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Mie per sempre
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E-book405 pagine6 ore

Mie per sempre

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Info su questo ebook

Alessio Fanfani è un uomo di trentaquattro anni, piacente, benestante, vive a Milano, da solo, in un appartamento nel quale regna un ordine maniacale, contraddistinto da una ferrea routine. Nascosto sotto le apparenze dell’impiegato di banca brillante e cortese, si nasconde la vera natura di Alessio: incapace di socializzare, attratto dal bello e dalle donne, che riesce a conquistare con estrema facilità e che manipola fino a renderle dipendenti da lui.

Gianluca Zanoni nasce a Magenta il 23 luglio 1972 e cresce a Robecco sul Naviglio (MI), alternando lunghe partite a pallone con gli amici all’appagamento della propria innata curiosità, divenendo un vero e proprio piccolo esploratore della natura circostante. Laureato in Economia con indirizzo in Storia Economica, nel 2007 ha pubblicato il romanzo Rage, che ha ottenuto il secondo premio al Concorso Letterario Internazionale Città di Moncalieri (2007) e la segnalazione della Giuria al Premio Letterario Nazionale Arte Città Amica (2007). Romanzo dalle tinte cupe, in forma di diari incrociati, esplora l'abisso dell'esistenza di chi, avendo troppo amato, volge all'odio il proprio motivo d'essere. Attualmente vive tra Como e Zagabria e si occupa di consulenze assicurative e di docenze sempre nello stesso ambito. Ex musicista dilettante e appassionato di letteratura, continua a dedicarsi alla vita, traendo piacere dalla storia, dalla musica, dallo sport e dall’arte, sempre incuriosito dalla natura umana e dalle persone che incontra. 
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita28 mar 2022
ISBN9791221316018
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    Anteprima del libro

    Mie per sempre - Gianluca Zanoni

    Trieste, ottobre 2019.

    È buio e fa freddo in questo sotterraneo. Mi stringo nel giubbotto di pelle. Nero. Come la notte, come la mia anima. Mi guardo intorno, c’è gente. Ma io sono solo, attento. Scruto i volti, passo in rassegna gli sguardi, ma non mi soffermo su nessuno di loro.

    Non è questo che sto cercando. Non sono loro le persone che possono placare la mia sete di vita.

    Accendo il cellulare, aspetto il segnale, voglio una conferma, ma non c’è campo. Solo anche nel web. Ma so che lei è lì, da qualche parte, distante solo nel tempo, in quegli istanti che la stanno portando da me.

    Torno a guardare i volti di chi mi sta attorno, mi soffermo sui particolari: il disegno sulla borsa della ragazza bionda, i pantaloni troppo larghi e le scarpe consumate dell’anziano che legge il giornale, il brick del succo di frutta nel cestino, che stilla gocce che attirano una vespa. Io amo i particolari, me ne nutro nei momenti in cui aggrapparmi a qualcosa significa vivere. Seguo il volo di quella vespa, vedo confondersi il giallo e il nero mentre si allontana e il soffio che sento non è prodotto dal frullio delle ali dell’insetto che se ne va: è un profumo, il sentore della sua pelle, quella fragranza che per me dovrebbe essere nuova, ma che riconosco subito.

    Lei mi chiama… e la sua voce è nella mia testa, nel mio cuore. Mi volto e resto fermo, la guardo, voglio fissare quell’istante per sempre nella mia vita… già la sto baciando, già il freddo e il buio sono solo un ricordo, eppure io sono ancora fermo a quella voce, a quello sguardo, alla mia vita che ora può cominciare davvero.

    So che non la lascerò mai più, so che non dimenticherò più quell’istante, so che ora lei è con me e il tempo e le distanze non hanno più regole fisse.

    Gli altri se ne sono andati, rimaniamo solo noi. In piedi, abbracciati.

    Finalmente sorrido: non sarò mai più solo.

    Milano, febbraio 2019.

    Ripiego le magliette, tutte bianche, la metà esatta girocollo, l’altra metà col collo a V. Passo alle mutande, tutte uguali, boxer neri e blu in egual numero. Le calze, grigie, blu e nere. Sette paia per ciascun colore. Le camicie, bianche e azzurre.

    Ripongo tutto con cura nei cassetti del capiente armadio, tranne le camicie che appendo alle grucce metalliche, quelle azzurre ordinate per tonalità crescente.

    Chiudo i cassetti. Controllo che siano perfettamente allineati. Chiudo le ante scorrevoli dell’armadio. Le riapro, controllo ancora una volta i cassetti, richiudo le ante, verifico con attenzione che siano esattamente a filo, spengo la luce ed esco dalla camera da letto.

    Non potrei sopportare il pensiero di un indumento fuori posto, non nella collocazione che gli ho assegnato. Non potrei essere tranquillo sapendo che i cassetti non siano allineati perfettamente, che uno sporga più degli altri.

    Prendo una bottiglia di birra dal frigorifero, la apro, butto la corona nel cestino, ripongo l’apribottiglie nel cassetto dove lo avevo preso, richiudo il cassetto lentamente e con cura, poi prendo un bicchiere, dei sei che sono adatti alla birra, e verso la metà esatta del contenuto della bottiglia. Riposiziono tutti i bicchieri dal più piccolo al più grande in gruppi ordinati – grappa, vino, acqua, bibita, birra – e chiudo l’anta di vetro satinato, stando attendo a non lasciare impronte sulla superficie. Prendo un vassoio, ci appoggio il bicchiere e la bottiglia di birra, soddisfatto per come sia riuscito a versarne la metà precisa, e mi avvio alla poltrona – sempre la stessa – su cui mi siedo per rilassarmi, guardare la televisione e godermi la bevanda fresca. Mi alzo nuovamente, appoggio per un attimo il vassoio sul tavolo di cristallo, prendo il cellulare, il caricabatterie e il telecomando e li ripongo su uno dei braccioli della poltrona – quello destro – così non dovrò alzarmi più. Recupero il vassoio, lo pongo sulle ginocchia, accendo la tivù, scelgo un film dalla lista presente nei canali a pagamento, comincio a sorseggiare la birra e mi concentro sulla sigla.

    Metodo, disciplina, ordine. Solamente grazie ad una routine che regolarizzi le attività standard è possibile ottenere la necessaria tranquillità per affrontare il resto della vita improvvisando.

    Lo penso e ci credo davvero. La mia stessa vita lo dimostra. Chiedete a chi mi conosce – a chi pensa di conoscermi – che tipo di persona sia Alessio Fanfani. Domandatelo ai colleghi, alle persone che mi incontrano, ai parenti che mi rimangono, alle donne che frequento… non agli amici, dato che evito di farmi coinvolgere troppo da legami che non ritengo necessari… chiedetelo a chi mi serve il caffè al bar ogni mattina, a chi mi incrocia per strada, ai vicini di casa… chiedetelo e vi risponderanno che Alessio è una persona estroversa, solare, divertente e imprevedibile.

    Lo sono veramente, ma fuori dalle mura in cui vivo, dalle abitudini e dalle manie che mi confortano e mi consentono di concentrarmi su tutto quello che non ritengo noioso o scontato, fuori… dalla mia mente, dai miei progetti, dai miei sogni… dai miei incubi.

    Io sono tutto questo… io sono Alessio Fanfani.

    Sono Alessio Fanfani, trentaquattro anni – da tre giorni per la precisione - moro, occhi verdi, alto 1,82 per 76 chili.

    Sono un impiegato di banca, sono amante dei gatti, del calcio e del basket, mi piace la birra, mi piacciono le ragazze – oh sì, quanto mi piacciono – adoro camminare, nuotare, la musica rock, il sole e la neve, ridere, guardare film e leggere libri. Mi piace mangiare, mi piace cucinare. Adoro i ristoranti, quelli tipici, quelli esotici, quelli di pesce. Sono bravo nel mio lavoro, piaccio alle persone, saluto tutti e tutti mi sorridono. Sono un uomo semplice, ma con una vita piena e interessante.

    Poi… ci sono io… semplicemente Alessio, quello vero… Fatico a amare, ho paura della morte, lo scorrere del tempo mi terrorizza, non vedo un senso nell’esistere, vorrei il conforto di qualcuno, sto bene unicamente da solo, ma al tempo stesso non mi basto.

    Ho bisogno di rituali, devo ripetere gli stessi gesti più volte, non sopporto le criticità, non mi piace la gente, non amo i rumori. Ho bisogno di distrarmi, di fare sesso, di gustarmi in pace gli attimi che voglio fare miei.

    Sono intelligente, forse troppo e questo a volte mi fa star male… vorrei talvolta essere più stupido, per non accorgermi di quanto ci sia di brutto là fuori, nel mondo, per non vedere tutti quegli atteggiamenti che mi fanno soffrire. Io so che la gente mi osserva in modo strano, io sento i loro pensieri, io so che fingono di adorarmi, ma al tempo stesso mi invidiano e non mi amano.

    Vorrei mille vite in una, ognuna una stanza diversa con una porta da poter chiudere a chiave per far sì che niente possa contaminare la mia voglia di gustarmi un istante, di astrarre una situazione dal resto della vita, che non fa altro che inquinarla.

    Perché io sono Alessio… non credo a niente… io sono il mio Dio, io sono quello che mi piace, quello di cui ho bisogno, quello che sa cosa voglio…non mi piace stare da solo, ma non illudetevi, anche quando sono con voi, quando beviamo una birra insieme, quando vi consiglio il conto corrente più adatto a voi, quando parliamo tutti insieme… io sono solo. Con me stesso.

    Poi… poi ci sono le donne… con loro a volte scatta qualcosa di diverso… loro lo chiamano amore, io non so cosa sia, che nome dargli… è un battito d’ali – migliaia di ali – nello stomaco, è il sangue che bolle, è la voglia di credere che ci sia la possibilità di completare definitivamente me stesso con una parte che arrivi da loro. Me ne… innamoro? É la parola giusta? Me ne… sì insomma, frullio d’ali nello stomaco e tutto il resto… e sono felice… o almeno credo… ma poi ho paura… paura che tutto possa finire… che Alessio non sia abbastanza per loro… che vogliano qualcosa di più o che il tempo – ancora lui – possa cambiare tutto. Eppure, semplicemente, dovrei solo ammettere che sono io a non credere che loro siano abbastanza per me, io che so che tutto finirà, che il sangue smetterà di ribollire, che le farfalle voleranno via dal mio stomaco… io che so che dovrei trovare il modo di rendere quegli istanti eterni, annullare il tempo… rendere infiniti gli attimi in cui credo di trovare la felicità. Con loro. Con le donne.

    Io sono semplicemente Alessio, talvolta Alessio Fanfani, un uomo che vive da solo, a Milano. So essere pragmatico, so essere divertente. Coltivo molti interessi, apparentemente amo la vita e la vita mi ama… ho paure profonde, dubbi, ansie. Non so amare, ma non posso fare a meno di sentirmi amato, importante.

    Sono Alessio, sono un impiegato di banca, sono giovane, sono benestante, sono complesso, adoro le donne, sono intelligente, so fare molte cose. Ah sì… sono anche un assassino.

    Amo la nebbia, i suoni che si annullano dentro di essa, l’umidità che mi impregna i capelli ricci mentre cammino, la scarsa visibilità che mi fa sentire immerso nel nulla e al tempo stesso parte di tutto. Ricordo da bambino, al primo piano, fuori dalla porta della casa a ringhiera in zona Navigli dove abitavo con i miei genitori quei momenti di pura estasi, quando dopo cena aprivo la porta – marrone scuro – e d’improvviso… il nulla… la nebbia… non riuscivo a vedere gli appartamenti – con le mura scrostate - sull’altro lato del fabbricato, le stelle non esistevano più… il mondo intero sembrava rallentare e donarmi la possibilità di osservarlo senza vederlo.

    Amo la nebbia, la amo ancora adesso che fatica ad essere così densa e frequente come un tempo. Amo Milano, quella vera, quella fatta di vecchie case di ringhiera, quella con i navigli fumanti vapore d’inverno, quella cupa di zona Sant’Ambrogio – Corso Magenta, quella… del centro, che vorrei vivere adesso con ancora le attività dei primi anni ottanta che mi sono state negate dalla mia data di nascita… i bar Motta e Alemagna… i primi Burghy (altro che Mc Donald’s)… il quartiere di Brera, artistico, inconsueto… magico.

    Non mi piacciono i quartieri nuovi, i recenti grattacieli, la riqualificazione di alcune zone. Ricordo con piacere la Fiera Campionaria all’interno della città, la fiera degli o’bei o’bei il giorno di Sant’Ambrogio, i negozi storici che stanno via via scomparendo.

    E i tram… cosa sarebbe Milano senza i tram? Adoro quelli con le panche di legno, il loro rumore, l’andatura a volte sballonzolante, amo fissare le vecchie cariche di borse della spesa sedute con la borsetta di pelle nera sulle ginocchia, le persone in piedi che cercano di mantenere l’equilibrio, spesso con un quotidiano in una mano, i ragazzi e le ragazze – ancor di più le ragazze – che parlottano e sorridono, gli smartphone in bella vista, la curiosità negli occhi.

    Amo Milano, la vecchia Milano. Amo questa città che mi permette di incontrare migliaia di persone, che mi consente di frequentare colleghi, conoscenti, conquiste occasionali, di entrare in pub, bar, cinema, negozi. Amo questa città, così piena di gente da consentirmi di essere solo in mezzo a tutti, di mimetizzarmi tra la folla, di catturare parole, frasi, gesti che mi permettono di indovinare la vita e le attitudini di chi ci sta dietro.

    Amo osservare senza essere visto, farmi notare senza farmi ricordare, poter essere curioso e sfacciato, o fingermi timido e riservato. Amo poter scegliere chi essere oggi, se interpretare il mio caro Alessio Fanfani o concedermi il lusso di essere semplicemente Alessio per qualche ora, per qualche persona, per succhiare un po’ di vita da qualche bella ragazza, un po’ di linfa da questa città.

    Milano, novembre 1999

    Alessio, è quasi ora di cena, torna in casa. Non vedi che nebbia che c’è? Dai, che comincia a fare veramente freddo.

    Ancora un attimo papà, sto cercando Raissa, voglio vedere se la trovo.

    Ok, ma non più di mezz’ora, è una gatta… quando avrà fame vedrai che tornerà da sola.

    Ok papà.

    No papà, Raissa non tornerà mai più. Né se ne andrà mai più, se è per questo.

    Amo la mia gatta, una trovatella tigrata, grigia col pelo un po’ lungo, marrone sulla pancia. Ha un buon carattere, è docile, giocherellona e sono convinto che mi voglia bene, nel modo che i gatti hanno di dimostrarlo, ovviamente.

    Raissa è la mia compagna di giochi da ormai quasi cinque anni, a volte la sera riesco a convincerla a stare in casa e a farla dormire con me. Adoro sentire le sue zampe sulla mia pancia, il suono delle fusa, osservarla mentre riposa e a volte sogna, muovendo le sue zampette ritmicamente e contraendo i muscoli vicino alla bocca, tanto che le sue vibrisse si muovono veloci e leggere.

    Raissa ha il pelo morbido – mi piace spazzolarglielo e lei mi lascia fare – una testa grossa e tonda, occhi giallo-verdi e uno sguardo furbo, che sembra seguirmi qualunque cosa io faccia.

    Adora dormire, come credo quasi tutti i gatti, giocare, farsi coccolare e mangiare. Le piacciono i cibi morbidi, umidi e che emanano un odore che solo questi felini sembrano apprezzare. Le piace anche condividere con noi i nostri avanzi, qualche pezzo di pollo, la pelle del salame – quello nostrano ovviamente, mica è scema – addirittura le arachidi… anche se non è capace di sbucciarle e passa minuti a fissarmi con la testa leggermente reclinata mentre io lo faccio per lei.

    Non disdegna le crocchette, il cibo secco che pare sia il più salutare per loro, ma solamente se non c’è altro.

    Le piace molto anche uscire, esplorare i dintorni, curiosare.

    Ma non lo farà più, ne sono sicuro.

    Quando rientro a casa da scuola, se è nel cortile, comincia a miagolare appena mi vede arrivare, mi segue e non smette finché non mi decido a prenderla in braccio e ad accarezzarla. La porto con me in casa, comincio a mangiare quello che la mamma mi ha preparato con lei sulla sedia di fianco alla mia, che aspetta che le dia qualcosa. Non pretende nulla, semplicemente aspetta, fiduciosa che qualche avanzo possa essere destinato a lei, sicura dell’amore che provo per lei, della mia voglia di farla felice.

    Si sbaglia, almeno in parte. Ha il suo cibo, come tutte le carezze, il posto caldo sul divano e nel mio letto ogni volta che vuole, le attenzioni che richiede, ma non perché io la ami. Perché io amo me stesso e voglio che lei mi ami. La rendo felice perché mi sia riconoscente, la nutro e la accarezzo perché voglio che lei mi dimostri il suo amore e la sua felicità, perché voglio sentirmi amato, importante… indispensabile. Voglio che la mia gatta sia mia, solo mia. Voglio che sia sempre disponibile per me, sempre pronta a accorrere quando la chiamo, a apprezzare il cibo e le attenzioni che le dedico, che si faccia accarezzare quando ho bisogno di sentire qualcosa di morbido e di caldo sotto le dita, che mi guardi come se mi capisse quando voglio parlare con lei. Che non mi abbandoni mai, che nessuno sia più importante di me nella sua vita… o in tutte le sue sette vite, ancora meglio. Io voglio ricevere amore, non darlo. Non voglio essere deluso, nemmeno da un gatto.

    E sono sicuro che Raissa non mi deluderà. Non più.

    Lei sa essere così perfetta, così dolce. Ormai mi guarda come se fossi la cosa più importante della sua vita, mi segue ovunque, ricerca il contatto fisico con me, fa le fusa, dorme sempre più spesso nel mio letto e cerca la mia presenza con sempre maggior frequenza. E’ diventata dipendente da me. Al mattino osserva la ciotola piena e comincia a miagolare. Prima di mangiare vuole che io mi accovacci vicino a lei e cominci a accarezzarla, dapprima sul testone – e inizia a mangiare i primi bocconi – poi sulla schiena. Mangia e fa le fusa, mangia e fa le fusa… e sembra felice, contenta di avermi nella sua vita, incapace di continuare la SUA vita senza di me.

    Raissa è proprio come io la voglio. Raissa riesce a rendermi felice, a farmi sentire importante. A farmi sentire… potente.

    Ma sono certo che non potrà essere sempre così. Le persone – e gli animali – mutano, cambiano gusti e preferenze e non passerà molto tempo prima che anche Raissa perda interesse nei miei confronti. E’ inevitabile, il tempo cambia tutto. Il tempo uccide la passione, azzera la fiducia, pone una patina di noia su tutto. Odio il tempo, il suo scorrere inesorabile, che trasforma una bella donna in una vecchia rugosa, che rende monotoni atteggiamenti e sguardi per i quali avremmo dato la vita, che ci cambia, trasformando i nostri corpi ed i nostri pensieri, rendendoci comuni e banali agli occhi di chi ci sta intorno, avvicinandoci alla morte. E poi dicono che Dio sia buono… ci fa nascere con la consapevolezza che dovremo morire… ci toglie ogni speranza di eternità, altro che le bufale che ci raccontano a catechismo. Il tempo ci cambia… e io non voglio che tutte le energie investite a farmi accettare, a rendermi interessante, a fingere di amare… vengano diluite e cancellate dallo scorrere del tempo.

    So che Raissa mi ama, nel modo profondo e semplice proprio dei gatti. Ma so anche che comincia a farsi accarezzare dai bambini del cortile, che a volte accetta cibo da loro e che si spinge sempre più in là nelle sue esplorazioni. Raissa, ho capito che stai cominciando a non amarmi più in maniera assoluta, che stai cominciando a annoiarti a passare il tempo solamente con me, che se il tempo scorrerà ancora… questa perfetta armonia sparirà, non sarò più indispensabile per iniziare le tue giornate, verrai da me solamente quando non ci sarà altro di più interessante da fare, ti annoierai, ti sembrerà tutto scontato e ripetitivo e rovinerai tutto. Tu Raissa e il tempo rovinerete tutto.

    Non voglio una vita che risenta continuamente del passato, un presente in cui combattere ogni istante per ottenere il futuro che voglio, non posso accettare un avvenire che mi deluda.

    Voglio vivere istanti di presente, scollegati fra di loro, indipendenti, voglio poter scegliere quali attimi portare con me nell’eternità e quali semplicemente dimenticare, distruggere, come se non fossero mai esistiti.

    Voglio poter fermare il tempo e conservare questi momenti dentro di me, puri, perfetti, gioiosi, senza che niente o nessuno li possa rovinare e contaminare.

    Ora so che il tempo lo posso fermare e che tu, Raissa, non mi deluderai mai più.

    La perfezione non merita di appassire sotto la polvere dei giorni che passano. Le nostre ore vanno impiegate per ottenere questa perfetta armonia, quegli istanti che mi rendono felice e mi fanno sentire potente e accettato e non bisogna consentire loro di contaminare quanto raggiunto.

    Ora so che il tempo lo posso fermare – e l’ho fatto – ora so che la perfezione la posso portare con me – dentro di me – per sempre.

    Osservo il tuo corpicino senza vita, nella buca che ho scavato per te. Sei bellissima, come sempre. Sembra che tu stia dormendo, il pelo è ancora così morbido e la simmetria del tuo muso perfetta. Non fai più le fusa mentre passo le mie mani sulla tua pelliccia, ma io riesco a sentirle nella mia mente, a vedere il mio riflesso nei tuoi occhi quando mi guardavi soddisfatta di essere sulle mie ginocchia. Le mie mani sono sporche di terra e di un po’ del tuo sangue – credevo ne avresti perso di più, si è fermato quasi subito. Ho provato dolore nel farti male, nel porre fine alla tua vita, ma è stato necessario Raissa, non avremmo potuto raggiungere un punto più alto nella nostra convivenza e io avrei finito per rimpiangere questi giorni man mano che il tempo ci avrebbe allontanato da essi. Il tuo ultimo sguardo nei miei occhi, il mio volto riflesso nella tua iride, l’istante in cui la vita ti abbandona… e diventa mia, di me che te l’ho tolta, ti rendono infinita. Sarai sempre con me, dentro di me, nella tua veste migliore, nella perfezione del tuo amore per me, nel ricordo di come per te io fossi indispensabile, da amare e da ammirare.

    Sto ricoprendo il tuo corpo ormai svuotato della tua essenza. Sto cercando di non piangere, di gioire per aver evitato il declino della tua dipendenza da me. Incomincia a fare freddo, ma sono felice. Contento e al tempo stesso in ansia. Felice per aver reso immortale il nostro attimo di perfezione, dopo anni di continui miglioramenti. In ansia, perché già comincio a sentirmi solo e dovrò cercare qualcun altro che possa riempire il prossimo istante.

    E’ ora di rientrare in casa, devo lavarmi bene le mani e pensare a chi vorrò ora ad accompagnarmi nella vita.

    Alessio, stavo quasi per venirti a chiamare di nuovo… la cena è quasi pronta, vai a lavarti le mani, così poi mi aiuti ad apparecchiare la tavola. A proposito, hai trovato il gatto?

    No papà, non ho visto Raissa (ma stai sicuro che l’ho trovata, come la volevo, per sempre).

    Senti, mi servirebbe una delle fotografie che ti ho dato la settimana scorsa… la voglio far incorniciare, una di quelle con te, la mamma e me insieme.

    Sono in camera mia nel secondo cassetto della scrivania, nella parte destra anteriore del cassetto. Quale ti serve?

    Mah… vorrei sceglierne una con calma…

    Ok, le ho ordinate secondo un criterio temporale basandomi sui negativi. Dietro ad ognuna di esse trovi un numero da 1 a 34 (2 non sono state sviluppate perché rovinate), per favore poi riordinale come le ho messe io, grazie.

    Va bene Alessio, ma sono solamente delle fotografie, non preoccuparti dell’ordinamento, non è importante.

    Papà per favore, rimettile in ordine… per me è importante (tanto so già che dovrò ricontrollarle tutte…);

    Ok… adesso però prepariamoci per la cena.

    Va bene… lavo le mani e arrivo subito.

    Milano, febbraio 2019.

    Con Raissa non è la prima volta che ho ucciso. E’… semplicemente… la prima volta che ho ucciso per amore, o meglio per potermi sentire eternamente amato nel modo che più mi si addice.

    Da bambino mi piaceva uccidere piccoli animali, insetti per lo più – formiche, vespe – o lucertole, lumache, qualche volta rane… Non lo facevo per cattiveria, volevo sperimentare… osservare le loro reazioni, testare se potevo capire il momento esatto in cui la vita li abbandonava. E così provavo con animali diversi, con tecniche differenti… ma non avevo ancora colto il senso dell’infinito, la potenzialità di racchiudere la perfezione in un istante attraverso la morte.

    Ho ucciso formiche, di solito immobilizzandole staccando loro qualche zampetta e poi… facendole annegare, oppure bruciandole sotto i raggi del sole passati in una lente di ingrandimento… oh sì questa per loro era la mia tecnica preferita… il fumo che cominciava a sprigionarsi dalle prime parti del corpo carbonizzate e la possibilità – attraverso la lente di ingrandimento – di osservare dettagli invisibili ad occhio nudo.

    Ho ucciso vespe. Non mi facevano paura, le catturavo, staccavo le loro ali e poi provavo differenti modalità di uccisione… in un secchio d’acqua, sotterrate…

    Ho ucciso lumache, anche cospargendole di sale, rane – che andavo appositamente a pescare – lucertole, che riuscivo ad acchiappare con grande maestria.

    Ho così cominciato a sperimentare la morte, per semplice curiosità dapprima, con sempre maggior interesse e comprendendola sempre più poi.

    Nessuno lo ha mai saputo ovviamente. Io ero Alessio Fanfani, il primo della classe, quello un po’ timido e educato, il chierichetto che serviva messa, il figlio che si offriva di andare a fare la spesa per la mamma e aiutava il papà a lavare la macchina a mano la domenica e a pulire il cortile il sabato. Ero il bambino che giocava quasi ogni giorno a calcio con gli amici, che faceva i compiti prima di guardare la televisione, che leggeva libri e ascoltava musica.

    Eppure, già allora, ero Alessio, quel bambino che andava a comprare le figurine e ogni sera prima di andare a letto riposizionava quelle doppie in un mazzo ordinato numericamente. Ero Alessio, quello che non sopportava gli altri bambini che gridavano, i rumori delle motociclette di grande cilindrata nella notte, il finto buonismo di dover essere tutti amici e il dover fingere che gli importasse degli altri. Ero Alessio, quello che non ha mai creduto in un Dio – se escludiamo me stesso - e tantomeno in una religione che lo obbligava a considerarsi parte di una comunità, ma per superstizione prima di addormentarsi recitava ogni sera 3 avemaria, un padrenostro, un gesùdamoreacceso (per me erano così… dette tutte d’un fiato con le parole attaccate tra loro… da dire il più veloce possibile ma bene… accuratamente) e se per caso mi addormentavo prima di dirle, quando mi risvegliavo le dicevo doppie, per rimediare… non si sa mai. Ero introverso di natura, ma estroverso con gli altri, annoiato dalla gente e dai miei compagni di classe, ma al tempo stesso loro beniamino e punto di riferimento per le attività comuni. Ero Alessio, semplicemente Alessio, ma ero bravino a recitare e allora impersonavo Alessio Fanfani.

    No… non ero bravino… ero bravissimo a recitare… e lo sono ancora adesso a trentaquattro anni. Oh mio Dio, ogni volta che in banca i clienti mi sorridono, ogni volta che qualche ragazza ammicca ai miei occhi verdi, ogni maledetta volta che mi trovo a dover socializzare con persone delle quali non mi interessa nulla… io sono il più grande attore… quello perfetto per impersonare Alessio Fanfani. Se solo sapeste cosa penso di voi, cosa voglio veramente, quanto possa essere profondo il mio odio per tutto quello che mi circonda…

    Solamente con le donne talvolta è diverso… le desidero… la loro carne certo, ma anche la loro anima, sento il bisogno di percepire che mi amino, che mi adorino, che vedano in me qualcosa di indispensabile. Riesco a assaporare la loro essenza, mi riesce facile sedurle, le corteggio quando non basta uno sguardo, le faccio sentire bene, le faccio innamorare di me… e comincio a sentirmi strano, a non voler fare a meno di questa sensazione, a pretendere che questo istante di perfezione non possa essere guastato. Da niente. Da nessuno. Tantomeno dal tempo, il fottutissimo tempo, di cui Alessio Fanfani è schiavo, ma che il vero Alessio, io, può e sa sconfiggere.

    Un mazzo di fiori, tulipani o gerbere di solito, preferibilmente di colore arancione – le rose rosse al primo appuntamento no… non è il caso – una bottiglia di vino, il mio sorriso, le mie spalle larghe da nuotatore… e i miei occhi verdi e le donne cominciano a provare interesse per me, poi si vedrà come evolve la situazione, senza troppe aspettative, senza inibizioni, senza preconcetti né limiti. Senza rimorsi.

    Il sesso… hmmm il sesso… quello sì che mi piace… le loro labbra, i loro corpi, la fusione di due persone… niente male, davvero niente male.

    Mi scusi, dove devo firmare il modulo?

    Un cliente, mi ero distratto troppo…

    Buongiorno, in basso a destra, le faccio vedere.

    Grazie molte, dovrei prelevare e poi vorrei avere il saldo del conto.

    Ma certo, ci mettiamo un attimo.

    Grazie giovanotto, è molto gentile.

    Si figuri, è il mio lavoro.

    Un altro rimbambito che non sa nemmeno dove firmare… la banalità e la stupidità delle persone, di molte persone è imbarazzante, ma adesso sono Alessio Fanfani, gentile, rassicurante…paziente.

    Eccole i contanti, mi serve gentilmente un’altra firma qui, dove le ho messo la crocetta, e questo è il suo saldo a oggi (sorriso da giovane rispettoso verso i vecchi, comprensivo con i clienti e felice di lavorare qui…).

    Ecco il modulo firmato, grazie ancora, fossero tutti come lei gli impiegati!

    Ma no… sono io che vorrei che tutti i clienti fossero gentili come lei, buona giornata (altro sorriso da nipote affettuoso).

    Buona giornata, arrivederci.

    Ok, per oggi era l’ultimo della fila, adesso devo solo chiudere la cassa e un altro pomeriggio di lavoro è andato.

    Ciao Alessio, a domani.

    Ciao Marina, ciao Giovanni… Roberto… salutatemi anche gli altri, oggi sono di fretta.

    Indosso il cappotto, grigio scuro, acquistato da Brioni, sembra fatto apposta per me.

    Guanti di pelle nera, niente cappello, i miei riccioli non lo sopporterebbero. Chiavi di casa nella tasca destra, portafoglio – anch’esso di pelle nera e liscia – nella tasca interna sinistra della giacca, fazzoletti di carta nella tasca sinistra del cappotto, insieme a un pacchetto di caramelle – Fisherman’s Friend versione originale, con zucchero e tutto quanto. Nella stessa tasca dove c’è il portafoglio, una penna Montblanc, regalo di una persona speciale… la mia prima conquista tra i clienti, qualche anno fa, forse un po’ troppo vecchia per me, ma piena di voglie represse… gli occhiali da sole – Ray-Ban a specchio, non me ne separo mai nemmeno d’inverno – pronti per essere indossati.

    Esco dalla banca, mi incammino verso la fermata del tram. Mi muovo rapido, ma senza scompormi, come un modello su una passarella, un’andatura studiata e affinata nel tempo, che trasmette sicurezza, serenità e controllo. Il profumo che ho appena rimesso prima di uscire dal lavoro che si fa sentire senza imporsi, il sorriso pronto a sbocciare nel caso dovessi incontrare qualcuno… anzi qualcuna che lo meriti.

    Sono arrivato alla fermata del tram, mi posiziono – come sempre – a circa tre metri di distanza dal palo segnaletico, osservo l’ora sul mio Rolex, mi aggiusto la cravatta – non le amo particolarmente ma talvolta le porto – e aspetto, osservando chi si muove intorno a me. Amo i dettagli, i particolari, non posso fare a meno di notare la smagliatura sulla calza sinistra della signora cicciottella che sta camminando sul marciapiede opposto, la gonna scozzese un po’ lisa, la borsetta da quattro soldi. Ma quello che stona e che fatico ad accettare è la smagliatura, rovina tutto, anche la dignitosa povertà che le si legge in faccia, negli abiti, nello sguardo rassegnato. Sono le piccole cose che mostrano chi siamo, i particolari che danno un senso al tutto. Quella smagliatura è come un buco nella Gioconda, è come un cantante stonato in un coro… rovina tutto, mi turba… sto cominciando a innervosirmi, ma non posso fare a meno di continuare a osservarla dietro le mie lenti a specchio. E vorrei sapere se " miss calza rotta" non si è accorta di nulla – sarebbe un po’ più scusabile, ma appena un poco… sarebbe la dimostrazione che non si prende cura di sé stessa, che non si osserva… che non… si conosce – o se è conscia di questo scempio e fa finta di niente, lo accetta… e sarebbe inescusabile, un peccato mortale, qualcosa che contribuisce alla dissoluzione della bellezza che il mondo a volte sa offrire.

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