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Angela
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E-book351 pagine5 ore

Angela

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Info su questo ebook

Quando si fa sera, riposti gli orologi riparati negli astucci, pronti per essere riconsegnati l'indomani mattina ai proprietari, Zìmolo chiude la bottega di pietre e cuoio incastonata in fondo al vicolo. La chiude ed esce per strada, s'incammina verso una casa dove ad aspettarlo non ci sono figli né moglie. Alla sua età, ha ormai perso ogni speranza di compagnia e la notte, quando aspetta il sonno, gli piace raccontarsi di non pensarci neanche più di tanto. Nel tragitto verso casa si ferma davanti a una palazzina rossa in mattoni che nasconde, dentro le proprie mura, anime di ragazze sole come lui, nonostante i clienti giornalieri. Donne giovani eppure già prive di futuro. Angela è una di loro, ventenne madre di un bambino di padre senza volto. Zìmolo vorrebbe aiutarla, ma Angela, chiusa nella propria diffidenza e solitudine, ha difficoltà a fidarsi ancora una volta di un uomo.In questo romanzo lievemente illuminato, la malinconia segnerà lo scorrere delle pagine e donerà alla lettura un'atmosfera soffusa che sa di crepuscolo e di colla di orologi, colorando Zìmolo, mastro orologiaio, di un alone di solitudine e tristezza.-
LinguaItaliano
Data di uscita1 ago 2022
ISBN9788728195093
Angela

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    Anteprima del libro

    Angela - Umberto Fracchia

    Angela

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1923, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728195093

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PARTE PRIMA

    I

    Poche città come la nostra debbono alla natura tutta la loro bellezza. La sua parte bassa si distende a mezzaluna sull’arco di un golfo le cui rive erano un tempo così ricche di bella verzura, che ancor oggi tra le pietre della banchina vegetano in magre file alcune tamerici, confondendo i loro ramicelli, per chi le guardi da lontano, con gli alberi e le antenne che fanno selva nel porto.

    Questa città bassa, nero gregge ammansito ai piedi della cattedrale, intersecata da vicoli bui, attraversata da tre o quattro canali, è antica di molti secoli. Non vi si trovano che casucce e casupole, alcuni tetri palazzi, ospedali e conventi, e solo alle sue estremità s’innalzano gli immensi edifici dei silos, le torri dell’arsenale, i cantieri e le fabbriche. Alle sue spaile il fiume, sempre gonfio di acque azzurrine, spesso interrotto da potenti chiuse e da ponti, scorre lento tra due ripe ariose, mentre lungo i suoi argini stanno allineati viali di acacie e di platani, girano ruote di mulini simili a vecchi piroscafi in secca, e scendono lentamente i convogli di barche, che, per i canali, si trascinano poi fino al mare.

    Oltre il fiume, sale a gradi, su per i dolci declivi delle colline, la città alta. Tutta imbandierata di persiane verdi, candida, con le mille e mille finestre aperte sul golfo, essa sorregge trionfalmente nel sole, sulle fronti marmoree dei suoi palazzi, i viali pensili del parco, dove le palme di un bel verde smaltato sembrano ventagli aperti contro il cielo a raccogliere le brezze, che in estate, spirando dai valloncelli delle colline più eccelse, si posano sulla città come una fresca impalpabile pioggia.

    Certo chi vive nella città bassa, tra il mare e il fiume, non vede nulla di questo bel panorama. La bottega di maestro Zìmolo era uno stambugio buio come una grotta, in fondo ad un vicolaccio che si chiama del Lastrico forse perchè, a cagione d’una cloaca, fu anticamente lastricato con grosse pietre rettangolari, quando ancóra gli altri vicoli del quartiere erano tutti sterrati. Poco sole illumina questa viuzza e soltanto in alcune ore del giorno. Tuttavia anche quel poco la bottega di maestro Zìmolo non se lo godeva tutto. Contro i vetri della mostra e della porta, che avrebbero dovuto illuminarla, erano appesi in fila a lunghi spaghi centinaia di orologi, e fra l’uno e l’altro non s’aprivano che sottili spiragli per i quali la luce già scarsa penetrava appena. Il banco di maestro Zìmolo, appoggiato contro la vetrina, se la prendeva tutta per sè. Sul suo piano non si vedevano che orologi sventrati con le loro molle all’aria, attorcigliate, livide, rotelle e rotelline, sparse qua e là a mucchi, sfere, lunette, serpentine, stelle d’ogni misura, in un’indescrivibile confusione.

    Maestro Zìmolo stava seduto a quel banco ore ed ore della giornata, e il suo sguardo raramente si allontanava da quei rottami. Pure, quando metteva la lente e appuntava la pupilla nel ventre d’uno di quegli orologi, l’orizzonte, che allora gli si schiudeva dinanzi, valeva per lui quanto il più bel panorama di colline, di alberi o di mare, fra quelli che la città avrebbe potuto offrire al suo sguardo. Egli si soffermava a contemplare le acque rosee dei bei laghetti di rubino, stagnanti qua e là per quei paesaggi dorati e inargentati, tra le bizzarre architetture del castello; e poi, valicando canali e abissi, si perdeva estatico nell’intrico dei nottolini, delle piramidi, delle spirali, con la voluttà di un esploratore il quale, percorrendo misteriose contrade, scopra ad ogni passo i segni di una civiltà a lui già nota.

    Quando, stanco di quelle esplorazioni, maestro Zìmolo sollevava gli occhi, vedeva allineati dinanzi a sè i cento e più orologi appesi contro il vetro. E come quelli che, contemplando la luna piena nelle limpide notti d’estate, sono tratti a fantasticare intorno alle macchie e figure, che vi si scorgono ad occhio nudo, se siano due innamorati che si baciano, o l’Ebreo Errante che fugge con il suo fardello in ispalla, o altre simili congetture; così egli, guardando quelle cento piccole lune d’oro e d’argento, poteva sognare come se avesse avuto dinanzi uno dei divini pleniluni che trasformano il golfo in uno specchio fatato e la città alta in un’immensa torre di neve.

    Infine, spingendosi oltre la siepe degli orologi, attraverso l’uno o l’altro spiraglio, lo sguardo di maestro Zìmolo scopriva un terzo orizzonte. Era questo la facciata d’una casupola in tutto simile alle altre che formano quel vicolo, salvo che è dipinta in rosso; e sulla porta non ha insegna, ma soltanto una lanterna verde la cui debole fiamma di gas, accendendosi al crepuscolo, consuma poi tutta la notte con un fioco splendore di lucciola.

    A dire il vero, chi, incamminandosi per quel vicolo, non si fermava alla bottega di maestro Zìmolo, di solito, fatti pochi passi, bussava proprio alla porta della casa rossa. Allora si vedeva apparire ad una finestra la gran testa arruffata di una strega, la porta si apriva con uno scatto, e il visitatore entrava, richiudendola con fracasso dietro le proprie spalle. Talvolta accadeva, e anche più volte nello stesso giorno, che la vecchia dalla testa di strega corresse da maestro Zìmolo con un orologio in mano. Egli lo prendeva, lo soppesava, ne provava il guscio con la pietra del paragone, e, messa la lente, ne scrutava le viscere. Poi, tratto un sacchettino di pelle nera da una tasca del suo corpetto, contava alla vecchia poche monete d’argento.

    Nella casa rossa questa di commerciare orologi era una così antica abitudine che, nel quartiere, tra marinai e gentuccia, la chiamavano anche la Casa degli Orologi. Ma maestro Zìmolo non si vergognava che l’onesto commercio della propria bottega potesse venir confuso con quello che si esercitava là dentro. Da quarant’anni egli comprava orologi usati, fossero buoni o cattivi, purchè avessero la cassa d’oro o d’argento e nell’interno quei laghetti di rubino. I buoni orologi il appendeva al vetro, per chi li volesse comprare. Quelli cattivi, che avevano le molle rotte, i denti consumati, gli ingranaggi pieni di polvere, ed erano la maggior parte, li smontava pazientemente pezzo per pezzo. L’oro e l’argento delle casse, fusi in certi suoi crogiolini, li colava in tante piccole verghe che rivendeva agli orefici; ed i rubini li raccoglieva in diverse scatoline, spartendoli a seconda della loro grandezza, per poi rivendere anche quelli agli orologiai di mestiere. Così, in quarant’anni, molti degli orologi che aveva demoliti provenivano appunto dalla casa rossa. Ma, non avendo mai varcata la soglia di quella casa, egli poteva far conto d’ignorare come mai essa producesse tanti orologi di ogni razza e paese.

    Maestro Zìmolo, a sessantasette anni, era un poco ingrassato, sebbene la sua faccia rosea, senza ombra di pelo, sembrasse sempre quella di un fanciullino. Aveva le labbra per lo più atteggiate ad un sorriso dolce e mansueto, che di quando in quando gli occhi chiari, piccoli, molto irrequieti, avrebbero voluto tingere di una punta di malizia. Ma l’occhio destro, per l’uso della lente alquanto piú aperto e sporgente del sinistro, difficilmente andava d’accordo con l’altro nel dare al suo viso un’espressione unica e ben definita. Quando era nella sua bottega maestro Zìmolo portava sulla persona piuttosto piccola ed umile un camice di fodera nera, e sulla fronte una berretta. Fuori vestiva invece un vecchio e onorato cappotto e sulla fronte, a coprir la calvizie, metteva un mezzo tubino di feltro. I radi capelli, che gli si arricciolavano sulle tempie e sulla nuca, erano bianchi da un pezzo.

    A sera, dopo aver mangiato il poco che conteneva un cartoccio, chiusa la bottega con un lucchetto, maestro Zìmolo se ne andava solo solo per quei vicoli sino al mare. Là, seduto sopra un pilastrino di pietra o sopra un mucchio di canapi arrotolati, se ne stava a capo basso a guardare i bambini che giocavano tra le botti, le àncore arrugginite, gli ormeggi tesi, scavando buche, piantando stecchi fra i sassi, facendo castellucci con pezzi di vetro levigato o con gusci d’ostrica, come si vede comunemente in vicinanza del mare.

    Egli sceglieva il posto dove sedersi quanto più prossimo all’uno o all’altro gruppo di quei bambini. E, rimanendo immobile e assorto, sorridendo sempre vagamente a tutti e a nessuno, ascoltava i loro discorsi, seguiva i loro gesti, ed anche li incoraggiava con piccole mosse del capo, se quelli, levando gli occhi, lo guardavano per un minuto. Se capitava che qualcuno di essi inavvertitamente gli si avvicinasse o gli rotolasse fra i piedi, era pronto a stender la mano e ad accarezzargli i capelli, esclamando: «Ah! bambino! bambino!» E la sua voce, mentre pronunciava queste parole, che non avevano senso alcuno, tremava di tenerezza. Quando gli pareva che l’uno o l’altro rispondesse con un sorriso di confidenza alla sua carezza, maestro Zìmolo lo prendeva per un braccio e, attirandolo dolcemente a sè, gli dava con due dita un buffetto sulla gota. « Di’ su, mostrino, come ti chiami?» gli domandava. «Sei solo, o hai fratellini? Sorelline? E che fa il babbo?».

    Erano tutti poverelli: figli di pescatori o di marinai, di carpentieri o di gente senza nè arte nè parte. Crollando il capo, rattristato, maestro Zìmolo affondava una mano in tasca del suo vecchio cappotto e la ritraeva con il pugno chiuso. « Che c’è qui? » domandava. « Se indovini è tua? » Tutti ormai sapevano che cosa potesse uscire dalle tasche di maestro Zìmolo, e rispondevano: «Una trottola!…» E allora egli apriva il pugno, prendeva con due dita la rotellina d’orologio, dorata, che era venuta alla luce, e, spianata la palma dell’altra mano, con un colpetto ve la faceva girare proprio come una trottola.

    Poi calava la notte, urlavano le sirene, il porto diventava buio e silenzioso, e maestro Zìmolo, a lenti passi, s’incamminava. Percorso un tratto di quella via aperta, s’introduceva in un altro labirinto di viuzze strette e sudice come quelle dalle quali era poco prima uscito. Giunto sull’angolo di una piazzetta, infilava un portone appena illuminato da una grigia fiammellina di gas, e, salendo al quarto piano, entrava in una stanza in fondo alla quale s’apriva, sui tetti, una sola finestra. C’era da un lato un letto con le coltri sempre all’aria, e, sparse lungo le pareti, poche suppellettili, che parevano abbandonate. Spogliati i panni, maestro Zìmolo si coricava in quel letto ad aspettare il sonno.

    II

    Le notti di maestro Zìmolo erano tutte uguali. Verso l’ alba, di solito, sognava dei ragazzi che giocavano a piastrella con orologi d’ argento. Poco dopo, al primo raggio di sole, al primo tocco di campana, si svegliava e, spalancata la finestra, guardava, oltre la linea dei tetti digradanti verso il porto, salire al cielo le alte colonne di fumo delle ciminiere che le case nascondevano ai suoi occhi; e, seguendone le lente ondate, a fiotti, a mulinelli le vedeva scomporsi lentamente in tante nuvolette, in cirri labili, e svanire. Ma, mentre mezzo insonnolito ancòra stava per perdersi anch’egli con lo sguardo in quell’infinito, ecco, a un tratto, apparirgli la vetrina della sua bottega, con tutti gli orologi appesi ai fili, o la facciata della casa rossa, con le pianticelle di cappuccine e di fucsie penzolanti dai davanzali. Allora soltanto pareva che egli si sentisse veramente sveglio, e sùbito, come se quelle immagini superassero in bellezza l’azzurro roseo del cielo per il quale spaziavano i suoi occhi, in gran fretta si allontanava dalla finestra; e, vestiti i suoi poveri abiti, quasi correndo se ne usciva di là.

    Per via si fermava dai venditori di pesce fritto, di telline, di datteri, scaglionati su ogni angolo, per farsene riempire due cartocci con la giunta di qualche frittella e di pane zibibbato. Poi, percorso alla svelta l’ultimo tratto di strada, non si sentiva felice se non quando, seduto al suo banco, poteva finalmente riposare lo sguardo su tutti quegli orologi.

    Maestro Zìmolo aveva un garzone, che andava a scopargli la bottega nelle prime ore del mattino e si chiamava Mondino. All’aspetto non si capiva se ragazzo o uomo, scarso di corpo, grosso di testa e di mani, di capelli rossi, gli occhi che parevano tolti allora allora dalla bambagia, questo garzone era il quarto di una lunga catena di tredici tra fratelli e sorelle. Gli zii, i nipoti, i cugini, i cognati di Mondino non si potevano nemmeno contare. Suo padre conduceva barche sul fiume e tutti i suoi fratelli erano anch’essi marinai d’acqua dolce. Egli solo faceva il garzone di tre o quattro botteghe e s’industriava in altri lavori leggeri di terra ferma. Per quanto fosse buona la stagione, la fortuna propizia, c’era sempre qualcuno di quel parentado all’ ospedale o in prigione; le donne partorivano senza posa; e se per caso non nasceva nessuno, in compenso c’era chi proprio allora pensava di andarsene all’altro mordo. Le vedove occupavano sùbito il posto lasciato libero dalle zitelle e gli orfani quello dei pargoli morti nel nascere.

    I lutti, le malattie, gli infortuni, che nella vita di Mondino s’alternavano senza nè interruzione nè fine alle feste, ai banchetti, ai tripudi d’ogni genere, non lasciavano indifferente maestro Zìmolo. Egli conosceva tutti per nome, uomini e donne, vecchi e giovani, e persino i neonati, ed era attento ai casi della loro vita come se invece d’essere parenti di Mondino fossero stati parenti suoi propri. «Dunque è nato un altro maschio alla Zante?» domandava. Oppure: «Che mi dici di Bovìso? Sì? È spacciato? E a chi lascia il suo?» Mondino contava sulle dita i figli e i nipoti di Bovìso e conchiudeva: «La torta è piccola ma i topi son tanti!»

    Maestro Zìmolo dava una crollatina di capo. Poi, con un sospiro, si metteva a far mentalmente tanti calcoli complicati. E Mondino già se ne era andato, era già lontano, già batteva il mezzodì, ed egli se ne stava ancòra assorto a spartire l’eredità fra i sette figli di Bovìso. Rifaceva per la millesima volta il computo della propria ricchezza, che era quella d’un vecchio parsimonioso, e all’uno lasciava le cedoline con il ritratto del Re, all’altro la bottega, a un terzo i crediti accuratamente annotati sul mastro. Pensava alla Zante, che aveva messo al mondo un altro maschio, e, sbocconcellando il suo pane di zibibbo, succhiando le valve nere d’un dattero profumato: «Non avrò mai un bambino! » mormorava. I suoi occhiettini i di vetro si coprivano d’un velo e, sorridendo maknconicamente, si guardava intorno smarrito.

    Accadeva spesso che qualcuno, schiudendo cautamente la porta, facesse a un tratto ballonzolare contro il vetro tutti gli orologi appesi agli spaghi, e, messo il capo nella bottega, domandasse:

    — Lo comprereste, eh? un bell’orologio?

    Maestro Zìmolo con un cenno li invitava ad entrare.

    Erano per lo più ladruncoli da strada, marinai o camerieri di bordo, rigattieri ebrei, vecchie ruffiane. Egli prendeva 1’ orologio che gli veniva offerto, faceva saltare la calotta e, incastrata la lente nell’ orbita, mentre scrutava il battito del bilancino: «Dite su, avete bambini, buon uomo?» domandava. E chi non aveva bambini? Le galline fanno le uova, le coniglie fanno i conigli, le donne fanno i bambini. Per grazia di Dio qualcuno anche ne muore prima di nascere, o appena nato, o magari che è già cresciuto tanto; e quelli che rimangono se ne vanno per il mondo, dove fortunatamente s’incontrano nelle tempeste, nelle pestilenze e nelle galere, e spesso non ritornano indietro mai più.

    Maestro Zìmolo, senza staccare la lente dall’ orbita, levava il viso meravigliato. « Ma dunque », chiedeva, «sono peggio che bestie, per voi?» E non si capacitava che un padre potesse parlare così dei propri figli. Poi, quando ne aveva saputo abbastanza di una lunga vita di miserie, riabbassava l’occhio sull’ orologio e, sfiduciato: « È tutto stagno, buon uomo… » diceva sospirando. «Argentone, come si chiama, e non mica argento… » Aveva un attimo di incertezza e infine con rassegnazione soggiungeva: « Su via, facciamo pure questo mercato… »

    Anche alla vecchia mammana della casa rossa avrebbe voluto domandare mille cose, ma glielo aveva sempre vietato una specie di segreto pudore, la sua timidezza infantile. Era stato giovane come tutti gli altri uomini, e la casa rossa era là, dinanzi alla sua bottega, con i fronzoli di cappuccine e di fucsie alle finestre, fin dal primo giorno che egli aveva messo il piede in quel vicolo. Anche la vecchia mammana era stata giovane, sebbene non avesse mai dimostrata una precisa età; un tempo portava la schiena diritta, i suoi capelli erano appena bigi, la voce non le usciva così arrochita dalle labbra mence. Pure quel pudore nemmeno da giovane non lo aveva saputo padroneggiare. Temeva, fino da allora, che la sua innocente curiosità dei fatti altrui potesse essere scambiata per la vergognosa voglia di partecipare alla vita che tanti uomini e tante donne conducevano, giorno e notte, in quella casa.

    Abbastanza essa trapelava dalle sue mura, attraverso le persiane azzurrognole dietro le quali stavano sempre in agguato le ragazze, mostrando ora un braccio nudo, ora il lembo d’una vestaglia o una treccia di capelli bruni o biondi, ed ora scoprendo per un attimo i loro visi dipinti. Le loro risa, i loro canti, i frequenti richiami che esse si scambiavano da una finestra all’altra, battevano in ogni senso il vicolo come colpi di vento e, sebbene affiochiti, giungevano attraverso i vetri della porta fino al suo orecchio. Le conosceva tutte per nome: e quante ne erano passate di là in quarant’anni! Non erano passati tanti orologi per le sue mani. Ma veramente la maggior parte di quei nomi se li era dimenticati. Ricordava soltanto che molte volte aveva udito ripetere, in quarant’anni, il nome di Maria e si era domandato se potesse essere sempre la stessa ragazza quella che portava quel nome.

    Altro non pensava, se non, con tristezza, che neppure quelle ragazze non avrebbero mai potuto avere un bambino. «No, non avranno mai un bambino», mormorava quando, nei momenti di maggiore sconforto, le udiva ridere sguaiatamente o cantare a voce spiegata qualche canzone da marinaio. Egli era fermamente persuaso che quelle ragazze non potessero avere bambini, perchè, con la sua scarsa conoscenza del mondo, aveva sempre creduto, in un senso esageratamente esatto, che non potesse nascere un figlio da diversi padri. Considerando sè stesso infelice, considerava dunque infelici anche quelle ragazze, condannate come lui a non avere bambini, e ne sentiva pietà. Erano giovani. Sarebbero diventate vecchie un giorno, e non avrebbero più potuto nè ridere nè cantare.

    III

    L’inverno è molto mite da noi, Le nebbie, che vorrebbero scendere dalle montagne ad avvilupparci, sono tenute lontane dai tepidi venti di mare e restano sospese nelle vallate, si può dir quasi alle porte della città, come eserciti accampati a stringerla d’assedio lungo le alture. La primavera quindi è precoce, ed essendo precoce è anch’essa mite, e non dovendo vincere resistenza alcuna si manifesta dolcemente: mette sui rami degli alberi, lungo il fiume e sulle colline, appena una peluria verde, come un tenero muschio; e mentre il fiume, più che mai gonfio, rugge contro gli argini, le chiuse, i ponti, tutto rabbuffato di schiume, sbocciano inavvertite le prime gemme, sotto un cielo d’una fragilità senza pari.

    Proprio all’inizio d’una di queste docili primavere maestro Zìmolo fu assalito una sera, poco dopo il crepuscolo, da forti brividi di freddo. Non spirava alito di vento, e pure, più egli si stringeva nel suo cappotto, più si sentiva correre su e giù per la schiena lunghi soffi gelati. A capo basso, il tubino calato sugli occhi, camminava lungo la banchina con il passo d’uno che lotti contro una forte corrente d’aria, e di quando in quando si fermava per scrollare dalle spalle il carico di ghiacciuoli, che gli pungevano la carne. L’odor di mare, di scogli, mescolato a quello dell’olio rancido, del bitume, della pece, che di solito gli pareva buono, gli dava invece la nausea.

    Per uscire da quel tanfo, anzichè fermarsi come sempre dove vedeva crocchi di bambini intenti a giocare, accelerò il passo, e 1’ ultimo tratto di strada che lo separava da casa sua lo fece quasi correndo. Nell’andito si arrestò un istante dinanzi allo sgabuzzino dove il portinaio, scamiciato, stava leccando con molto impegno un pezzo di cuoio già per metà inchiodato alla suola di una vecchia ciabatta. « Che sizza, eh? » avrebbe voluto gridargli. Ma nel vedere come era rosso in viso e sudato, tirò via battendo i piedi sull’ impiantito che a quei colpi rispose con tonfi cupi di tomba.

    Entrato nella propria stanza, maestro Zìmolo si precipitò a chiudere la finestra, e quando l’ebbe chiusa gli parve di sentirsi a un tratto intiepidito. Decise allora di cacciarsi sùbito, così vestito com’era, sotto le coltri, per paura che quel poco tepore non se ne fuggisse di nuovo. Ma non appena fu coricato, con le coperte fin sopra il capo, il freddo lo riassalì con brividi più che mai fitti ed acuti. Egli non era mai stato malato in vita sua, e non conosceva la febbre se non di nome. Sentendosi impotente a vincere quel gelo che gli intirizziva ogni membro, si dette senza resistenza per ammalato e per morto.

    Via via che si spengeva nella stanza la poca luce del crepuscolo, anche la sua anima andava oscurandosi, e i suoi pensieri l’uno dopo l’altro, sempre più lenti e sconnessi, si perdevano in una nebbia nella quale, per quanti sforzi facesse, non riusciva più a rintracciarli. Li abbandonava dunque, e sùbito nuovi pensieri si sostituivano a quelli, confusi, ondeggianti, che alla loro volta, appena formati, svanivano. Se apriva involontariamente gli occhi, dal buio che lo circondava vedeva apparire figure note e reali, Mondino, la vecchia mammana, il portinaio ciabattino, o anche gente che non aveva mai vista nè conosciuta, come quel vecchio zio di Mondino, Bovìso, morto da poco, e a tutti domandava ansiosamente: «Morirò?» Ma senza degnarlo di una risposta la faccia del vecchio Bovìso, bianca come la ricotta, si liquefaceva nell’ombra, ed anche tutte le altre figure sparivano silenziosamente negli angoli dai quali erano poco prima sbucate.

    Spesso gli pareva di essere nella sua bottega, e che tutti quegli orologi appesi agli spaghi, con i quadranti rivolti verso di lui, si movessero come altrettanti pendoli. Non ce n’erano due le cui sfere andassero d’accordo. Sicchè, suonando tutti insieme i quarti, le mezz’ore, le ore, secondo il loro capriccio, facevano una musica di cariglione nella quale egli non si sapeva raccapezzare. Si affacciava qualcuno alla porta e gli chiedeva: « Che ora avevamo ieri, a quest’ora?» Ed egli, preso da una specie di vertigine, guardava tutti i suoi orologi impazziti e, non potendo rispondere ad una domanda così semplice, si sentiva perduto. Cercava di fuggire, ma entravano nella bottega dieci, venti carabinieri, un intero plotone, con enormi pennacchi sulle lucerne e guantoni bianchi alle mani, che si mettevano a rincorrerlo in quel poco spazio. A stento riusciva a sgattaiolare nello sgabuzzino ed anche qui non trovava dove nascondersi. Il buco del soffietto era troppo angusto, i crogiolini erano troppo stretti, perchè il suo corpo ci potesse passare….

    Finalmente, senza sapere se avesse dormito una notte o cent’anni, allo spuntar d’ uno di quei giorni maestro Zìmolo si svegliò e, non riconoscendo nulla di ciò che chiaramente vedeva intorno a sè, credette allora di sognare. Egli si trovava in una specie di lungo corridoio dalle pareti nude, e di fronte al letto, su cui stava coricato, si aprivano l’una dopo l’altra tante finestre, che andavano rimpicciolendosi verso il fondo di quella stanza. Dalle finestre entrava una luce calda dorata, al cui splendore impallidiva la luce fredda di alcune lampade cilestrine, appese per lunghissimi fili al soffitto. I lembi di cielo, che egli poteva scorgere dal guanciale su cui posava il capo, erano di un azzurro immacolato. Alla sua destra aveva una parete alta e liscia, e alla sua sinistra si succedevano tanti letti tutti eguali fino in fondo, dove si apriva una porta.

    A tutta prima egli credette che quella corsìa di ospedale fosse deserta. Non vedeva nessuno. Udiva soltanto rantoli soffocati, qualche gemito, e un parlare sommesso di due o tre voci lontane. Ma poi, abituandosi a quella luce, scoprì che in ognuno di quei letti era coricato qualcuno; sul biancore sudicio d’ogni guanciale spiccava la macchia scura di una testa dai capelli arruffati o di un viso terreo; e tutte le coltri erano gonfie di un corpo che pareva disteso e abbandonato nel sonno. Allora ebbe paura di trovarsi in quel luogo e, cercando di soffocare nelle coperte i singhiozzi che gli spezzavano il petto, si mise a piangere come un bambino. Che cosa era mai accaduto da quella sera in cui, seduto sopra la barra di un vecchio timone, aveva veduto quei ragazzi azzuffarsi per una delle sue rotelline d’orologio, che involontariamente gli era sfuggita di mano? Tutti insieme si erano precipitati nella polvere per raccoglierla, gridando, arrotolandosi per terra in un viluppo… Picchiano del capo contro le selci, urtano nelle pańcie dei barili, che traballano come ubbriachi e minacciano di cadere… Poi si fa notte e tutto scompare nel buio. Maestro Zìmolo non vede, non ricorda più nulla.

    Quando quel pianto finì, maestro Zìmolo rimase tuttavia con gli occhi chiusi, quasi temesse, riaprendoli, di riveder quella stanza e quei letti. Sentiva in tutto il corpo un torpore, una stanchezza, come se si fosse coricato allora dopo un faticoso cammino e, stendendo le gambe fra le lenzuola, stirando le braccia, si preparasse ad un confortante

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