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Il bosco di Macchione
Il bosco di Macchione
Il bosco di Macchione
E-book750 pagine9 ore

Il bosco di Macchione

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Info su questo ebook

Investite dalle vicende dei tumultuosi e drammatici anni che vanno dall’inizio del ’900 al primo conflitto mondiale, fra una Puglia ancora arcaica e una Roma giolittiana ma non troppo, si intrecciano con la rapida evoluzione sociale le parabole di tre famiglie legate fra loro da invincibili sentimenti di amicizia, amore o rancore.

Già docente di Storia del Diritto alle Università di Roma La Sapienza e Sassari, collezionista per hobby di rose antiche e moderne, Luisa Bussi, di padre modenese e madre siculo-pugliese, vive a Roma col marito (come lei professore di diritto ceduto alla letteratura) e due gatte. Dopo i lusinghieri riconoscimenti ottenuti da Vuoto di scena (2014, ed. Nemapress, premi “Le rosse pergamene”, “Pavoncella” e “Pannunzio”) questo è il suo secondo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2021
ISBN9791220122009
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    Anteprima del libro

    Il bosco di Macchione - Luisa Bussi

    DRAMATIS PERSONAE

    PERSONAGGI DI FANTASIA

    Don Michele Corvino: Proprietario terriero, parlamentare

    Donna Eudossia Calocero: (donna Sisina) Moglie di don Michele Corvino

    Gianbattista Calocero: (Bebbetto) Fratello di Eudossia, proprietario

    Marco Valerio Corvino: Primogenito di Michele e Eudossia scomparso prematuramente

    Gerardo Corvino: Figlio maggiore di Michele e Eudossia

    Amalia Corvino: Figlia di Michele e Eudossia

    Mattia Corvino: Figlio di Michele e Eudossia

    Pinuccio Chianese: Cocchiere di casa Corvino

    Crescenza Chianese: Moglie di Pinuccio

    Finella Chianese: Figlia di Pinuccio e Crescenza

    Giannina: Domestica di casa Corvino

    Marietta: Domestica di casa Corvino

    Simone Volpini: Massaro di casa Corvino

    Don Girolamo Cappelli: Sacerdote, cugino di Michele Corvino

    Beatrice (Bice) Cappelli vedova Macchia: Sorella di Girolamo

    Arturo Macchia: Figlio di Bice, redattore de La Tribuna

    Serafina: Domestica di casa Cappelli

    Pasquale Pinto: Factotum de La Madonnella, villa dei Cappelli

    Cosima Pinto: Moglie di Pasquale, ricamatrice, levatrice.

    Angela Pinto: Figlia di Cosima e Pasquale

    Martino Pinto: Figlio di Cosima e Pasquale

    Girolamo Pasquale Pinto (Geppo): Figlio di Angela

    Domenico Balzacchelli: Massaro di Gianbattista Calocero, proprietario

    Bernardo Balzacchelli: Fratello di Domenico

    Pietrino Balzacchelli: Figlio di Domenico

    Andrea, Giandomenico, Trifone Spalletta: Uomini dei Balzacchelli

    Salvatore Rotolo: Venditore della masseria Stracciacappa

    Giovanni Lomastro: Mediatore

    Leonardo Lamazza: Usuraio

    Don Bonifacio Vacchelli: Proprietario terriero

    Pasqua Vacchelli: Moglie di Bonifacio

    Vito Vacchelli: Figlio di Bonifacio e Pasqua

    Giulia Vacchelli: Figlia di Bonifacio e Pasqua

    Rosetta Vacchelli: Figlia di Bonifacio e Pasqua

    Don Francesco (Ciccio) de Silva: Proprietario terriero

    Alberto Rinaldi: Aspirante notaio, poi avvocato.

    Vittorio Angiulli: Avvocato di Michele Corvino

    Zenobia Nardini: Sedicente ex cantante d’opera

    Teodora Nardini: Figlia di Zenobia

    Don Giacomo (Mimino) Lavarra: Notaio

    Donna Carolina Lavarra: Moglie di Giacomo

    Enrico Lavarra: Figlio di Giacomo e Carolina

    Don Giovanni Fontana: Sacerdote

    Don Raimondo Gaudenzi: Sacerdote

    Don Nicola Porcelli: Sacerdote

    Padre Ignazio: Sacerdote

    Don Anselmo: Sacerdote modernista

    Don Giacinto Giannuzzi: Farmacista

    Vincenzo Agresti: Medico

    Don Coriolano Spinosa (Nannino): Barone napoletano

    Fernando Spinosa: (Nandino) Figlio di Nannino

    Don Alfonso Manfridi: Proprietario terriero

    Mario Manfridi: Figlio di Alfonso, amico di Mattia Corvino

    Cristina Ribera: Sposa di Gerardo Corvino

    Lucia Ribera: Sorella di Cristina

    Stanislao Oddoni: Ufficiale, zio di Cristina

    Maria Luisa Oddoni Ribera: Madre di Cristina e Lucia

    Loris Oddoni: Figlio di Stanislao

    Paolo Torralba: Professore d’Università, parlamentare

    Concetto De Cupis: Parlamentare

    PERSONAGGI STORICI

    Emanuele Gianturco: Giurista, libero docente nella Università di Napoli, ministro, parlamentare

    Giovanni Giolitti: Presidente del Consiglio dei Ministri

    Sidney Sonnino: Presidente del Consiglio dei Ministri

    Angelo Celli: Medico, professore all’Università di Roma, parlamentare

    Anna Fraentzel Celli: Moglie di Angelo, personaggio eminente del primo femminismo romano

    Guglielmo Mengarini: Ingegnere, professore all’Università di Roma, parlamentare

    Margarethe Traube Mengarini: Fisiologa, zia di Anna Fraentzel, moglie di Guglielmo

    Salvatore Barzilai: Criminologo, parlamentare

    Antonio De Viti De Marco: Economista, professore all’Università di Roma, parlamentare

    Francesco Paolo Materi: Parlamentare, proprietario

    Andrea Spada: Parlamentare, proprietario

    Incipit

    La figura era ritratta in piedi, un vaso colmo di rose centifolie su un’alzata accanto a lei, le mani congiunte sulla gonna. Il blu violaceo dell’abito, dall’esile vita, si avvolgeva lungo la persona con linee spirali che rivelavano la levità del tessuto. Dalla scollatura, che si allargava sino alle spalle con una preziosa guarnizione di merletto di Burano, emergeva un collo sottile sul quale posava la chiarità luminosa del volto, atteggiato ad un sorriso, che non si trasmetteva agli occhi, e pareva celare con eleganza una qualche intima malinconia. Benché di non grandi dimensioni, il quadro dominava la parete attirando su di sé lo sguardo, forse anche per una indefinibile somiglianza con la mia ospite. Che: Un allievo di Boldini spiegò, tornando con il tè.

    Ero nel salotto di Liliana Pinto, le cui poesie di protesta civile erano ormai un caso letterario. Di quel salotto, che pur non mancava di oggetti di pregio, quel quadro di sicuro era l’elemento che catturava subito l’attenzione.

    Davvero notevole - osservai - ma forse si deve al soggetto: doveva essere una donna non comune. Stavo per aggiungere: come lei, ma mi trattenni. Era nota la sua antipatia per le lusinghe, ed io ero lì per un’intervista alla poetessa, il cui nome brillava nel parterre della casa editrice per cui lavoravo, e per concordare la quarta di copertina del suo ultimo libro.

    Ne è stato conquistato, vedo. Sì, credo davvero fosse una persona fuori dell’ordinario.

    Una parente?

    Mia nonna, Angela Pinto. Io porto il suo cognome: se la sua famiglia fosse stata nobile, mio padre avrebbe dovuto brisare il suo stemma. Il nonno non la sposò mai, né mai poté riconoscerne il figlio.

    La sorpresa mi lasciò qualche istante senza parole.

    Posai la tazza del tè e dissi cautamente: A suo tempo, dovette certo affrontare una situazione non facile…

    Lei sorseggiò il suo tè e accavallò le gambe appoggiandosi allo schienale della poltrona. Gambe interessanti, che le davano l’aspetto svelto e fresco di una donna assai più giovane di quel che doveva essere, come il sorriso, che mi faceva pensare allo scintillio del sole sulla neve.

    Ah, direi che ‘non facile’ sia un eufemismo. Fu un vero scandalo. La mia famiglia, come lei sa, è originaria della provincia pugliese. Parliamo di un secolo fa e di un piccolo paese adagiato a mezza costa sullo schienale delle Murge. Deve pensare che mai lì si era sentito nulla di simile. Mai a memoria d’uomo, almeno.

    Almeno?

    Mi regalò un altro dei suoi sorrisi rompighiaccio: In effetti son convinta che il cuore umano risponde a leggi immutabili come gli astri del cielo di mezzanotte: le sue passioni sono sempre le stesse.

    Avevo gli occhi ancora fissi sul quadro e quasi senza volerlo aggiunsi: Posso immaginare le chiacchiere.

    Oh, quelle esplosero come i fuochi d’artificio della festa grande. Anche se il fatto, a dire il vero, era banale: don Michele Corvino, nientemeno, aveva lasciato la moglie, donna Eudossia Calocero - donna Sisina, come la chiamavano tutti - per un’altra. Che oltretutto aveva almeno vent’anni meno di lui e frequentava palazzo Corvino da quando era bambina... si può dire che lui l’avesse vista crescere.

    Michele Corvino…Ricordo un senatore con questo nome. Parliamo di lui?

    Lei pensa a Gerardo Corvino. Era suo padre. Michele fu eletto alla Camera, ma la vicenda coinvolse anche la sua carriera politica e i tanti progetti che sperava di realizzare. Ha mai riflettuto a quanto la Storia, la grande Storia sia condizionata dalle tante storie personali?.

    Guardai i miei appunti: quell’intervista stava diventando più complessa del previsto Vorrei che me ne parlasse, se non le sembra indiscreto.

    Oh! È passato tanto tempo…e la mentalità delle persone è tanto cambiata. Oggi è più facile che si condanni la moglie che vuol tenere legato a sé il marito che se ne vuole andare, piuttosto che il contrario. Del matrimonio importa ormai solo la festa; poi, è più debole di un contratto d’affitto. Si è andati da un estremo all’altro.

    Lei non si è sposata?

    No. Scrivere è un’attività solitaria.

    Quanto crede che queste vicende familiari abbiano influito sulla sua scelta?.

    Influito? Forse. Tanti anni fa scoprii un libriccino di poesie scritte da lei. Erano poesie d’amore, ma ce n’erano anche di quelle animate da una grande sofferenza unita a una straordinaria forza morale. È stata una donna fuori dagli schemi.

    Tacque per qualche istante per sorbire il tè. Poi riprese: Sa, bisogna dire che la moglie mio nonno l’aveva scelta non tanto spinto da un suo trasporto personale, quanto su indicazione e consiglio dei genitori. La famiglia Calocero era di antico lignaggio – allora queste cose contavano tanto – e di sostanziosa fortuna: titoli, fabbricati terreni… Si diceva che la loro fosse superiore persino alla pur solida ricchezza dei Corvino, e allora, prima che il fratello morisse durante una spedizione in Africa Orientale, mio nonno era solo il cadetto. Ma si rivelò un matrimonio malriuscito. Lui era un uomo dai mille interessi, mentre lei pare non ne avesse alcuno; lui era un liberale di stampo ottocentesco lei, superstiziosissima, passava tutto il suo tempo fra maghe e sacrestie. Insomma, non era mai riuscita a scaldargli il cuore. Perfino il nome del primo figlio è in qualche modo rivelatore: lui aveva voluto a tutti i costi che si chiamasse Marco Valerio, come il Marco Valerio Corvino tribuno di Roma, poi console e dittatore. In polemica con la moglie, che lo seccava con le pretese ascendenze bizantine dei Calocero. Il primogenito si spense ancora in fasce, vinto da una polmonite fulminante. Gli altri: Gerardo e Amalia erano quasi ventenni, all’epoca dei fatti, Mattia era poco più che adolescente.

    Si alzò per prendere da una étagère una piccola foto color seppia che mi mostrò. Ritraeva un bell’uomo, in apparenza ancor giovane, seduto in una posa che, da sola, rivelava il suo rango. Il viso, rivolto verso l’obiettivo, era dominato da due occhi penetranti, ove era tutta l’arroganza e la gentilezza del gran signore.

    La foto non gli rende giustizia, ma purtroppo non ne possiedo altre, a parte quelle ufficiali, sempre alquanto confuse, e una piccola miniatura, racchiusa in un medaglione che la nonna portava al collo. Non se ne vede la corporatura, che aveva ereditato dai Corvino. Pensi che la prestanza del bisnonno, era leggendaria al punto che se qualcuno faceva un po’ il bullo gli si diceva: ma chi ti credi d’essere, don Gerardo?

    Che sguardo! - commentai; e poi, tornando a osservare il quadro - E che storia: meriterebbe d’esser raccontata.

    La mia ospite ripose la fotografia sul ripiano dal quale l’aveva presa.

    In effetti ne ho scritto, sa? In casa ho trovato lettere, registri, persino un diario.

    Sospirò.

    E cosa ne ha fatto?

    Sulle prime non rispose, fissando anche lei, per un lungo istante, gli occhi sul quadro.

    Cosa ne ho fatto…Quasi senza volere quelle carte si sono composte nella trama di un racconto. Ma riordinarle e completarle è stato faticosissimo: mi sono cimentata in un genere letterario per me nuovo e che oltretutto proclama generalmente che persone e fatti sono di pura fantasia. Questi no, mi riguardano da vicino anche se non sono miei, me ne sono in un certo senso impadronita; d’altra parte penso che chi ha scritto quelle pagine si augurava che la sua storia non restasse sconosciuta.

    Tornai a guardare il mio blocco di appunti, poi lei:

    Quindi intende proporsi in una nuova veste?.

    Non so, non ho ancora deciso se inviare il tutto al nostro editore. Un libro è come un figlio, e questa volta temo più del solito il giudizio del lettore.

    Capii che si aspettava che fossi interessato a leggerlo e glielo proposi. In quel momento mi suscitava uno strano miscuglio di sentimenti che andavano dalla curiosità per la poetessa famosa allo slancio di empatia per la donna che mi pareva senz’altro seducente, ma anche, d’un tratto, stranamente timida e bisognosa di conferme.

    Perché no – disse con un filo di esitazione – lei potrebbe trarne qualche risposta per la sua intervista, e io avere un’idea delle sue impressioni.

    Assentatasi brevemente, mi mise poi tra le mani una cartelletta di cartone che racchiudeva un’intera risma di fogli stampati.

    Non so perché la presi: raramente sono stato così in imbarazzo. Mi chiedevo come ne sarei potuto uscire se avessi dovuto dirle sinceramente che sarebbe stato meglio, quei fogli, lasciarli andare in fumo su per il camino.

    Tornato nel mio studio, posai la cartella sulla prima sedia che mi capitò a tiro. Non volevo confessare a me stesso che ero irritato. Se la Pinto credeva che avrei perso tempo a leggere tutto quel malloppo solo per la sua intervista… Ma più tardi, accesa la televisione (i soliti dibattiti da una parte, film visti e stravisti dall’altra) fui tentato di riprenderlo in mano, lo sfogliai. L’italiano mi pareva effettivamente un po’ antiquato; però il racconto non conteneva solo la storia trasgressiva della donna il cui ritratto avevo ammirato in casa di Liliana Pinto, ma anche l’affresco di un piccolo mondo di uomini e di cose ormai scomparsi. Così andai avanti, una pagina dopo l’altra…

    PARTE I

    PASTORALE¹


    1 Ludwig van Beethoven, Sinfonia n.6 in fa maggiore n. 68

    Capitolo I

    Il biglietto

    Il sabato volgeva al tramonto. Era stato caldo, come tutto quel mese di maggio del 1903. L’anziano cocchiere di casa Corvino, le redini strette in mano, si avviava a ricoverare cavalli e carrozza nella rimessa del palazzo. L’indomani, domenica, era probabile che lo stesso don Michele o qualcun altro della casa se ne volessero servire, e l’uomo doveva tirare a lucido il landò, oliare le quattro ruote rosse, lustrare il mantice nero e la pelle naturale dei sedili, strigliare i due cavalli. Ora li conduceva con una certa flemma imperiosa, che cercava di avere ragione del loro disaccordo. Ha, ha! E muòvete! Ha! Pensava all’orciolo di vino che lo aspettava a casa, quando si sentì afferrare per la manica. Si voltò e si vide porgere un biglietto da un giovane trafelato e dall’aspetto un po’ eccentrico: Questo lo devi dare alla bella signorina che è entrata qui. E con l’altra mano aggiungeva al biglietto alcuni spiccioli.

    Il cocchiere, abituato a coniugare l’appellativo signorina con signore e cioè con i membri della famiglia Corvino, voleva avvertirlo che lui era tenuto a consegnare la posta nelle mani del padrone di casa, a chiunque fosse diretta, ma l’altro si era già dileguato.

    Pinuccio Chianese teneva troppo al proprio posto di cocchiere, per venire meno alla consegna del suo datore di lavoro. Era questi, non certo il giovane trafelato, ad assicurargli casa, fuoco e vettovaglie perciò, con un sospiro, anziché inoltrarsi nei locali che costituivano la sua abitazione, infilò le scale di servizio. Dopo qualche minuto, il biglietto era nelle mani di don Michele. Questi l’aprì e lesse:

    "Gentile signorina,

    il giorno in cui per la prima volta vidi il vostro incantevole viso, credetti di esser stato rapito in paradiso e di essere di fronte a un angelo. Da allora pur sapendo di non esser degno neanche di appuntare su di voi lo sguardo, non faccio che pensarvi. Perciò getto ai vostri piedi la mia vita, che senza di voi non ha più gioia. Un cenno vostro per dirvi chi sono e cosa faccio".

    Fissando accigliato il suo cocchiere chiese: Chi te lo ha dato? Quando?

    Chi nun ‘o saccio, signerì. Eravate appena tornati dalla passeggiata, voi, donna Sisina e la signorina Amalia.

    Don Michele - il cui sense of humour deliziava gli amici - al pensiero che quel biglietto riguardasse sua figlia, era invece preda di una reazione che stava tra l’incredulità e l’irritazione. Chi osava rivolgersi così a una Corvino?

    Voglio sapere chi è.

    Il cocchiere alzò le spalle: E sissignore. Ave a esse uno che non appartiene al paese. Forse chidde nuove che venne a lavorare col notaio Lavarra….

    Va bene. Va bene. Vai. E non prendere più di questi biglietti.

    Licenziato il cocchiere con un gesto della mano, Michele Corvino mandò a chiamare la figlia, che comparve poco dopo. Amalia Corvino aveva nei tratti molto che la riconduceva alla famiglia del padre, ma quello che a lui conferiva autorevolezza e fascino, a lei toglieva in femminilità e dolcezza. Le spalle un poco troppo ampie, l’altezza forse eccessiva rendevano la sua andatura quasi androgina; e i capelli nerissimi, spartiti esattamente a metà, che le scendevano in due bande lisce fino al collo, per riunirsi sulla nuca in una pettinatura un poco antiquata, spingevano fuori dal profilo il naso, che aveva preso dalla madre, troppo lungo, troppo appuntito, e conferivano alla sua espressione un che di duro, che la faceva apparire più adulta dei suoi diciotto anni.

    Senza una parola, col suo sguardo più severo, don Michele le porse lo scritto, e quando lei ne alzò gli occhi studiò la sua reazione. Sembrava sorpresa, anzi offesa.

    E avete pensato che sia diretto a me? disse con fare altezzoso mentre il padre la scrutava.

    In questa casa c’è una sola signorina, e sei tu.

    Vi sembra che potrei dare confidenza a uno sconosciuto? Stimate tanto poco vostra figlia?

    Lo disse con un tono tale che il padre si trovò a misurare le espressioni del biglietto con la modesta avvenenza di lei.

    Modera i modi, Amalia, e rispondimi a tono. Il biglietto è stato messo in mano al cocchiere dopo il nostro rientro.

    Lei batté le palpebre: Forse una contadina o una serva era appena entrata. Non è colpa mia se vien dato del signore o della signorina a vanvera.

    Sta bene. Voglio credere che questo biglietto non fosse indirizzato a te. Ti ricordo comunque che sei una Corvino e in questa casa è di rigore la massima serietà. Non potrò tollerare nessuna leggerezza.

    Amalia uscì dallo studio del padre, imitando l’andatura lenta e impettita della madre. Appena nella sua stanza, però, corse allo specchio. I suoi occhi percorrevano più e più volte i tratti del viso spiandovi cosa poteva aver suscitato tanta ammirazione, mentre un sorriso di pura gioia vi aleggiava beato. Era desiderata, forse amata! Non aveva osato trattenere il biglietto che le aveva mostrato il padre, ma ne ricordava ogni parola. Aveva notato quel giovane biondo correre verso il palazzo. Certo, doveva essere di condizione inferiore alla sua, ma quasi non le importava chi fosse: nel ricordo, ora, le pareva di averlo trovato bellissimo e ben vestito. Oh, avrebbe trovato il modo di parlargli. Baciò la sua immagine nello specchio immaginando di venir baciata dallo sconosciuto e al pensiero una deliziosa eccitazione le si agitò in petto. Poi pensò alle sue amiche, già impegnate in segrete schermaglie amorose, per le quali lei era sin qui divorata dall’invidia: avrebbe avuto anche lei il suo ammiratore segreto! Piroettò nella stanza, le braccia strette intorno al busto magro, poi si gettò sul letto e chiuse gli occhi cercando di ricomporre, nella memoria, il viso del giovane che aveva intravisto.

    Congedata la figlia, Michele gettò il biglietto sulla scrivania. Eh, caro Ciccio! – aveva scherzato con l’amico Francesco De Silva, vedendo la sua espressione da funerale al fidanzamento del primogenito – Quando comincia a sparare il fucile dei figli, s’inceppa il tuo. Allontanò il pensiero con fastidio. Non era questo il problema. Il suo astro non accennava a tramontare: oltre a quello nuziale, altri talami gli erano divenuti di tempo in tempo familiari, tanto che solo la sua notevole fortuna gli aveva più di una volta evitato di doverne rispondere a qualche marito preoccupato del suo onore. Seppur rischiose, però, erano state sempre, queste, scappatelle che non avevano lasciato strascichi, almeno in lui; ma forse, più o meno cosciente, un bisogno oscuro di emozioni diverse, capaci di coinvolgerlo oltre i sensi, bisogno che si era fatto via via più intenso coll’avanzare dell’età, e che ora, a quasi quarant’anni, si era mutato in una specie di nausea, uno scontento crescente per la facilità con cui otteneva le grazie delle signore che adocchiava, una nostalgia per l’ ingenuità, la contegnosa purezza della femminilità al suo primo sbocciare, che lo avevano incantato da ragazzo, prima che gli si imponesse la necessità di una scelta ragionata.

    Inconsapevole di questo sentimento informe, indefinito, confinato nel fondo ombroso del suo spirito, don Michele si accostò alla finestra, che si affacciava, da una certa distanza, sul terrazzo della casa.

    Sotto la pergola di glicine donna Sisina, nel suo abito da casa preferito - di cotone stampato, stretto al colletto con una mantellina rifinita da volant - che la faceva sembrare un enorme pasticcio di lampascioni, era intenta a mostrare il particolare di una tovaglia a un’altra figura femminile, china accanto a lei. Michele rimase a guardarla sovrappensiero, finché questa non si rialzò.

    Solo allora si ricordò che, di quando in quando, sua moglie si serviva dell’abilità nel ricamo e nel rammendo della massara di un loro parente, Cosima Pinto. Quella doveva essere la figlia, Angela, che qualche volta veniva a ritirare e consegnare il lavoro. Gli pareva di averla vista poco prima affrettarsi verso il palazzo proprio avanti alla carrozza. La fece chiamare e quando fu al suo cospetto:

    Angela - disse- forse questo biglietto è indirizzato a te.

    La ragazza non era mai entrata nel suo studio, universalmente considerato il sancta sanctorum del palazzo, e si era fermata sulla soglia a rimirarne la boiserie scura, rischiarata dalle legature color miele dei tanti volumi che vi erano scaffalati. Al sentire la sua voce emergere dalla penombra, volse il viso verso di lui. Fu allora che, fissando lo sguardo su di lei, l’uomo, per la prima volta, la vide. Angela frequentava palazzo Corvino da quando era bambina, senza che Michele l’avesse mai distinta dagli altri famigli. Ma ora essa era all’improvviso sbocciata come una rosa di maggio, e benché da tutta la sua persona trasparisse ancora l’acerbità della fanciullezza, la sua grazia possedeva già tutta la forza seduttiva della femmina adulta. Angela, però, non lo sapeva ancora. Sembrava ignorare di essere bella, non conoscere il potere evocativo della sua bocca, simile a un fico spaccato; non era consapevole della curva squisita che collegava il busto alla vita sottile, né di quanto il suo incedere potesse richiamare alla mente la leggerezza e il ritmo della danza. Michele Corvino era sempre stato molto selettivo, in fatto di fascino femminile. Diversamente da molti della sua classe, non aveva l’abitudine di prendere in considerazione le componenti femminili della servitù. Preferiva la seta alla canapa, il profumo di lavanda a quello di umanità. Ingannato dalle proprie idiosincrasie, non si rese conto di quanto la vista di lei l’avesse colpito. Ma si trovò sospinto da un impulso inspiegabile ad aggiungere: Non ti sembra di essere troppo piccola per queste cose? Lei se ne rimaneva calma davanti a lui, le mani riunite sulla gonna, senza accennare a prendere il biglietto incriminato.

    Non sono così piccola. Gli occhi continuavano a vagare per gli scaffali, la bocca sembrava compitare le scritte dei cartigli che, in alto, indicavano le diverse sezioni della biblioteca.

    Stai guardando i libri. Ti piacciono? sorrise Michele.

    Lei annuì.

    Passerei il tempo a leggere, se ne avessi.

    Davvero disse lui.

    Dei suoi figli, pensava, solo Gerardo approfittava di quella biblioteca. Amalia e Mattia sarebbero potuti rimanere analfabeti, per lo scarso interesse che le mostravano.

    Sì, don Girolamo mi lascia prendere in prestito i suoi libri.

    E quali ti piacciono di più, sentiamo, i romanzi?

    "Sì, La cugina Bette, Il cugino Pons, I promessi sposi.... Ma preferisco quelli che mi fanno viaggiare con la fantasia; o quelli che mi fan capire meglio ciò che ho imparato a scuola: don Girolamo ha una bellissima enciclopedia".

    Un’enciclopedia! Sei giudiziosa. Quando si ha la tua età, spesso si viene tentati da cose che poi, quando non si è più giovani come me, ci si accorge di quanto erano sciocche.

    Lentamente, lei volse lo sguardo sino a fissarlo su di lui. Era uno sguardo tranquillo, niente affatto provocante, però nemmeno timido, uno sguardo intenso, infantilmente riflessivo, che sembrava volerlo indagare fino in fondo, salendo dal basso sino ai suoi occhi, mentre la bocca di lei, piegata in un lieve sorriso, diceva: Ma io, veramente, vi ho sempre considerato…giovane.

    Lui la congedò con minor bruschezza di quanta ne usasse di solito, accorgendosi poi che lei non aveva trattenuto il biglietto incriminato. L’angelo col libro alla destra della Madonna della melagrana, ecco cosa gli ricordava. Non riuscì a togliersi dalla mente quello sguardo, quella frase, e continuò a sentirli premere dentro, come un seme d’uva che gli si fosse conficcato fra dente e dente.

    Capitolo II

    Notizie da lontano

    La luce del giorno già cedeva alla sera: a Occidente, l’ultimo strascico del tramonto accendeva ancora di porpora l’orizzonte, mentre, dalla parte opposta, sullo sfondo già cupo del cielo, montava una luna candidissima, quasi piena. Il venditore di petrolio, faceva sentire il suo verso: òoliepetròolie, e le donne lo chiamavano per rifornirsi. Nel tornare a casa, Angela si sentiva agitata da un sentimento confuso. Davanti a don Michele Corvino non aveva saputo dire che con quel biglietto non c’entrava nulla, e ora il pensiero che lui potesse crederla capace di incoraggiare gli approcci di uno sconosciuto la inquietava.

    Dal sabato, per potere l’indomani recarsi a Messa, i Pinto alloggiavano in una casa che si trovava alla periferia del paese, là dove questo incontrava la campagna. Si trattava di una piccola abitazione di tre stanze, disposte in verticale, cui si accedeva da una piccola scala, situata all’esterno, secondo l’uso di parecchie abitazioni del paese. Il padre di Angela, Pasquale Pinto, l’aveva in comodato da Don Girolamo Cappelli, la cui campagna ora curava, abitandovi anche, durante la settimana, nella dépendance annessa alla costruzione principale.

    Quando, anni prima, la viticoltura era stata incoraggiata con appositi programmi di istruzione, anche Pasquale e il fratello Vincenzo, nel piccolo appezzamento lasciato loro dal padre, avevano pensato di impiantare un vigneto. Era un terreno pietroso, ma era stato loro spiegato che le viti proprio di quelle pietre ricche di calcio avevano bisogno, per spingere le radici in profondità, dove si trovava l’acqua. Erano giovani e inesperti: il fallimento dell’iniziativa, per la quale avevano contratto un grosso debito, li aveva precipitati nel disastro. Non avevano potuto mantenere i loro impegni, ed erano stati costretti non solo a vendere la terra, ridotta da una malattia misteriosa a un campo di sterpi secchi, ma anche a rinunciare alla masseria che conducevano in affitto, e nella cui miglioria avevano profuso tanta fatica. Vincenzo era emigrato in America. Pasquale aveva accettato con gratitudine la mano offerta dal padrino di sua moglie, don Girolamo che, impegnato nel suo ufficio di sacerdote, aveva bisogno di qualcuno che sovraintendesse ai lavori agricoli dei suoi campi.

    Angela affrettò il passo. Passando davanti all’edicola dell’Immacolata si fece un rapido segno della croce. Giungevano sino a lei le voci dei contadini che tornavano dalla campagna, il sobbalzare di qualche carro tra lo schiocco della frusta e il comando del carrettiere. Nel silenzio della sera si poteva udire persino il trotterellare delle bestie. Una serenità indisturbata era nell’aria, in contrasto col groviglio di pensieri che la occupavano. Era andata a ritirare a palazzo Corvino la tovaglia che donna Sisina voleva affidare alle cure di sua madre. L’intaglio Richelieu aveva ceduto in qualche punto e - per fama - solo Cosima Pinto, in paese, pareva capace di un rammendo invisibile. Quel palazzo e i suoi abitanti attiravano sempre la sua fantasia e la sua ammirazione: dalla rosta del portale ove campeggiavano, in ferro battuto, le elaborate volute della C dei Corvino, all’ampia corte di pietra rosata, dagli affreschi delle volte ai grandi specchi dalle cornici dorate, ogni particolare suscitava il suo stupore e la sua curiosità, anche i modi altezzosi di donna Sisina, le mani bianchissime seminascoste dalle mitene di pizzo. Ma più di tutto ammirava il padrone di casa. Un giorno lo aveva visto balzare giù dalla carrozza e avventarsi a spezzare la verga con cui un carrettiere tormentava il suo cavallo, evidentemente sfinito, e le era rimasta impressa l’immagine elegante di quel bel signore che aveva sempre l’aria di voler prendere in giro tutto il mondo e poi non mancava dell’energia e della voglia di correggerne le storture. La reputazione di liberale, il fascino personale che gli aleggiava intorno, intrigavano la sua fantasia, nella quale i protagonisti più o meno fortunati dei suoi romanzi preferiti – come Il conte di Montecristo, letto e riletto più volte avidamente – avevano i tratti di Michele Corvino. Amalia…Era lei la destinataria del biglietto incriminato? Doveva averlo scritto quel giovane sfrontato, la testa bionda come se ne vedevano di rado, da quelle parti, la carnagione luminosa, che pareva rubata ad un neonato. Le era parso che Amalia gli sorridesse... Irritata per esser stata creduta lei capace di frascheggiare con questo e con quello, sospirò, entrando in casa.

    Il clima era insolitamente festoso: un fattorino aveva appena consegnato un telegramma, in cui si annunciava l’arrivo dal Brasile, di lì a qualche settimana, dello zio Vincenzo. Non aveva mancato di inviare regolarmente sue notizie, manifestando più volte il desiderio di rivedere il suo paese, ma rimandandone sempre la realizzazione. Ora il telegramma annunciava il suo prossimo imbarco per Napoli, di dove sarebbe giunto non appena sistemati alcuni affari.

    Angela corse ad abbracciare la madre, intenta a preparare la cena, poi il padre: Lo zio! Che bellezza, finalmente! Chissà quante cose avrà da raccontare!. Il fratello Martino, intanto, minacciava il cane di casa: A me – si vantava – ha promesso una pistola di quelle che sparano sei colpi di fila: bum, bum, bum! mentre il cane, niente affatto spaventato, gli si accucciava davanti scodinzolando.

    Cosima si divincolò dall’abbraccio schermendosi con un sorriso: Aiutami ad apparecchiare, scià… Bisogna sbrigarsi, c’è tanto da fare!

    Oh mamma! E dove lo ospiteremo? Angela si guardò intorno costernata. Erano nella stanza più grande della casa, quella nella quale la famiglia era solita intrattenersi e che parlava, meglio di qualunque descrizione, delle ristrettezze in cui viveva. In uno degli angoli meno visibili per chi entrava, era sistemato il focolare, sormontato da un’ampia cappa, con ai fianchi due panconi di rovere, che accoglievano i familiari presso la fiamma, nelle sere d’inverno; in mezzo al focolare pendeva dalla catena un gran paiolo di rame, e sul bordo della cappa s’allineavano le spezie più usate: la treccia delle cipolle, quella dell’aglio, i mazzi di rosmarino e di origano, mentre le suppellettili da cucina erano appese a chiodi infissi in una cornice di legno assicurata ad una delle pareti laterali. Il centro della stanza era occupato da un gran tavolo, sul quale faceva bella mostra di sé un piccolo centro di pizzo uscito dalle mani di Cosima. Gli arnesi contadini radunati presso la porta, e le grosse bisacce che pendevano da un gancio ben in vista, sormontate dal vecchio cappellaccio di feltro, che Pasquale usava nelle giornate di pioggia e di freddo intenso, parlavano del lavoro del capofamiglia.

    Ancora più spartane erano le stanze da letto ove, in nicchie scavate nello spessore delle pareti, gli abiti potevano essere appesi ad una cordicella tesa fra due chiodi. Nella camera matrimoniale non mancava, però, un cassettone ove erano riposte le lenzuola ricamate che Cosima aveva portato in corredo, e sul quale si offriva alla devozione degli occupanti, protetta da una campana di vetro, una piccola statua della Vergine del Carmelo, tutta stretta nella sua veste preziosa.

    Tuo zio ed io - interloquì Pasquale entrando a quel punto - siamo stati educati a non avere tanti grilli per la testa. Martino gli lascerà la sua stanza e dormirà nella nostra.

    E poi noi non saremo qui, saremo alla Madonnella aggiunse Cosima con un sospiro: Don Girolamo, lo sai, non si vuole ritirare in paese mai, e siamo a maggio!

    Capitolo III

    Una domenica

    L’indomani, domenica, tutti si apprestarono ad andare in chiesa. Quella frequentata dai Corvino, a ridosso del palazzo di famiglia quasi come una sua cappella era, come quello, situata in uno dei punti più alti e centrali del paese. Benché non avesse potuto giovarsi dell’occhio di un vero architetto, la facciata in pietra viva, ingentilita da qualche mezza colonna e dalle statue che raffiguravano la Vergine coi santi Benedetto e Domenico, così come l’interno, misurato e raccolto, non mancavano di una loro ruvida armonia.

    La Messa non era ancora annunziata, ma già diversi fedeli avevano preso posto. I sacerdoti, sebbene dovessero trovarsi per l’Ufficio fin dalle otto, dopo mezz’ora se ne venivano ancora senza fretta, parecchi dalla campagna, restii a sottostare all’obbligo d’un orario: per primo don Girolamo Cappelli, poi la pancia di don Raimondo Gaudenzi, rispettabile quanto il suo appetito, quindi don Nicola Porcelli, con la sua immancabile tabacchiera in mano, e don Giovanni Fontana, annunciato quando ancora era fuori della chiesa dallo scroscio potente del suo riso. Su tutti poi spiccava la figura caratteristica di padre Ignazio, che non si sa veramente perché gli avessero affibbiato quell’appellativo di padre, non avendo lui mai indossato la cocolla monacale, che dava diritto a quel titolo, a meno che questo non volesse alludere ironicamente al suo passato avventuroso di uomo insofferente, all’apparenza, di ogni laccio e di ogni regola.

    Scambiati i saluti con i presenti, ciascuno si recava presso il proprio cassettone, posava cappello e zimarra e indossava cotta e mozzetta, più o meno raggrinzite, trattenendosi a conversare in mezzo agli altri, ora accennando alla produzione dell’uva, un poco compromessa dalla peronospora, ora alla piaga della mosca olearia, che quell’anno angustiava i sonni di più di un agricoltore.

    Quindi andavano a prendere posto negli stalli del coro, unendo alle altre le proprie tonalità vocali, in modo vario e non sempre concorde, nella salmodia dell’Ufficio. Finito il quale venne fuori, per la Messa, l’arciprete assistito dai due ministri: un prete alto e un altro più giovane, la cui voce in falsetto era in contrasto con quella del compagno.

    Fra gli uomini che restavano sul fondo, in piedi, sulla soglia della chiesa, o appena fuori di essa, il cappello in mano, Alberto Rinaldi, sul viso l’espressione d’una partecipazione composta, volgeva intorno uno sguardo circolare, uno di quegli sguardi che, come il faro di un porto, scandagliavano la marea delle donne, velate di nero, sedute all’interno. Al loro banco, in prima fila, scorse donna Eudossia e i ragazzi Corvino. Il più grande aveva già l’atteggiamento fiero del padre, di cui aveva ereditato i tratti; il più giovane si agitava irrequieto, mentre la madre, sommersa da uno scialle di seta più grande di lei, si volgeva a riprenderlo con evidente impazienza. Ed eccola là, la sua preda: si accomodava le pieghe dell’abito, lanciando intorno occhiate furtive. Non temere, non temere, rise fra sé il giovane, non ti sfuggo.

    Sapeva d’essere attraente: dote decisiva per chi, venendo come lui da una famiglia di piccoli commercianti, aveva studiato grazie alla benevolenza del parroco. Dopo la laurea a Napoli, aveva accettato un posto di segretario presso il notaio di quella piccola cittadina, perché – come aveva appreso casualmente – abitata da diverse famiglie benestanti, fra le quali si riprometteva di pescare una buona dote. Non sperava di far colpo proprio sul boccone più prelibato: la giovane Corvino. Egli, d’altronde, aveva un’eccellente opinione di sé: dopotutto, era riuscito, nonostante gli scarsi mezzi della famiglia, ad avanzare negli studi, superando qualsiasi difficoltà, per laurearsi in legge. Oh, lui sapeva tener dietro a quello che giudicava utile, senza lasciarsi distogliere da nulla. Di amici ne aveva pochi, e li aveva scelti tra coloro che promettevano di poter essere sicuro appiglio per la sua ascesa, come Gerardo Corvino, cui s’era appiccicato come una zecca. Chi fosse, lo aveva saputo dall’altro suo amico, Pietrino Balzacchelli, che di Tramontano sapeva tutto.

    Alberto era consapevole di dover procedere con cautela, dominando la propria irruenza e quel desiderio represso di avventura amorosa che poteva giocargli un brutto tiro in un posto come quello. Per questo, aveva cercato di adeguarsi in tutto alle usanze del luogo, benché frequentare la chiesa non lo allettasse affatto. Ma gli avevano detto che donna Sisina sembrava afflitta da una vera ossessione religiosa, al punto che la chiesa era divenuta la sua dimora abituale, dove trascorreva gran parte della giornata, altrimenti vuota; sicché anche lui vi si doveva far vedere, per non dare di sé una cattiva impressione.

    Subito appresso i banchi dei notabili della cittadina si affollavano le beatelle, come venivano chiamate lì, vestite di nero, con in testa un velo o una sciarpa dello stesso colore. Inginocchiate negli angoli nascosti delle cappelle laterali, recitavano le loro preghiere nel latino storpiato che avevano imparato a memoria: erano perlopiù anziane, ma non mancavano anche le giovani che avevano passato l’età adatta per il matrimonio. Un’accolita di donnette, pensava Alberto con disprezzo, refrattaria anche ai richiami dell’autorità ecclesiastica: la loro doveva essere una specie di malattia. Ma alla giovane Corvino avrebbe pensato lui: se lo avesse sposato avrebbe ben dovuto obbedirgli. Ecco che, fingendo di allineare la sedia dietro di sé, allungava lo sguardo fino all’ingresso e gli rivolgeva un chiaro sorriso d’intesa. Sembrava intimamente eccitata dal proprio ardire, ma anche deliziata dalla certezza che lui si era accorto del suo sorriso. Sarebbe rimasta in attesa della sua prossima mossa, e di certo non ne avrebbe fatto parola con nessuno: oh, sì, vorrà assaporare fino in fondo l’emozione che le offro, pensò, senza che sua madre o – peggio – suo padre le facciano ombra con le loro obiezioni.

    Diversi preti nel coro, intanto, recitavano meccanicamente l’ufficio, mentre Benedetto, il sagrestano, si dava da fare, reggendo in una mano l’accenditoio e porgendo con l’altra qualche sedia a questa ed a quella, dietro il compenso di una moneta, facendo apparire e scomparire, fra gli astanti, la rosea rotondità della sua calvizie.

    Dopo il Vangelo, l’arciprete pronunziò la consueta omelia. Ma poiché andava per le lunghe, uno dei preti, cui forse il pensiero della campagna interessava assai più delle sue parole, diede alcuni colpi di campanella in sacrestia, per suggerire al suo superiore di affrettarsi. A questo atteggiamento irrispettoso, che non andava al di là di una obbedienza formale, l’arciprete, un uomo colto e alquanto avanzato negli anni, rispondeva con una inalterabile pazienza, la stessa che opponeva alle pletoriche confessioni di donna Sisina, il volto sempre atteggiato a una maschera di mestizia, dovuta forse, più che ai malanni dell’età non giovanissima, alla seccatura ininterrotta del pietismo femminile, che lo prendeva d’assalto come uno stuolo di vespe attorno a una polla d’acqua, durante la calura estiva.

    Ed ecco, Alberto vide entrare in tutta fretta in chiesa, insieme alla madre, la giovane che lo aveva colpito ieri, mentre correva appresso alla carrozza dei Corvino. Gli abiti mostravano eloquentemente che la famiglia non doveva nuotare nell’oro, ma non riuscivano a celare un corpo fatto per la gioia di un uomo. Nel guardarla, lui si accorse di quanto lei risvegliasse i suoi sensi, proprio mentre l’assembramento si apriva all’arrivo di Michele Corvino, che si diresse verso i suoi familiari, rivolgendo lievi cenni del capo ai conoscenti. Asciutto, impeccabile nella sua redingote grigio chiaro, aperta sul panciotto ben teso sulla camicia, un plastron di seta scura a stringergli il colletto, che ne ricadeva con due punte perfettamente simmetriche, lo sguardo ove l’acume dell’osservatore vinceva la pur evidente sprezzatura, la sua vista suscitava sempre in lui un sentimento rancoroso di emulazione. Mentre passava, Rinaldi temette che potesse aver notato lo sguardo sfacciato che aveva posato sulla giovane popolana. Quello doveva essere uomo da prendere con le molle. Ma infine! Come poteva biasimarlo se si lucidava gli occhi!

    Uscendo dalla chiesa, alla fine del rito, Amalia finse di inciampare lasciando cadere un fazzoletto di trine. Alberto fu lesto a raccoglierlo: Scusate signorina, credo che questo sia vostro e così dicendo le porgeva, insieme al fazzoletto, un nuovo biglietto:

    "Sarò sotto il vostro balcone stanotte, a sospirare per voi".

    Quando, a sera, si diffusero nell’aria le note di un mandolino, lei si affrettò ad affacciarsi. Una discreta voce tenorile cantava un motivo ammaliante:

    Ah! Che bell’aria fresca...

    Ch’addora ‘e malvarosa...

    E tu durmienno staje,

    ‘ncopp’a sti ffronne ‘e rosa!

    Tremante come un nugolo di farfalle, lei indicò, a cenni, dove potevano incontrarsi, e vi si recò in fretta, cercando di eludere la sorveglianza di Giannina, la vecchia domestica di casa, e la sua perenne esortazione: Signorina! Levatevi da dietro i lastri! che si faceva interprete delle esigenze di decoro della madre.

    Sul retro di palazzo Corvino le alte mura di un giardino erano interrotte da un certo numero di aperture ovoidali. Affacciata a una di esse quanto lo consentiva la grata di ferro battuto da cui erano protette, Amalia rivolse il suo sguardo più dolce al giovane, che si affrettò a prenderle le mani:

    Spero che il vostro cuore non sia freddo come codeste manine.

    Lei scoteva il capo senza riuscire a superare l’emozione e il timore d’esser scoperta.

    Perché il mio è in fiamme aggiunse lui, e riprese a canticchiare:

    "...e chiste trezze nere

    me mettene ‘nto core

    mille male penziere".

    Lei si lasciò attrarre verso la grata sinché il suo viso incontrò a un tempo la durezza delle sbarre e la morbidezza della bocca di lui, che si attaccò alla sua regalandole l’emozione violenta del primo bacio.

    Dunque anche voi non siete indifferente al mio amore! Ah, m’avete fatto l’uomo più felice del mondo! Cosa devo fare per avervi per sempre?

    Questa volta fu lei a chiudergli la bocca con la sua.

    Capitolo IV

    Il mediatore

    Dopo il desinare, Pasquale si recò, come sempre, alla cantina dove erano soliti radunarsi i suoi conoscenti. Distante non più di cinquecento metri dalla casa dei Pinto, vi si accedeva attraverso un dedalo di viuzze tortuose, spesso a notevole pendenza, scaglionate nel mezzo, e così strette da permettere appena il passaggio a piccoli carretti a mano. Era questa la parte più antica del paese ove, disposte in pittoresca asimmetria, le case - basse e molto modeste - per guadagnare spazio all’interno, avevano i primi gradini sulla strada.

    Dopo qualche minuto di cammino, Pasquale riconobbe il locale dalla frasca che pendeva sulla porta. Sollevato un velo che faceva da tenda, vi entrò.

    Il locale risuonava di voci che subito presero a chiamarlo da più parti per invitarlo a bere in compagnia.

    Ueh, Pasquà! vieni qua, vieni. Vieniti a bere un bicchiere!.

    Pasquale, che da quando aveva dovuto vendere la vigna indulgeva anche troppo nel bere, non era solito sottrarsi agli inviti, e se ne andò, di conoscente in conoscente, sino a quando, seduto in un angolo, scorse Giovanni Lomastro, sensale e faccendiere in compra-vendite di terreni e fabbricati. Sempre ammiccante, gli occhi scaltri, Lomastro era un uomo sulla sessantina, basso e tarchiato, il volto ornato di fedine lunghe alla borbonica, con i lobi degli orecchi ornati, secondo l’uso popolare, da cerchietti d’oro.

    Nel vedere Pasquale, gli rivolse un clamoroso saluto, battendo col palmo della destra sul tavolo, presso il quale sedeva con i tre amici, tutti intenti ad uno scopone.

    Bravo! Proprio a te volevo, che mi porti fortuna. Fammi prendere qua, ah! E intanto, con un dieci di bastoni si assicurava il settebello, finito sul tavolo insieme ad un provvido tre di coppe. Finita la partita, mentre gli altri si alzavano, trattenne Pasquale:

    E resta a berti un bicchiere col tuo compare, avanti!.

    Così dicendo, sapeva di appropriarsi di un titolo che a rigore sarebbe appartenuto a un ascendente familiare, o a chi si fosse preso l’impegno di far da padrino o madrina di battesimo o di cresima; ma da quando Pasquale aveva dovuto disfarsi della sua terra, sembrava che provasse un piacere sadico a parlargli di acquisti e vendite fuori della sua portata, con l’aria di volerne mettere a parte lui prima di altri.

    Meh, Pasquà, in questi giorni ho per le mani un affare! Sai la masseria Stracciacappa, quella che si vendette don Peppino, lo zio di don Michele Corvino, con un pezzo del bosco di Macchione, proprio fra la vigna che avevi e la casina di Don Girolamo. Ma già – si diede una manata sulla fronte – non l’avete avuta in affitto tu e tuo fratello? Beh, sono andato a vederla proprio stamattina. Ah, chi l’acquista potrà davvero dirsi l’uomo più fortunato del mondo. Che terra! – agitava la destra in aria e intanto spiava lo sconcerto sul viso di Pasquale - Peccato che dovesti cedere la tua là vicino. Il grano quest’anno ha reso sino al sedici. E gli olivi! Sembra di stare alla marina! Sono duecentocinquanta tomoli di seminativo, più un oliveto, un bel fabbricato con tutti i comodi e il bosco…Anche se il proprietario ne ha tagliato una parte, resta sempre un bel bosco, e non sono molti quelli rimasti, nella zona.

    Pasquale lo stava a sentire con l’aria di uno che ha ricevuto un pugno nello stomaco. Proprio poco oltre quel bosco si trovava un tempo la sua proprietà: scomparsi da tempo i vincoli all’uso del suolo, fidando nelle leggi forestali sempre più liberiste e nelle prospettive di guadagno della viticoltura, lui aveva tagliato lecci e azzeruoli, corbezzoli e ornielli, filliree e ginepri, grovigli di rovi e vilucchi d’edera. Col fratello Vincenzo, aveva spietrato quella terra metro per metro, piantato le sue barbatelle ad una ad una, le aveva viste diventare belle viti rigogliose e poi aveva assistito impotente al loro disseccarsi. A nulla era servito aver frequentato il corso della cantina sperimentale di Barletta, né alcun suggerimento utile era arrivato dalla commissione incaricata di esaminare i vigneti dell’Italia meridionale, che pure avevano interpellato disperati. Alla fine, la loro proprietà se l’erano comprata per un tozzo di pane i fratellastri, Domenico e Bernardo Balzacchelli. Non la voleva nessuno. Nessuno credeva che la vigna si fosse ammalata. Tutti dicevano che era la terra ad essere inadatta ad esser coltivata.

    La masseria Stracciacappa! esclamò con voce strozzata, mentre l’altro si godeva l’effetto della rivelazione. Per anni, l’acquisto di quella masseria era stato il sogno che aveva condiviso con il fratello: Cosima non sarebbe stata più la moglie di un affittuario, ma di un possidente! Ma il sogno non s’era avverato, anzi dalla condizione di piccolo proprietario lui era retrocesso a quella di contadino. Sua moglie, certo, si era rimboccata le maniche: era una stimata levatrice e aveva messo a frutto l’arte del ricamo e del rammendo imparata da bambina, quando era andata a scuola dalle suore; però, se lei non se ne lagnava, lui ne provava un cruccio che non gli dava pace e solo il vino riusciva ad attenuare.

    La masseria Stracciacappa…Credevo fosse già passata di mano.

    Eh sì, t’avranno detto che se la prese uno di Alberobello, è vero. Ma ora la vuole vendere. Fa gola a molti sai, però quello tiene duro: chiede trecentomila lire, e non avrebbe tutti i torti, intendiamoci. Sai chi già si mostra interessato? Domenico, il tuo fratellastro, ma offre troppo poco…io gliel’ho detto: almeno duecentosettanta, se no nemmeno Lomastro può fare miracoli....

    I Balzacchelli…! Mentre, sotto gli occhi del sensale, sul suo viso passava la traccia di un’emozione impossibile da nascondere, Pasquale si ricordò, in un tumulto disordinato, che in una delle sue ultime lettere suo fratello gli aveva accennato alla possibilità di acquistare della terra nel suo paese d’origine: forse, il suo arrivo capitava proprio a proposito.

    Capitolo V

    I Vacchelli

    Il 17 maggio, in occasione dell’onomastico di Eudossia, si recò in visita a palazzo Corvino la famiglia Vacchelli. Ricco possidente, don Bonifacio Vacchelli si trovava, se non nella cerchia degli intimi, certo in quella degli amici. Nella mezza età, sia lui sia la moglie donna Pasqua, così come i figli Vito, Giulia e Rosetta - disposti lungo la scala degli anni, dai venticinque ai diciassette - rivelavano nei modi la flemma compassata delle persone avvezze a una vita senza scosse. In particolare, il giovane Vito sembrava mancare del tutto di aspirazioni, perfino di quella di rendersi interessante agli occhi dell’altro sesso. Di recente, Bonifacio e Pasqua Vacchelli andavano frequentando la casa di don Michele con una assiduità fino allora insolita. Amalia intuiva che dovevano avere qualche mira su di lei, ma non vi voleva dedicare uno solo dei suoi pensieri, anche perché questi erano ormai occupati dall’immagine più seducente di Alberto Rinaldi. Purtuttavia, vide sua madre mostrarsi ben lieta di rivedere gli amici, accoglierli con ogni riguardo, e profondersi in premurose cortesie. Dovette anche sorbirsi gli esagerati complimenti che i due coniugi ebbero per lei, e sedere accanto al giovane Vacchelli, con il quale tentò invano di intrattenere una parvenza di conversazione:

    Sembra che quest’anno vogliano invitare Caruso al nostro teatro di Tramontano. Mi sarebbe tanto piaciuto assistere alla inaugurazione del Petruzzelli, ma si disse che era troppo freddo.

    Andare fino a Bari? Per carità. E poi a teatro, sapete, si fa troppo tardi. No, no, sempre meglio non perdere il sonno.

    Amalia lanciò un’occhiata esasperata alla madre, ma donna Sisina sembrava accogliere come oro colato quel poco che usciva dalle labbra di quel nato vecchio e annuiva, nella maniera più cerimoniosa, alle sue affermazioni. E mentre di solito, in presenza di altri giovani, non staccava mai gli occhi da sua figlia, era invece

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