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I cavalieri elementali
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I cavalieri elementali
E-book686 pagine9 ore

I cavalieri elementali

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Info su questo ebook

I territori di Iliata sono preda del tiranno Tresob, ex cavaliere accecato dalla presunzione che ha tradito i suoi compagni e, forte della magia oscura che è in grado di esercitare, domina sul regno dal castello in cui si è rifugiato, nelle Terre Nere. Le sue truppe, composte da stregoni che comandano troll, orchi, spettri e orride creature, uccidono chiunque si opponga al suo potere, ma i quattro maestri elementali (Balmo, Baneg, Mebal ed Emalt) nascosti nel tempio sommerso sotto il lago Galo, confidano che i futuri cavalieri riescano ad annientarle. 
Così si dividono per il reclutamento dei giovani da addestrare, che si sono distinti nelle proprie comunità grazie ai loro talenti, ignari del destino che li attende: il cacciatore Anid, il pescatore Aluc, il coltivatore Piezam e il ferraio Olapo, rispettivamente destinati a diventare cavaliere dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco, e condotti all’incontro con i maestri da creature fantastiche. 
Solo in quel momento i ragazzi realizzano che quella dei maestri elementali non è una leggenda narrata per intrattenere i più piccoli, ma una straordinaria realtà di cui faranno parte. Attende loro una grandissima sfida: lasciare le famiglie, scoprire posti incredibili, sviluppare solidi legami diventando una squadra, imparare a combattere gestendo magicamente il proprio elemento e, soprattutto, proteggere Iliata dal nuovo, micidiale attacco di Tresob.

Daniele Alvisi nasce nel 1979 a Bondeno, un paese della provincia di Ferrara. Lavora presso il Canale Emiliano Romagnolo e ha sempre avuto la passione per il genere fantasy. Scrive il suo primo libro I cavalieri elementali per scommessa con se stesso e con la sua famiglia. Nel libro l’autore racconta un po’ di sé e della sua cerchia di amici i quali diventano i protagonisti. Dedica il libro alle sue due figlie alle quali cerca di trasmettere la passione per la lettura.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2021
ISBN9788830656475
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    Anteprima del libro

    I cavalieri elementali - Daniele Alvisi

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    A Celeste e Camilla,

    con l’augurio che nella vita non vi manchi mai

    un pizzico di fantasia

    e la determinazione per realizzare i vostri sogni.

    PROLOGO

    L’aria era gelida e il vento portava con sé l’odore della neve. Negli ultimi mesi a Iliata ne era caduta molta. Anche se il clima non era dei migliori, quattro persone avevano trovato il modo per incontrarsi lontano da occhi e orecchi indiscreti.

    Indossavano toghe di colore diverso: bianca per Balmo, blu per Baneg, gialla per Mebal, rossa per Emalt. Ogni colore rappresentava un diverso elemento.

    Erano arrivati tutti nello stesso istante, e si erano affrettati a entrare uno alla volta nel tempio sotto al lago Galo.

    Mebal sbuffò. «Non vedo l’ora che arrivi la primavera...» disse.

    «Che cosa ci facciamo tutti qui?» tagliò secco Baneg.

    Balmo annuì, preoccupato. «Nei villaggi ci sono sicuramente delle spie!»

    «Queste terre sono diventate invivibili da quando l’esercito di Tresob uccide chiunque abbia qualcosa da ridire contro le sue truppe di creature rivoltanti!» intervenne Mebal.

    «La sola speranza che ti fa tirare avanti è che se ne stia rintanato nella sua fortezza perché ancora ci teme. Sa bene che con la sua magia e i suoi sgherri non può fare nulla. Al momento...» aggiunse Emalt.

    Baneg lo interruppe. «La realtà è che, se non facciamo qualcosa, troverà un modo per spazzarci via tutti.»

    Balmo li fissò a uno a uno. «È per questo che siete qui. Forse il tempo di Tresob è finito! Il supremo Oriep mi è comparso in sogno. I cavalieri elementali sono nati e cresciuti. Ora devono trovare la strada per le corazze e poi quella che li condurrà a noi!»

    CAPITOLO 1

    Riaa

    Riaa, che sorgeva nei pressi di Stefora, l’antica foresta attraversata dall’Op, il fiume che rendeva fertile la vasta pianura di Iliata, era una cittadina abitata soprattutto da cacciatori e dalle loro famiglie, gente cordiale e silenziosa, abituata a sfruttare le risorse della natura da generazioni. Come ogni mattina, Anid si preparò per uscire. Non amava uccidere gli animali, ma doveva farlo per mantenere la famiglia e, se fosse stato abile e fortunato, sarebbe riuscito a trovare qualcosa anche da vendere al mercato.

    Attraversò la cucina di corsa e quando era quasi sulla soglia si ricordò di salutare i suoi genitori. Si voltò a metà, sorridendo. «Vado! Ci vediamo questa sera.»

    Juanc e Gei ricambiarono il saluto, ma Anid era già sparito oltre la porta.

    L’aria era fresca e pulita, il sole cominciava già a riscaldare e a sciogliere la neve caduta in quei giorni. Il ragazzo era di ottimo umore. Negli ultimi tempi, al limite della foresta, aveva spesso incontrato Ghimeg. La ragazza, che aveva di certo qualche anno meno di lui, si fermava a raccogliere piante e radici poco prima del sentiero che si inoltrava in Stefora. Giorno dopo giorno Anid si era abituato a cercare il biondo dei suoi capelli tra i cespugli. Giorno dopo giorno il loro rapporto era cresciuto, trasformandosi in qualcosa di più di una bella amicizia.

    Anche quella mattina la scorse dopo un centinaio di metri.

    «In cerca di frutti e funghi?»

    Lei sollevò gli occhi azzurri e sorrise. «E tu sempre a caccia di poveri animali?»

    «Oggi sento che catturerò qualcosa di grosso...»

    «Cerca piuttosto di stare attento! La foresta non è sicura!»

    Anid annuì e si inoltrò nella fitta boscaglia.

    In quelle zone più remote era possibile imbattersi nelle prede più interessanti. Nelle prime ore, però, non gli riuscì di catturare niente, e così si addentrò più del solito, dove le piante diventavano sempre più alte e imponenti e impedivano alla luce del sole di filtrare attraverso le loro fronde.

    Si muoveva ormai quasi al buio quando, a un tratto, qualcosa colpì la sua attenzione. Nell’oscurità della foresta scorse una brillante luce bianca. Sentì il cuore accelerare i suoi battiti e si nascose dietro un tronco. Ma presto la curiosità ebbe il sopravvento. Pur rimanendo accovacciato, si sporse leggermente per poter guardare oltre l’albero. La luce si era fatta più luminosa e sembrava ormai vicinissima. Scostò di scatto la testa: quella cosa puntava dritta su di lui. Si rannicchiò spaventato, ma si trattò di pochi istanti. Non poteva certo restarsene lì, doveva affrontare quel che gli stava venendo incontro, qualsiasi cosa fosse. Fece un lungo respiro, poi si alzò di scatto, si scostò dal tronco e puntò l’arco verso la luce. La foresta era ora illuminata a giorno. Anid si bloccò, ma la sua mano rimase in posizione. In quel momento la luce si affievolì ed egli riuscì a malapena a intravedere una sagoma indistinta: un animale, certamente, con le lunghe ali distese. Poi tutto scomparve e lui si ritrovò di nuovo al buio con la freccia ancora incoccata e la mano stretta al legno dell’arco.

    Anid si raddrizzò, si voltò e riprese la via di casa. Riattraversò la foresta a passo sostenuto, il pensiero fisso su ciò che gli era appena capitato. Ma che cosa aveva visto? Al minimo rumore si voltava per controllare che la strana luce non lo stesse seguendo. Spalancò la porta di casa, senza quasi avvedersi del fratello, che stava sistemando altra legna nel camino.

    «Hai catturato qualcosa o anche stasera dobbiamo mangiare uova e verdure?» lo apostrofò Obiaf, con un largo sorriso.

    «Niente di niente...»

    «Ehi, che faccia! Hai visto un fantasma?»

    «Forse» bisbigliò Anid.

    «Come?»

    Anid fissò il fratello, incerto. Non sarebbe stato meglio confidarsi almeno con lui? Poi scosse la testa. «Non ho trovato nulla, riproverò domani! Ora sono stanco, non ho fame. Ho bisogno di dormire.»

    Ma quella notte Anid non riuscì a riposare. Esaminava i fatti, il suo comportamento. Avrebbe dovuto seguire la luce, avrebbe dovuto cercare di capire da dove arrivasse. Alla fine si convinse che doveva tornare lì, subito, appena sveglio.

    Uscì di casa prestissimo, concentrato. Doveva parlarne a Ghimeg? Poteva trovarsi in pericolo anche lei, lì al limite del bosco... Era ancora preso da questi pensieri quando la scorse. Le andò incontro e lei gli sorrise, e subito una ruga gli attraversò la fronte.

    Nella sua espressione c’era qualcosa di diverso e Ghimeg non aveva potuto non notarlo. «Stai bene?» gli chiese.

    «Sì.»

    «A vederti, non si direbbe!»

    «Sono... sono stanco.»

    «Stanco? Di primo mattino?» La ragazza si scostò una ciocca dal viso, senza smettere di fissarlo. «Qualcosa ti turba?»

    «No, no...» Non le avrebbe detto niente, almeno per il momento. Non voleva che lei pensasse che fosse uscito di senno «Se non riesco a cacciare nemmeno oggi, forse dovrò passare la notte nella foresta.»

    Ghimeg piegò la testa da un lato. «Ma non lo hai mai fatto. Sei sicuro?» «Ti spiegherò, un giorno ti spiegherò» le rispose Anid, dopo un attimo di silenzio. La salutò e riprese il cammino, senza darle il tempo di replicare.

    In poco tempo si ritrovò esattamente dove la sera prima aveva visto la luce. Questa volta non si era preoccupato affatto del rumore che faceva attraversando la foresta. Gli animali l’avrebbero di certo sentito a chilometri di distanza, ma a lui non importava. Raggiunse il posto con largo anticipo rispetto al giorno precedente. Il cuore gli batteva forte nel petto. Rimase immobile per diverso tempo, immerso nell’oscurità della foresta, mentre le fronde gli sembravano ancora più fitte del solito. Che avesse avuto una allucinazione? Il tempo trascorreva inesorabile e non accadeva niente. Iniziò a sentirsi a disagio. Che ci faceva lì, fermo, a gambe aperte? Che cosa aveva da scrutare? Era solo. Raddrizzò le spalle, si sfilò l’arco dalla schiena, preparò la freccia. Sarebbe andato a caccia, almeno avrebbe portato qualcosa da mangiare a casa. In quel momento notò un punto luminoso alla sua destra. Si immobilizzò. Ancora una volta sembrava che volesse avvicinarsi a lui. Si guardò intorno, ma non c’era un posto dove si potesse rifugiare. Si spostò dietro il fusto di un pino, continuando a tenere d’occhio la luce. Era sempre più grande, sempre più vicina.

    Non avrebbe ripetuto l’errore del giorno prima. Con un balzo lasciò il suo esile riparo. La luce era accecante. Anid sfoderò la daga, pronto. Qualsiasi cosa fosse, lui l’avrebbe affrontata. La luce perse d’intensità e nel chiaroscuro il ragazzo intravide un animale straordinario, meraviglioso e superbo. Restò immobile e attonito a fissare il candido unicorno alato. Anid fece un passo indietro, e poi un altro, ma l’unicorno si mosse verso di lui, lentamente, fino quasi a toccarlo. Quindi mosse la testa, si volse e iniziò lentamente ad allontanarsi. Anid capì che lo stava invitando a seguirlo. Rimise la daga nel fodero e si avviò dietro l’incredibile creatura, le cui lunghe ali sfioravano i rami più bassi degli alberi. Ogni tanto Anid si fermava, titubante. E tutte le volte l’unicorno, come se leggesse nei suoi pensieri, si voltava a guardarlo e con uno sguardo calmo e incoraggiante lo liberava da ogni dubbio.

    Arrivarono così ai monti della Catena Bianca. Anid non si era mai spinto così lontano. A quel punto incominciarono a salire. Il freddo non tardò molto a farsi sentire e Anid iniziò ad avere i brividi. L’unicorno si voltò verso di lui e lo avvolse con la sua bianca aura: subito il ragazzo smise di avere freddo e si sentì pervaso da una sensazione di tepore, una sensazione mai provata prima. Era svanita persino la stanchezza del lungo cammino. Arrivati quasi in cima al monte, Anid notò un’apertura sulla roccia. L’unicorno si fermò e lo invitò ad avvicinarsi. Anid fece qualche passo, ma non appena superò l’animale, questi sparì nel nulla, all’improvviso. Anid fu preso dal panico. Poi chiuse gli occhi, fece un lungo respirò e ascoltò il suo cuore. Senza più pensarci, si inoltrò nell’insenatura. L’antro buio era in parte rischiarato dalla luce che filtrava da fuori. Si ritrovò su uno stretto sentiero in leggera salita, come se stesse percorrendo l’ultimo tratto prima della cima del monte. L’aria cominciava a farsi leggermente più calda e gli asciugava il sudore sulla fronte, ma si sentiva sempre più stanco e provava un senso crescente di smarrimento misto a paura. Non sapeva quanto tempo fosse passato dalla scomparsa dell’unicorno, dove stesse andando e che cosa lo spingesse ad andare avanti.

    Devo essere pazzo..., pensò Anid. Forse questa è una trappola di Tresob!

    In quello stesso momento una voce rimbombò dall’interno della montagna.

    «Non sei pazzo, cavaliere. Sei un prescelto e questo è il tuo cammino!»

    Anid si fermò di scatto, impaurito e disorientato. Chi aveva parlato? Chi poteva leggere i suoi pensieri?

    «Chi sei?» gridò.

    La misteriosa voce riprese: «Abbandona ogni paura e ogni indugio!»

    Anid allungò un passo, poi un altro, avanzando lungo il sentiero con il cuore in gola. Poco dopo, la stradina si allargava e la luce si faceva più intensa. Era combattuto tra la paura e la curiosità. Alla fine raggiunse una grande grotta e un globo sfolgorante nella parte più profonda illuminava una splendida corazza, scintillante e maestosa. Doveva essere appartenuta a qualche potente cavaliere.

    Piegò la testa da un lato, osservò la corazza. L’elmo aperto, posizionato sulle spalle, era decorato con fulmini dorati; anzi, di quella corazza tutto – pancera, cosciali, stivali, cubitiere e scudo perfettamente tondo – era istoriato e splendente. Di fianco, giaceva uno splendido mantello bianco, ben ripiegato. In quell’istante Anid si ricordò della voce. Come si fosse svegliato di soprassalto da un sogno in piena notte, tornò sulla difensiva, staccò gli occhi dalla corazza, raddrizzò le spalle. In quel momento, dal buio alla sua destra, emerse un uomo dal lungo mantello bianco, alto e di bell’aspetto. Anid si rese conto che non ne aveva paura, ma rimase comunque guardingo.

    «Chi sei? E che cosa ci fai qui dentro?»

    «Quante domande, cavaliere. Io ti stavo aspettando, ma da tanto, da troppo tempo!»

    Anid scosse la testa. «Perché mi chiami cavaliere? Io sono solo un cacciatore.»

    «Tu ancora non sai chi sei, ma il tuo cuore l’ha sempre saputo, cavaliere» replicò l’uomo.

    «Continuo a non capire perché mi chiami cavaliere. E non riesco a comprendere neppure perché mi trovo in questa grotta. Chi mi dice che tu non voglia uccidermi?»

    «Vuoi forse sfidarmi a duello, cavaliere?»

    «Se è questo che chiedi, non mi sono mai tirato indietro. E smettila di chiamarmi cavaliere!» ribatté Anid.

    «Prima che tu prenda una decisione, è meglio che tu sappia che io sono molto più forte di te!»

    Immediatamente, un vento gelido avvolse Anid e dall’uomo che gli stava di fronte si sprigionò un alone di luce bianca accecante. Anid rimase pietrificato, gli occhi fissi sui lunghi, scuri capelli dell’uomo che, sollevati dal turbinio scatenatosi, si erano sollevati attorno alla sua testa, a raggiera, come spire di mille serpenti. Non aveva mai visto una cosa simile. Come tutti, aveva sentito parlare di una leggenda, ma quello... quello non poteva essere vero.

    Il ragazzo indietreggiò, e il vento scomparve all’improvviso, com’era arrivato. «Tu sai usare la magia, ma io so che tutte le streghe e gli stregoni sono stati uccisi da Tresob e dal suo esercito! A meno che tu non sia... ma non è possibile! È solo una storia che si racconta ai bambini...»

    «Dillo, cavaliere!»

    «Sto davvero diventando pazzo. Vedo un unicorno e un maestro elementale...» bisbigliò Anid.

    «Come hai detto?»

    «Forse è giunta la mia ora e la mia mente mi fa vedere cose che non esistono...»

    «No, no! Dimmi che cosa hai visto prima di arrivare alla grotta! Devo saperlo!» lo interruppe l’uomo, visibilmente scosso dalle parole del ragazzo.

    Anid si sentì spiazzato da tanta veemenza. Non sapeva se dire la verità o inventarsi qualcosa. «Ho visto un unicorno bianco e alato nella foresta Stefora. Mi ha condotto lui sin qui.»

    L’uomo rimase in silenzio. Anid ne approfittò per chiedergli, un po’ titubante, se fosse davvero un maestro elementale. Ma quello non rispose e alzò la mano, come se stesse accadendo qualcosa, poi divenne pensieroso e chinò il capo verso terra. Rimase così a lungo, fin quando, sollevando finalmente la testa, guardò Anid dritto negli occhi.

    «Sì, mi chiamo Balmo e sono il maestro elementale dell’aria. Se davvero l’unicorno bianco è venuto da te, allora tu sei la speranza di Iliata!» Anid si guardò attorno incredulo, più confuso di prima. Quello riprese: «Dobbiamo cominciare subito il tuo addestramento, perché Iliata è in grave pericolo.»

    «Ma io non sono nessuno, te lo ripeto. Sono solo un cacciatore e ho una famiglia che dipende da me, e che forse mi sta già cercando perché non sono più rientrato a casa. E, poi, che cosa ti fa credere che mi possa fidare di te?»

    «Ti devi fidare di me, perché non hai altra scelta.».

    Detto ciò il maestro prese una pietra, grossa quanto una mano, la poggiò su una roccia e incominciò a sussurrare qualcosa di incomprensibile alle orecchie di Anid. Tra le sue mani si formò presto una sfera di luce bianca, che, con un gesto rapido, gettò contro la pietra che si frantumò.

    «Questa è solo una piccola dimostrazione di quello che posso fare. Se avessi voluto ucciderti, lo avrei già fatto da un pezzo. I maestri elementali non si sbagliano mai sui propri cavalieri, perché altrimenti non saresti mai arrivato fino a qui, guidato dall’unicorno. Ora la cosa migliore da fare è andare dalla tua famiglia. Mi presenterai loro come il capo delle guardie di un re dei territori a Est, che avendo visto le tue abilità nella foresta vorrebbe averti nella sua compagnia di caccia. Così non sospetteranno del fatto che dovrai sparire per un po’ di tempo. Nel frattempo – continuò Balmo – io sarò il tuo maestro e tu il nuovo cavaliere elementale dell’aria.»

    Anid considerò che, se avesse fatto finta di credergli, sarebbe riuscito a uscire dalla grotta e a fuggire alla prima occasione.

    «Se stai pensando di scappare non appena saremo fuori di qui, ti posso assicurare che farai poca strada!»

    «Mi leggi nel pensiero?»

    «Posso entrare come voglio nella mente di un uomo!»

    Balmo gli fece segno di seguirlo e riattraversò tutta la grotta, fino alla fenditura iniziale. Poi si inoltrò nella foresta, senza guardarsi alle spalle, e Anid gli tenne dietro. Il cavaliere camminava avvolto da una luce bianca, che al ragazzo trasmetteva una sensazione di sicurezza, di serenità. Però, da quando erano usciti dalla grotta, Balmo aveva detto poche parole ed era piuttosto guardingo. Anid cercava di memorizzare il percorso. Sebbene fosse la strada che aveva fatto seguendo l’unicorno, il suo pensiero era stato catturato dallo strepitoso animale che lo accompagnava, dunque non si era soffermato a osservare con attenzione l’intrico di alberi, rami e radici che lo circondava, in cui la luce filtrava a malapena. Camminavano da tempo l’uno dietro l’altro, quasi in silenzio, quando d’un tratto Balmo si fermò di scatto.

    «Stammi vicino, qualunque cosa succeda!» gli bisbigliò, mentre nella sua mano compariva un bastone che racchiudeva all’estremità una lucentissima sfera bianca.

    «Qualunque cosa succeda? Ma...»

    Anid non riuscì a finire la frase. Un forte rumore proveniente dalla sua destra lo costrinse a voltarsi. Qualcosa o qualcuno si stava dirigendo verso di loro. Balmo si spostò lentamente davanti ad Anid e il ragazzo udì la sua voce mormorare parole indistinte. Li avvolse subito un vento impetuoso, come un muro d’aria, che impediva loro anche solo di muovere un passo. Anid spostò di poco la testa e capì che ciò che si muoveva nel buio della foresta era di certo un animale, un grosso animale a quattro zampe, anche se ancora non riusciva a capire di quale tipo. All’improvviso la bestia si divise in due, e il ragazzo distinse due enormi lupi neri dagli occhi rosso fuoco. Venivano verso di loro a una velocità sorprendente, l’impatto gli sembrò imminente e chiuse gli occhi per un istante. Anid afferrò la sua daga e la strinse talmente forte che le nocche divennero bianche. Il suo cuore iniziò a battere all’impazzata. Fino ad allora aveva solo sentito parlare di quelle strane creature, ma non le aveva mai viste. Guardò di sfuggita Balmo, che continuava a sussurrare qualcosa, concentrato, e si preparò allo scontro. Quando furono a pochi passi da loro, i lupi spiccarono un salto per raggiungerli, ma rimbalzarono contro il muro d’aria che circondava i due uomini e furono scaraventati a una decina di metri di distanza.

    Balmo si voltò a metà verso il ragazzo. «Stai vicino a me, non è finita! Sono creature stregate, e hanno spezzato la barriera magica che avevo eretto. Torneranno alla carica, e non sarò in grado di proteggere tutti e due se si dividono...»

    Quasi come se lo avessero sentito, le due belve attaccarono contemporaneamente da due punti diversi. Si sollevarono sulle zampe posteriori e digrignando i denti sfoderarono i lunghi artigli, prima di assalirli nuovamente. Il primo lupo in un solo balzo si scaraventò su Anid, che riuscì a fatica a evitarlo, e provò inutilmente a sferrare un fendente con la daga; il lupo era già lontano e si stava preparando a un altro attacco.

    Devo essere più veloce se voglio sopravvivere... pensò Anid, serrando le mascelle e preparandosi ancora allo scontro. Ma il lupo gli si gettò addosso in modo talmente rapido che questa volta non riuscì a schivarlo e la bestia gli rovinò addosso con tutto il suo peso e la sua ferocia. In quello stesso momento Balmo sollevò il bastone, fece roteare l’altro lupo alto nell’aria e lo scagliò contro un grosso tronco lontano. Balmo ne udì il lamento levarsi nella foresta mentre già si voltava per aiutare Anid. La belva ne copriva interamente il corpo e attorno a loro il terreno si scuriva sotto un fiotto di sangue.

    Il maestro notò allora la daga, conficcata nel petto immobile della bestia. Dalla ferita sgorgava un sangue nero come la pece. Anid si mosse al di sotto dell’animale, si liberò dal peso e con un ultimo sforzo si rimise in piedi. Era coperto di sangue e fango, dal viso alle gambe, e restò attonito a fissare Balmo.

    Anid sbottò sconsolato: «Ho avuto solo fortuna! Avevo la spada dritta davanti al corpo e il lupo le si è gettato addosso. La sua stupidità è stata la mia fortuna e la mia salvezza! Non posso essere un cavaliere elementale!»

    «Non è questo il momento di abbattersi, cavaliere! Altri al tuo posto sarebbero morti.».

    «Sì, forse, ma altri non avrebbero mai nemmeno avuto la mia paura...»

    «A volte avere paura serve a salvarsi la vita. Rimettiamoci in cammino. La tua famiglia comincerà a essere preoccupata del tuo ritardo!»

    Non avendo trovato alcuna risposta da dargli, Anid chiamò a raccolta tutte le forze che ancora aveva e iniziò a seguire il maestro. Ma più passava il tempo e più il suo stato d’animo peggiorava. Si era reso conto che avrebbe dovuto mentire alle persone che gli volevano bene e che amava, senza neppure sapere quando le avrebbe riviste. La sua testa lo riportava continuamente a tutti i momenti più belli che aveva vissuto con loro. Balmo se ne accorse subito.

    «Non essere così triste, cavaliere. Non sarai mai solo, gli altri allievi saranno sempre con te insieme ai loro maestri.».

    Giunsero in vista del villaggio e poi della casa. Anid desiderava godersi quel momento perché sapeva che non avrebbe a lungo assaporato i profumi, i sapori e soprattutto l’affetto che rendevano unica la sua casa. L’aria era fresca, rade chiazze di erba si affacciavano qui e là nel terreno coperto di neve. Senza accorgersene, Anid aveva rallentato il passo, mentre Balmo aveva già raggiunto la soglia della casa. La sua vita sarebbe cambiata di lì a poco, forse in meglio, forse in peggio... E ora doveva affrontare i suoi cari.

    «Anid, cosa fai? Non posso entrare in casa prima di te!» lo richiamò Balmo, dopo averlo atteso un po’.

    Il ragazzo non fece in tempo ad aprire la porta, che Obiaf la spalancò. Intravide all’interno i suoi genitori, Tira e Oneleora, rispettivamente moglie e figlia di Obiaf. I volti tirati, lo fissavano ammutoliti. Doveva averli davvero spaventati restando fuori così a lungo. «Ma dove sei stato? È passato un giorno e mezzo da quando sei partito. Pensavamo che ti fosse successo qualcosa!» esclamò Obiaf.

    «Un giorno e me...»

    Balmo non gli lasciò finire la frase: gli diede un colpo con il gomito e il ragazzo capì subito.

    «Ora vi spiego... Ho incontrato Balmo. Lui è, lui è...»

    «Sono il capo delle guardie del re di Tes dell’estremo Est. Ero alla ricerca di persone da reclutare per la compagnia di caccia del mio signore, e nella foresta ho visto questo ragazzo cacciare. Sono rimasto colpito dalle sue abilità, a tal punto da chiedergli di unirsi alla brigata di Sua Maestà. Gli verrà insegnato a combattere e a proteggere il re.»

    Silenzio e stupore durarono qualche istante.

    «Tornerà?» domandò Gei, quando si fu ripresa. La sua voce tremò appena.

    «Purtroppo non so dirvi quando.»

    «Parlate come se mio fratello avesse già deciso, ma non ha ancora aperto bocca e non mi sembra molto convinto» lo interruppe Obiaf.

    Anid si riscosse. «No – intervenne –, sono convinto di questa scelta! Non mi va di fare il cacciatore tutta la vita, quando posso imparare a combattere. E voi avrete una bocca in meno da sfamare, il che non è poco vista la miseria cui ci ha ridotti Tresob. Certo... non è stata una scelta facile, ma mi sono preso un giorno per decidere. Se non mi piacerà o non mi troverò bene tornerò subito da voi.»

    Balmo annuì, e cercò di tranquillizzare la famiglia. «Non vi dovete preoccupare. Anid sarà sotto la mia completa protezione e non gli succederà niente di male. Ve lo garantisco.»

    «Se questa è la tua scelta, non sarò certo io a mettermi contro di te» disse Juanc.

    «Molto bene. Dunque partiremo domattina presto» disse Balmo. «Raccogli le tue cose.»

    Gei mostrò all’ospite dove poteva riposare per quella notte. Anid, invece, infilò le scale per andare in camera sua. Aveva in testa una confusione di pensieri. Prese a preparare una sacca ficcandovi dentro alla rinfusa le poche cose che possedeva: qualche vestito, una borraccia, la sua daga, un coltello che gli aveva regalato Obiaf e l’arco con le frecce, dono di Juanc di qualche mese prima. Si mise al polso il braccialetto realizzato per lui da sua madre e la collana di Tira che gli aveva dato per il suo ultimo compleanno. Tutti questi oggetti risvegliavano ricordi bellissimi e dolorosi, ancora più in quel momento difficile. Cercò di non pensare al fatto che avrebbe dovuto separarsi da tutti loro dopo poche ore, non voleva commuoversi, non voleva soffrire.

    Soppesò nella mano il coltello: il fratello glielo aveva regalato quando aveva solo quattordici anni. Ed era stato lo stesso Obiaf a insegnargli a usarlo.

    «Anzitutto devi girare il coltello e devi prenderlo dalla parte della lama, in questo modo. Poi devi mettere la gamba sinistra in avanti e, piegando il braccio, devi prendere la mira. Poi ruota leggermente il corpo verso destra e carica il colpo. A questo punto, cercando di mantenere sempre l’equilibrio, lasci andare il braccio dandogli forza e fai partire il coltello, così!»

    Il colpo di Obiaf era stato talmente preciso che il coltello si era conficcato esattamente al centro del tronco.

    «Ora prova tu!» gli aveva detto il fratello, e Anid era corso a prenderlo, togliendolo a fatica dal legno e tuttavia cercando di non far notare il proprio sforzo. Ora era diventato grande e non poteva mostrarsi debole davanti a Obiaf. Anid aveva iniziato così la sua lunga preparazione. Aveva impiegato qualche minuto prima di essere pronto a lanciare il coltello. Doveva fare centro, doveva dimostrarsi degno di quel regalo. Ma il coltello aveva solo sfiorato il legno.

    «Con un po’ di pratica» gli aveva detto il fratello «tutto sarà più facile.» E aveva avuto ragione.

    L’arco e le frecce, invece, erano arrivati molto dopo.

    «È arrivato il momento di passare a qualcosa di più impegnativo. Visto che ormai conosci tutti i sentieri di caccia, ho pensato a questo!» Con un gran sorriso Juanc aveva tirato fuori l’arco dalla cassapanca dove l’aveva nascosto.

    Anid aveva fatto un balzo di gioia. «Un arco! Non vedo l’ora di provarlo. Diventerò un grande cacciatore!»

    «Ricordati: è un’arma e dovrai usare sempre la massima attenzione!»

    Anid sorrise, ricordandosi in quel momento le precauzioni del padre.

    Solo qualche giorno più tardi aveva tradito quella promessa perché, mentre si stava allenando con l’arco, una freccia era partita involontariamente e aveva centrato un secchio pieno d’acqua che Gei aveva appena appoggiato accanto al cavallo. L’animale si era imbizzarrito a tal punto da partire al galoppo nell’aia, con Gei che lo rincorreva urlando. All’inizio la scena lo aveva fatto ridere, ma quando la madre era rientrata sudata e con il fiatone e Juanc aveva saputo l’accaduto, Anid era finito a ripulire la stalla per una settimana.

    Ricordi che pesavano come macigni sul suo cuore, in quella ultima notte a casa. Dormì poco, rigirandosi spesso nel letto.

    Alle prime luci del giorno, Anid si alzò rapido, si vestì e scese le scale. Balmo lo stava aspettando e con lui la famiglia tutta, compresa la piccola Oneleora, che sbadigliando si strofinava gli occhi per il sonno.

    Anid li guardò uno per uno, poi abbassò lo sguardo. «Tornerò presto» disse mestamente. Non voleva piangere, non doveva. Lo abbracciarono a lungo, poi lo accompagnarono alla porta.

    Anid riuscì a trovare la forza di sorridere, prima di allontanarsi. Il sole si stava alzando. Balmo si avviò deciso verso la foresta, e Anid lo seguì.

    Fatti pochi passi, Anid si fermò e sollevò la testa.

    Balmo gli lesse nel pensiero, come era solito fare. «Vai pure a salutare la tua amica Ghimeg nel bosco. E raccontale esattamente ciò che hai detto alla tua famiglia, niente di più» si raccomandò.

    Ma giunti nel luogo dove di solito Anid incontrava la ragazza, non ve la trovarono. Aspettarono per diverso tempo, ma poi dovettero rimettersi in cammino. Si inoltrarono nel bosco in silenzio.

    «Non è facile abbandonare tutte le certezze che hai per partire all’improvviso con una persona che non conosci, e solo per una sensazione che forse senti dentro, lo capisco...» disse Balmo, che decise di cominciare così il suo insegnamento.

    «Parli come se avessi vissuto questa esperienza anche tu.»

    «I maestri elementali non nascono già formati. Una volta eravamo uomini normali, proprio come te. Poi, col passare del tempo, abbiamo imparato a dominare e a coltivare poteri che non sapevamo di avere, e il nostro corpo ha smesso di invecchiare. Un giorno però, quando si sarà avverata la profezia, la magia lascerà il mio corpo, e io ricomincerò a invecchiare.»

    «Voi maestri non conoscete la durata della vostra missione? Potreste insegnare a combattere a più cavalieri?» domandò Anid.

    «Dipende dalla profezia! Io ho addestrato già altri cavalieri»

    «Li hai visti morire?»

    «Sì.»

    «E se uno di voi maestri muore prima di riuscire ad addestrare un altro cavaliere?»

    «Ci riesce la nostra anima.»

    «Posso sentirti la mano, per favore?»

    «E perché?» chiese ridendo Balmo.

    «Perché mi sentirei più a mio agio» rispose imbarazzato il ragazzo.

    A Balmo scappò un sorriso. «Dovresti essere già sicuro di tutto questo, Anid. È da poco che ci conosciamo, ma dovresti avere già capito certe cose.»

    Balmo allungò comunque la mano così che Anid potesse toccarla. Lui la guardò, ne sentì il calore e si rallegrò.

    «Dove siamo diretti?»

    «Al tempio.»

    «E dove si trova?» chiese impaziente Anid.

    «È più vicino di quanto pensi, ma la strada per arrivarci è lunga. Si trova sotto il lago Galo. Dobbiamo prima tornare al monte Tenom e da lì prendere il passaggio segreto» spiegò Balmo.

    «Questo significa che dobbiamo riattraversare la foresta.»

    «Sì, e dobbiamo stare molto attenti. Visto che i lupi non sono rientrati nel luogo da cui sono partiti, avranno di certo mandato altre creature a sorvegliare la zona.»

    Anid pose a Balmo innumerevoli domande e il maestro gli rispose sempre. Così occupati, il tempo passò velocemente. Si muovevano rapidi, ma attenti, senza mai perdere di vista l’ambiente che stavano attraversando. Entrambi sapevano che la foresta poteva essere molto insidiosa.

    Dopo qualche ora, consumarono della carne secca, seduti su un grosso tronco, e bevvero da un ruscello poco distante. La sosta fu molto breve. Ripresero quasi immediatamente il cammino verso il monte. L’umidità iniziava intanto a trasformarsi in nebbia.

    «Siamo circa a metà strada. Se acceleriamo, potremmo arrivare al passaggio segreto prima che la foschia si infittisca. Meglio giungere al più presto al riparo» disse Balmo.

    Così aumentarono il passo e arrivarono ai piedi del monte Tenom. Il maestro si avvicinò alla montagna, toccò la roccia in un punto preciso dall’alto al basso e disegnando un semicerchio verso sinistra. La roccia cambiò colore e in quel punto comparve una porta. Balmo si avvicinò e sussurrò parole magiche, al cui suono la porta si aprì, lasciando intravedere un sentiero oltre la soglia. Il maestro si girò verso Anid che, ancora a bocca aperta per lo stupore, era rimasto immobile a guardare.

    «Entriamo, svelto!» lo incalzò.

    Senza fare domande, Anid eseguì l’ordine. Prima di richiudere magicamente la porta, Balmo scrutò con grande attenzione l’esterno, ma la nebbia era fitta e non permetteva di vedere lontano.

    «Che cosa...?»

    Prima che Anid potesse finire la frase, Balmo gli fece cenno di stare zitto. Nel silenzio più totale, rimasero a lungo con le orecchie tese, in cerca di un rumore che non sentirono mai.

    Poi Balmo si mosse. «Ora sono più tranquillo. Se anche fuori ci fosse stato qualcuno, non si sarà sicuramente accorto di questo passaggio.»

    Il maestro passò davanti ad Anid per fargli strada. Camminarono per un po’ e, poi, quando il sentiero divenne più largo, decisero di accendere un fuoco e di riposare.

    «Nel frattempo devo raccontarti qualcosa» disse Balmo pensieroso, guardando negli occhi il futuro cavaliere.

    CAPITOLO 2

    Le forze oscure

    La nebbia saliva fitta dalla Palude Morta e si spostava pigramente su tutto l’abbandonato territorio delle Terre Nere, dove abitavano solo creature abituate a vivere nell’oscurità, perché la luce del sole non riusciva a penetrare la bruma perenne. Si diceva che Tresob, il signore incontrastato di quelle terre, con la magia avesse avvolto il suo regno in quella foschia tetra. Alberi secchi in ogni dove, fango, rocce e terra nera, come se si fosse incenerita. L’aria era irrespirabile, e l’odore putrido che saliva dalla Palude si poteva sentire ovunque, fino alla Catena Cupa che accerchiava questo regno oscuro. Al centro delle Terre Nere si trovava il Castello Tetro. Un edificio mastodontico in cui vivevano molteplici creature malvagie, agli ordini di Tresob. La legge era solo una: la sua. Tutto ciò che decideva il tiranno era un ordine indiscutibile, e la disobbedienza veniva punita con la morte. Se Tresob non era presente, all’interno delle mura si scatenava il caos e a farla da padrone era la legge del più forte. All’interno del Castello Tetro si assisteva a un’eterna lotta tra quattro razze: i troll, gli orchi, gli spettri e le creature, e ciascuna controllava una delle quattro ali del maniero. Quattro potentissimi stregoni, signori della magia nera, Ara, Aca, Ret e Fuc, tenevano prigioniere le creature.

    In attesa di rimettersi in cammino, Balmo cominciò a illustrare ad Anid la strana popolazione che vive nel castello. Quando Tresob si era impadronito con la violenza delle terre di Iliata, Anid non era ancora nato. Per lui, vivere sotto il dominio dispotico di quell’essere malvagio, costituiva la normalità: era cresciuto, come tutti, nel terrore, e non sapeva che fosse possibile vivere in un mondo differente. Forse anche per questo era rimasto sorpreso quando si era accorto che, dopo tutto, quella dei cavalieri elementali non era semplicemente una favola, un racconto fantastico che si tramandava di famiglia in famiglia, seppure sempre sottovoce. Era la realtà, e ora si trovava coinvolto, suo malgrado, in qualcosa che ancora gli sembrava più grande di lui, al punto che non poteva credere a quanto Balmo gli stava raccontando del castello del tanto temuto signore di quelle terre.

    «I troll sono esseri enormi, dalla forza devastante, ma non molto intelligenti» gli spiegava Balmo con grande pazienza, perché il suo nuovo allievo cominciasse a conoscere il mondo che avrebbe dovuto un giorno estirpare dalla faccia della terra.

    «Dentro il castello li usano per i lavori più pesanti. Sono nati forse da una magia o da qualche incrocio tra orchi e creature: sono alti cinque o sei metri, ma il loro capo lo riconosci subito, perché è alto ben dieci metri. Sono incatenati nelle miniere, dove per tutto il giorno estraggono i metalli che servono a fabbricare le armi, o vivono nelle fucine. Sono di un colore strano, tra il verde scuro e il grigio, e girano coperti di stracci. Hanno teste parecchio grandi, orecchie a punta molto pronunciate, occhi simili ai nostri e una pelle durissima. In battaglia non li vedrai mai con una corazza. Di solito brandiscono una mazza enorme o una lunga lancia, e si muovono lentamente, fracassando qualunque cosa capiti loro a tiro.»

    «Parlami degli orchi» disse Anid, incuriosito: erano creature di cui aveva sentito parlare, ma che ora gli venivano descritte nel dettaglio dal maestro, e finalmente gli sembravano tanto orride quanto vere.

    «Gli orchi – riprese Balmo – sono creature perfide, egoiste e maleodoranti. Sono deformi, quasi come fossero solo macchie di colore verde scuro; la prima cosa che noti quando li incroci sono i loro occhi, rossi come il fuoco. Anche in questo caso puoi riconoscere subito il loro capo, perché è albino. Gli orchi sono guerrieri in battaglia e servi in pace. Indossano sempre armature, perché la loro pelle è fragile come quella umana. Spesso, quando non muoiono in uno scontro ma sono comunque divenuti inutilizzabili, vengono dati in pasto, ancora vivi, alle creature. In guerra sono in prima linea o sul fianco delle armate, così da proteggere il centro dello schieramento: la morte di un orco non è importante per Tresob. E così pure gli spettri, scheletri armati, ovviamente non indossano alcuna corazza. Sono un’arma formidabile per i potentissimi stregoni dei quali si circonda il tiranno. Difatti, poiché esistono solo per effetto della magia nera, possono essere sconfitti unicamente con le arti magiche. La loro resistenza contro cavalieri e maestri elementali è irrisoria, ma spesso sono schierati contro gli esseri umani, che non hanno poteri magici.»

    A quel punto, rabbrividendo, Anid ripensò a tutte le persone di Riaa e dei villaggi vicini che, nel corso degli anni, erano scomparse nella foresta. Si diceva che molti fossero stati attaccati dai lupi; ma alcuni viaggiatori capitati nel villaggio avevano raccontato di essere riusciti a sfuggire, per caso più che per astuzia, ad animali o a creature che non riuscivano però a descrivere. Nei villaggi si spiegava questa loro incapacità come l’effetto della paura, che aveva fatto loro dimenticare la natura del pericolo. Secondo i più anziani, essi ricordavano solo il terrore provato e il sollievo seguito alla fuga.

    Anid capì in quel momento, mentre Balmo era passato a parlargli delle creature, che questi lacunosi racconti erano ciò che rimaneva degli incontri avvenuti tra i viaggiatori e questi esseri. «Di solito sono libere, e percorrono tutte le terre di Iliata. Sono creature magiche, mitologiche o ibridi di diversi animali, spesso tra i più pericolosi. Esse sono così imprevedibili che nessuno riesce a controllarle, a parte i potenti stregoni e i grandi maghi, ma solamente se si trovano in loro presenza.»

    Le quattro creature più micidiali erano tenute prigioniere all’interno del castello, raccontava Balmo, in celle costruite apposta per loro e, quando venivano portate all’esterno, erano legate con delle grosse catene magiche controllate dagli stregoni. Ogni volta che questi ultimi, o Tresob stesso, lo desideravano, esse venivano liberate vicino ai villaggi per portare panico, paura, scompiglio e morte, e fare in modo che il dominio del tiranno rimanesse incontrastato.

    «La prima di queste è Aia, creatura di Ara: la si può riconoscere subito perché ha la testa di un ariete, con un piccolo corno sulla fronte e due lunghe corna ai lati. La sua coda maculata, di colore verde e nero, altro non è che un serpente alla cui estremità si trova la testa. Al posto delle dita ha artigli affilatissimi. La trovarono alcuni orchi mentre si aggirava nel bosco delle Terre Nere, e solo con fatica lo stregone Ara riuscì a catturarla. È una delle creature più pericolose di Iliata: potentissima e spietata, semina morte ovunque vada. È in grado di uccidere anche più di un avversario contemporaneamente» spiegò Balmo.

    «Qa, creatura di Aca, fu trovata dallo stregone nella Palude Morta, mentre trascinava i corpi di tre orchi che aveva appena ucciso. Aca, colpito dalla scena, sfruttò il momento in cui la creatura era intenta nel consumare il suo pasto, e riuscì a intrappolarla mentalmente e a sottometterla al proprio volere per qualche minuto. Incantato dalla ferocia di questa creatura, e desideroso di possederla, per diverso tempo le portò ogni giorno qualche orco, come preda, per godersi lo spettacolo di quel macabro circo, facendole così associare la propria presenza al cibo. Gli piaceva l’idea di lasciar credere alla creatura di guadagnarsi le sue attenzioni senza dover imprigionarla magicamente tutte le volte.»

    «Qa – continuò il maestro – ha una testa simile a quella di un essere umano, ma labbra e mandibola assomigliano a quelle di un pesce. Al posto delle orecchie ha due grosse pinne. Il busto è umano, ma ha una enorme coda tutta coperta da squame. Le sue mani sono palmate. Riesce a sopravvivere fuori dall’acqua anche per un’ora, ma è davvero letale quando è dentro il suo elemento. È un predatore temibilissimo. I suoi denti aguzzi sono capaci di strappare a brandelli grossi pezzi di carne. La sua coda muscolosa è in grado di stordire un uomo con un solo colpo e la sua pinna dorsale è tagliente come un coltello.»

    Anid annuì. «Alcuni che sono usciti vivi dalla Palude hanno raccontato di creature mostruose che vengono fuori dalle acque.»

    «È sempre Qa» rispose Balmo. «Ogni tanto Aca la lascia libera di compiere le sue stragi nelle acque stagnanti della Palude o la incatena magicamente e la libera nei fiumi presso i villaggi di Iliata per seminare morte.»

    «Poi c’è Arr: Ret l’ha trovata ai piedi dei Monti Falsi. Arr striscia, perché ha le sembianze di un serpente, lungo quasi due metri, ma in più ha due temibili braccia. I suoi occhi sono gialli con le pupille larghe e dilatate. La sua coda è gialla altrettanto e striata, proprio come quella di un serpente terrestre. Ha una lingua rosa e biforcuta, e i suoi denti iniettano ai malcapitati un veleno mortale. Abilissima nel combattimento, riesce a sfruttare al meglio la sua coda, come fanno i grossi serpenti stritolatori: con quella avvinghia la preda e la stritola. A volte, invece, preferisce prendere a pugni il suo avversario e gli dà il colpo di grazia con un morso letale. Brandisce anche una scimitarra, dalla lama larga, probabilmente rubata a una delle sue vittime. È carnivora e non disdegna la carne umana. Le creature sono molto forti, ma gli stregoni lo sono di più. Arr l’ha scoperto troppo tardi, a proprie spese, e ha perso la propria libertà quando ha sfidato Ret pensando di batterlo. Sconfitta, è rimasta alle sue dipendenze in cambio della sua stessa vita.»

    «Ocu è la creatura di Fuc, e fu trovata dai troll nei pressi del vulcano Ocnaluv. È un’idra a quattro teste con lingue biforcute, alta circa otto metri, cammina a quattro zampe e anch’essa ha una lunga coda che usa come arma. La sua pelle è dura e squamosa, il suo corpo possente è cosparso di speroni duri e taglienti come la roccia, persino sulle quattro teste. Le grosse zampe terminano con artigli a tre dita, e per questo ha tutte le sembianze e le movenze di un drago senza le ali. I suoi movimenti sono molto lenti e impacciati, perché deve spostare un’enorme massa muscolare. Le teste sputano fuoco e si possono muovere simultaneamente, sono provviste di denti aguzzi e mascelle potenti. È una creatura carnivora, con una forza devastante. Fuc deve sempre mantenere un alto controllo della sua mente, perché alla minima distrazione Ocu potrebbe cercare di riottenere la propria libertà. Punita violentemente più e più volte per queste ribellioni, Ocu è rinchiusa in una segreta del castello e viene liberata raramente, solo quando Tresob ha bisogno della sua forza devastante. Viste le dimensioni, viene nutrita con orchi e troll dallo stesso Fuc. Come ogni stregone, anche costui trae piacere nel veder mangiare una delle proprie creature.»

    «Ma chi comanda tutta questa corte mostruosa?» chiese Anid.

    «Troll e orchi hanno il proprio spietato comandante, e ciascuno di loro prende ordini solamente da Tresob e dagli stregoni. Per il resto sono liberi di esercitare il proprio volere all’interno delle loro armate. Visto che vige la legge del più forte, si sono guadagnati questo ruolo a furia di combattere e uccidere i propri avversari. I comandanti possono essere sfidati a duello ogni giorno e in qualsiasi momento, e per mantenere il loro ruolo devono dimostrare di essere i migliori della loro specie nel combattimento corpo a corpo. Coro, che è il comandante degli orchi e ha occhi rosso fuoco, è l’unico di colore bianco, come ti ho spiegato. È alto due metri e ha una corporatura possente. È di gran lunga l’orco più potente di tutti. Detiene il comando da una ventina d’anni, ed è famoso per la sua crudeltà. In battaglia cavalca sempre Opul, un enorme lupo, anch’esso albino, con la stazza di un orso ma agile come un animale della sua razza. Coro è famoso in tutto l’esercito oscuro per essere giunto al potere dopo aver sfidato Korul, l’ex comandante degli orchi. I due si affrontarono a viso aperto dopo un’estenuante battaglia vinta contro gli uomini ai confini delle Terre Nere, a nord del lago Galo. Coro è riuscito ad avere la meglio solo perché Korul, dopo aver chiesto una pausa, gli ha voltato le spalle e l’altro l’ha colpito senza alcuna pietà, dicendo: Questo è ciò che accade a chi volta le spalle al nemico!. Questa frase è rimasta scolpita nelle menti di tutti gli orchi per vent’anni e chiunque da quel giorno ha voluto sfidare Coro ha pagato con la vita. La sua armatura è di pelle nera e metallo. La sua arma è una pesantissima palla ferrata, legata con una grossa catena a un bastone cordato. Quando non cavalca Opul regge con la mano sinistra un piccolo scudo a forma di luna, decorato con un lupo ululante, simbolo di tutti gli orchi, che altrimenti tiene legato dietro alla schiena.»

    «Oll, il comandante dei troll che, come ti ho detto, è alto dieci metri, dirige la fucina di Tresob dove si realizzano le armi di tutto l’esercito. La sua pelle è di un grigio molto scuro, quasi nero. Oll impugna sempre una clava (simbolo del potere della sua razza) e ha una forza spaventosa: da quando comanda è stato sfidato solo una volta da Troc, un troll alto ben sette metri, ma lo scontro non ha essenzialmente avuto storia. Dopo un primo colpo di lancia andato a segno,

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