, per dire:

    — Dada, dedi dodo…

    La sua voce era quella d’un cardellino sveglio e canoro.

    Allora la mamma abbassava gli occhi sul suo capo, e tutti rimanevano così, muti, a guardarlo.

    II

    Abitava in una di quelle immense case giallastre che sorgono sui prati, oltre il fiume, quasi in aperta campagna. Era una casa di poveri e di operai, con tanti piani e tante finestre, e così fitte e nere che, al solo pensiero della moltitudine che l’abitava, c’era da averne orrore. Quando rincasava era buio, e per le scale di quella casa nera brillava appena una fìammellina gialla di gas, che lasciava aperto sotto ogni scalino un trabocchetto di ombra. Ma nè lei nè il bambino avevano orrore di quel buio, e lo attraversavano senza fretta. Appunto perchè la casa era immensa, la loro stanza era poco meno che un buco e dava sopra un ballatoio che correva tutto intorno al cortile. Entrando, la madre accendeva il lume e metteva a sedere il bambino sul ballatoio, nella luce che usciva dalla finestra aperta. Allora voci di donne e di ragazzi la salutavano dalle altre finestre illuminate e le dicevano:

    — Buona sera, Schiavina!

    Poi chiamavano:

    — Robino! Robì!

    Il bambino si guardava intorno tutto contento, e prendeva il suo cavalluccio di legno, e lo mostrava, gridando:

    — Dedi dodo… dedi dodo…

    Lì, seduto, era il suo regno. Aveva il suo cavallino bianco senza gambe, la sua palla di cencio legata con uno spago alla ringhiera, il suo pulcinella con la testa sfondata, e tutti i suoi straccetti di carta e di cartone che gli servivano da balocchi. Così passava le ore, sempre allegro, in quello spazio largo un palmo; e quand’era così seduto, come quando era in collo alla mamma, sembrava un bambino come tutti gli altri, anzi un bambino straordinariamente bello, sano e contento. Prendeva la palla con tutte e due le mani e se la portava sul capo. E poi la lanciava lontano con forza, e sarebbe caduta chissà dove, se lo spago al quale era legata non l’avesse trattenuta a due passi da lui. Ed egli, tirando lo spago, riprendeva la palla, per rilanciarla subito con tutta la forza delle sue piccole braccia.

    Sarebbe stato difficile stabilire se il bambino si divertisse di più a lanciare la palla oppure a ripescarla con lo spago. Certamente, quando giocava seduto sul ballatoio, si vedeva che era felice. Lo divertivano i ragazzi che si affacciavano alle finestre di contro con maschere di carnevale e con cappelli di carta; che si tingevano il viso col carbone e sparavano le loro capsule rosse nelle pistole di latta. Lo divertivano i conigli chiusi in certe trappole di legno appese sotto i davanzali, quando, movendo le lunghe orecchie, rosicchiavano le lattughe verdi e le foglie di cavolo che la comare ci metteva dentro. Lo divertiva il maresciallo Branzotto quando, seduto al balcone con la musica sulle ginocchia, si gonfiava rosso come un’anguria, traendo dalla sua cornetta lunghi squilli e variazioni meravigliose che pareva dovessero spaccare in una volta tutti quanti i vetri. Ed anche le rondini che, strillando e rasentando come frecce i ballatoi, si tuffavano ad ali distese nel cortile per uscirne poi con scatti vertiginosi, anche le rondini lo divertivano. Quello era il suo mondo. Robì era felice come ogni altro bambino.

    Ma sarebbe venuto un giorno in cui non avrebbe più potuto sentirsi felice. La mamma lo guardava mentre tendeva le manine alle rondini come se volesse prenderle a volo, o quando tirava la palla, e pensava che il suo bambino non sarebbe sempre stato felice così. Non avrebbe potuto rimanere sempre seduto in quello spazio largo un palmo, tra la finestra e la ringhiera, a baloccarsi con quella palla di cencio o a ridere meravigliato alle buffonate dei ragazzi di faccia. Quei ragazzi sarebbero stati presto uomini, e non si sarebbero più tinto il viso con il carbone per spaventare il suo povero bambino, che invece ne rideva. Quella palla di cencio, quel cavalluccio di legno, quel pulcinella di cartapesta, presto non lo avrebbero più divertito, e il cortile, ora tanto vario e così pieno di passatempi, con i conigli, le rondini, la tromba del signor Maresciallo, sarebbe diventato anche per lui un triste pozzo di miserie, che si affacciavano appunto a tutte quelle finestre, mostrandosi senza vergogna le une alle altre. Allora egli non sarebbe più stato felice, non avrebbe più guardate le cose con quel sorriso dolce e chiaro che ora gli illuminava sempre gli occhi color di cielo; ma, aggrappandosi con le mani alla ringhiera, avrebbe tentato di sollevarsi sulle gambe inerti e di camminare. Poiché avrebbe considerato quel ballatoio, e quella stanza, e quel cortile, e il mondo intero, come una tetra prigione dalla quale bisognasse fuggire.

    III

    Anche ora, talvolta, quando è tanto che sta lì seduto a giocare, Robì afferra con le mani la ringhiera e tenta di sollevarsi. Ma le sue braccia sono ancora troppo deboli, ed egli subito rinuncia ad uno sforzo che sente quanto sia vano. Allora si volge verso sua madre e la chiama: — Dada, dada… — e le sorride perchè lo prenda in braccio e lo tolga di lì. Ecco la madre con il suo bambino in collo, stretto contro la gota. Eccola con quel peso che sempre essa si porta in giro per la città, infaticabilmente, per ore ed ore, dalla mattina alla sera, senza che nessuno sappia dove vada e perchè sia sempre in moto così. E’ una povera donna, sola al mondo con quel bambino. Il marito le morì da un anno. Se vivesse d’elemosina, si capirebbe perchè vada sempre attorno con quel bambino in collo. Allora direbbe: — Non cammina… — con un altro accento. Ma lavora per vivere. Quando il bambino dorme, la notte, nel letto grande, tra il muro e un cuscino che gli impedisce di cadere, allora la madre lavora, cuce e taglia a quel fioco lume. Le basta di stare seduta per riposare le gambe tronche dal troppo camminare. Di giorno invece le sue gambe sono in moto, e la sua povera testa affaticata e dolente riposa, come può, nell’assenza d’ogni pensiero.

    Il bambino ormai conosce tutta la città così bene come il cortile. Sa quanto essa sia grande, e quanti cavalli e carrozze corrano per le sue strade sempre affollate. I soldati, che marciano in colonna con gli elmetti e i fucili luccicanti al sole, li ha veduti cento volte sfilare al suono delle loro musiche. Riconosce da lontano i pennacchi dei corazzieri; e i loro elmi, simili a grandi creste dorate, li saluta con grida di gioia, e tende le manine per prenderli, come fa con le rondini che giostrano nel cortile. Le fontane con le loro girandole d’acqua, che si sollevano alte e candide in spume e polverii d’argento dal mezzo delle piazze, gli riempiono gli occhi di stupore. Al parco, ai giardini pubblici tutto lo diverte: i cigni che silenziosi passeggiano sull’acqua, le scimmie che saltano nelle gabbie, e soprattutto i fiori delle aiuole, con i loro disegni e i loro innumerevoli colori. Leva il suo viso verso le fronde verdi degli alberi e ride se si stacca una foglia. Dapprima credeva che fossero uccelli, le foglie che cadevano giù dai rami. E, quando le vedeva posarsi immobili nella polvere, spingeva la mamma perchè le raccogliesse. Avutane una in mano, la guardò deluso con un’ombra cattiva negli occhi. Ora le prende fra le dita, e ride, e si fa vento come se fossero ventaglini. Ha passate ore di stupore inesauribile in molte chiese immense, tutte stellate di lumini bianchi e lontani come stelle. Tutte le immagini erano dada: sua madre. Nei chierichetti vestiti di cotte bianche e sottane nere egli vedeva tanti esseri misteriosi e fantastici che giocavano con strane palle d’argento, dalle quali si sprigionavano lievi nuvolette candide; ed eran legate da catenelle, come la sua dallo spago. Quando annottava, i grandi globi ad arco scoppiavano in lunghe file nel buio delle strade nere. Allora il viso di Robì s’affacciava estatico sulle vetrine illuminate delle botteghe come su tanti acquari pieni di quei tesori che il povero vede sempre attraverso un vetro spesso come un muro. Il ritorno in tramway era per Robì un divertimento inebbriante, simile a quello della giostra o dell’altalena.

    Ma verrà un giorno in cui le braccia della madre non reggeranno più al peso del figlio fatto greve come un macigno. Allora non potrà prenderselo in collo, così piccino e leggiero com’è ora, e portarlo in giro con le sue povere gambe stanche a vivere fra gli uomini la vita di tutti gli uomini. Quando la sua curiosità sarà divenuta prepotente e insaziabile, una curiosità di maschio, essa non potrà più sollevarlo da terra, dove starà inchiodato, e, stringendoselo contro la gota, portarlo dove la sua curiosità, il suo desiderio di vivere, il suo bisogno di muoversi, lo spingeranno. Poiché allora non sarà più questo bambino roseo e biondo, con questo corpicino di pulcino, con questo sorriso innocente negli occhi, che ora è, ma sarà un povero tronco inerte d’uomo, con una faccia d’uomo e un’infelicità cupa negli occhi da non potersi guardare. Nessuno allora gli sorriderà più, dicendo: — Com’è bello!… che angelo!… — ma, torcendo il viso, guarderanno da un’altra parte. La madre non dirà più, con questa sua voce assonnata: — Non cammina… L’infelicità di quel corpo senza vita non sarà nascosta a nessuno.

    IV

    E’ notte e Schiavina lavora. Come è bianco il bianco sotto la luce elettrica! La lampadina, consumata, sembra che debba spengersi da un momento all’altro, e tutto dipende soltanto da quel filo sottile attorcigliato che brucia nel globetto di vetro. Pure, quantunque sia consumato, non si spezza, e gli occhi di Schiavina si smarriscono sul bianco della tela che essa cuce. Non distingue più i punti dell’ago, non sa dove vadano. Posa lo sguardo e vede tante macchie giallicce come quelle che velano gli occhi dei ciechi. Quelle macchie si muovono sulla tela, ma a lei sembra di sentirsele distese sulle pupille. E’ tardi. Da quante ore cuce così curva sotto il lume? Certo molte ore. Era ancora quasi giorno quando Robì s’è addormentato contro il cuscino; e, se la stanza era già semibuia, il cielo del cortile splendeva ancora chiaro e dorato. Subito ha acceso la luce, s’è ammucchiato in grembo quel lenzuolo bianco, e ha incominciato a cucire. Il giorno s’è spento interamente senza ch’ella se ne sia accorta. Poi le finestre, ch’erano aperte e illuminate, ad una ad una si sono anch’esse chiuse e abbuiate, e il cortile si è vuotato d’ogni voce. A un tratto ha udito il rumore della fontana che gorgogliava sola. Contemporaneamente, nel silenzio, come in un immenso imbuto, ha udito anche rimbombare in fondo al cortile i passi lenti di qualcuno che rincasava. Allora era già notte alta, eppure tanto altro tempo è passato. Ora ha un’idea fissa: che quella lampada, così consumata, possa spengersi, poichè tutto dipende da quel filo di carbone tanto sottile e logoro. Una sola speranza le dà ancora la forza di muovere l’ago e di tenere aperti gli occhi: che quella lampada tanto consumata si

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