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Il cielo per Roma
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E-book222 pagine3 ore

Il cielo per Roma

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Info su questo ebook

L’anima pellegrina di Sinesio, antico filosofo e discepolo innamorato di Ipazia, trasmigra nel corpo stanco di Chiaffredo Buffaldieci Guastella, avvocato romano. Ha una missione da compiere, assegnata dalle “alte sfere”: indagare sul conflitto che sconquassa la Chiesa, divisa fra due papi, il rivoluzionario e in carica Materno I e il tradizionalista e dimissionario Gregorio XVII. Chi dei due è l’Anticristo?

Il libro in breve
Sinesio/Chiaffredo, incalzato dai ricordi, approda in una Roma contemporanea sacra e profana, diurna e notturna, centrale e periferica, turbata da uno strano morbo: il mondo intero ne è devastato, un contagio crudele che segna il tempo attuale e a cui sembra arduo opporre un rimedio. Fra avventure e riflessioni condotte sul filo dell’ironia, si troverà alle prese con uno sciupacchiato Mefisto/Orson, che desidera ingaggiarlo e indurlo al doppio gioco, con la salvifica Matilda, un angelo diventato donna, con il predicatore Benício Aparecido Pereira Rodrigues, al secolo Emidio Panaccione, a cui qualcuno ha voluto chiudere la bocca per sempre.
Le metamorfosi non riguardano soltanto lo scenario e l’epoca, ma anche lo stile, il linguaggio dal carattere baldanzoso e indipendente, passando dal comune al bizzarro, da una logica scrupolosa all’assoluto della fantasia. Tutto sembra dare ragione, in questo libro, alla frase del Chisciotte di Cervantes per la quale: “Purché sia vera, non c’è storia che sia cattiva”. Vera nel senso dell’arte e dell’invenzione, naturalmente…
Con una scrittura ricca, preziosa e avvolgente Bàino scrive un nuovo capitolo della collana quisiscrivemale, dedicata “ai pochi coltivatori di prose rimasti”.
LinguaItaliano
Data di uscita28 apr 2022
ISBN9788831461429
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    Il cielo per Roma - Mariano Bàino

    Mariano Bàino

    Il cielo per Roma

    IL CIELO PER ROMA

    di Mariano Bàino

    Collana quisiscrivemale

    © ²⁰²¹ – Exòrma Edizioni

    Via Fabrizio Luscino 86 – Roma Tutti i diritti riservati www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    immagine 1

    UUID: 11bbfa9e-ab83-4510-91fd-71afaca19909

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    UNO

    DUE

    TRE

    QUATTRO

    CINQUE

    SEI

    SETTE

    OTTO

    NOVE

    DIECI

    UNDICI

    DODICI

    TREDICI

    QUATTORDICI

    QUINDICI

    SEDICI

    DICIASSETTE

    DICIOTTO

    quisiscrivemale

    Noi siamo diventati un teatro per il secolo,

    gli angeli e gli uomini.

    Paolo, 1 Cor. 4, 9

    Purché sia vera, non c’è storia che sia cattiva.

    Miguel de Cervantes,

    Don Chisciotte della Mancia

    UNO

    Chiamatemi Chiaffredo. Ma non chiedetemi il perché. Non ora almeno, non subito. Posso solo anticipare che sono un tipo strano, sì, anche più strano di questo nome, ma il difficile è spiegarvi per quali ragioni. Il difficile è spiegarvi l’ambaradan in cui mi sono trovato e ancora mi trovo, e in cui peraltro anche voi vi trovate. Ma calma, vi prego, sono un tipo lento, di una lentezza, come a volte dite voi, dell’altro mondo. Sono infatti un trapassato. Anzi, un tratrapassato, se la mettiamo nei ter mini di chi viene prima e di chi viene dopo, se vogliamo usare le coordinate del tempo come voi lo conoscete.

    Se fosse solo per me, avvierei questa cronaca veritiera da una colpa da scontare, la mia colpa, massima, infinitamente dannevole, ma per non far impazzire subito l’ago della bussola di questa storia occorre iniziare come da un’inquadratura, un’immagine, una sorta di ripresa in un film. Perché? Ma per venire incontro a voi, figli del cinema e della tivù, e per trasferire nella pratica gli aggiornamenti che ho ricevuto sul mondo come è oggi mentre ero in un altro sistema di mondi. Proviamo dunque a partire dalla botta improvvisa e tremenda che ho sperimentato allorché il cielo e le stelle che vedete voi hanno preso a essere gli stessi visti di nuovo da me. Non saprei dirvi, al riguardo, se cielo e stelle della città di Dio siano gli stessi che si vedono dalla città degli uomini, se lassù insomma si vede lo stesso cielo ma dall’altra parte, se c’è o meno una sfasatura rispetto a chi lo vede prima o dopo. Su come avvenga il passaggio fra mondo celeste e mondo terreno, non ci provo nemmeno a spiegarlo. Non ci riuscirei mai, perché nulla di preciso ci ho capito. Dico solo che il trapasso inverso mi era stato annunciato, dirò poi da chi, come imminente, e per il quale occorreva solo muovere le ali, come fa con animo scarico ogni angelo di qualsiasi tipo e gerarchia. Avevo pur ricordato a chi di dovere che io ali non ne avevo, angelo non ero, non ancora: ero un progetto di angelo, ancora bisognevole di purificazione e lavande spirituali, di eoni ed eoni di tempo (insomma di un bel mucchio di secoli, per capirci). La mia fase era ancora quella della meditazione in un apposito spazio, tesa a liberare lo spirito dai gravami della materia, il cui callo, nel caso mio, riguardava tante cose, fra cui, come dire?, la pancia (un po’ più giù, via, ché il mio tormento, da vivo, era il demone meridiano, il diavolo che ti tenta dal basso, assumendo forma di donna). Il desiderio, via, per quanto parallelo a una certa propensione meditativa.

    A chi di dovere avevo anche ricordato, e non per fare l’inghippatore, che la classe degli angeli nuovi, quella proveniente dalle schiere delle anime umane, è la più bassa e la meno provveduta, a fronte del compito che mi si voleva affidare. E di cui vi dirò, se nel frattempo non sarà impazzito, come mi pare stia già accadendo, l’ago della bussola di questa storia. Comunque, il primo battito d’ali, se devo chiamare ali quelle piccole chele schiacciate che mi erano spuntate di colpo dopo il colloquio con Kontrollo (ne parleremo, eh!?), era stato piuttosto fluido, mi ero spostato in diagonale nell’aria gialla del mio spazio meditativo e poi, tuffandomi nel nulla fuori di lì, senza nulla vedere, insieme alla spinta delle ali ho sentito che passavo oltre un confine invisibile. Una cosa semplice, semplice. Nessun varco. Nessuna porta. Nessun albore. Assenza di ogni suono biblico, di una voce ispirata, un ansito, che so, di Samuele, Tobia, Giobbe, un proverbio dei Maccabei, un fruscìo dal Qohelet, una nota di Baruc, Ezechiele, Giona, Zaccaria… Nulla! E subito la botta, come prima ho accennato. E che botta! Chi se la scorda!? Il mio nuovo corpo, appena assegnatomi per divino decreto, già spiaccicato su qualcosa di sfericamente omicida. Appena reincarnato e già malconcio su quella palla che a voi, da lontano, sembra piccola, piccola, ma tale non è, anzi potrebbe tenere in sé una ventina di cristiani, tutta di bronzo e ricoperta d’oro, lì in cima alla cupola di San Pietro, sotto la croce. Da cosa avevo capito dove mi trovavo? Bah, potrei dire che l’ho saputo da subito, per una misteriosa irradiazione; potrei dire che mi sono reso conto appena ho toccato terra, prima ancora di rotolare fra gli scorci marmorei della piazza; potrei dire quando quella macchina teatrale del ritorno al cielo, la celeste macchina che è appunto la croce, incombendo su di me dalla sfera e attraversando il mio sguardo, si è fatta schiacciatura insostenibile dritta sull’anima e sulla prima vertebra cervicale, che connette il cranio alla colonna vertebrale. Scegliete pure fra la risposta uno, due o tre, ma in fretta, per favore: le cose qui sono già ingarbugliate abbastanza per conto loro, mancano solo le vostre bubbole d’indecisione: dovrei… ma no… non parto… non resto… che avrei nel partire… che avrei nel restare… Quasi quasi, mentre voi indugiate nel semicupio stagnante dell’incertezza, io me ne torno con la mente al puntino che ero, lì sulla palla della cupola michelangiolesca, sotto la luna in corsa, sotto un cielo che era una pappa di luna piena disciolta nello spazio pallido.

    Avevo il problema di girarmi, come voi dite per il calciatore stretto all’angolo e con le spalle rivolte al terreno di gioco.Attaccato alla palla solo grazie alla collosità dei miei umori, al sangue che perdevo dal naso e dalle mani, sentivo che fra qualche attimo sarei uscito fuori dalla legge dell’equilibrio, prossimo spettatore della mia stessa caduta. Ma mi orripilava l’idea di cadere all’indietro. Né le mie mani avide potevano sperare in un appiglio dell’ultimo istante. Epperò, sentivo che il pericolo mi proteggeva, mi nobilitava, anche se ero assolutamente atterrito dal vuoto. Ma chi era effettivamente atterrito, la mia anima o il mio corpo? E che corpo avevo? Mi sembrava, ma diciamo pure ero certo, che il corpo prigioniero in quel brandello di spazio, lì sulla palla sormontante la cupola, non fosse il mio, il mio di come ero stato a suo tempo, e nondimeno lo sentivo combattere, allo stremo delle forze, contro misteriosi elementi; contro una vertigine dai molteplici lati; contro un cupo desiderio di ritrovare terra.

    Il panico mi soffocava. La superficie della palla era sempre più gelida. Sentivo urlare dentro di me. Frattanto, turbinava vicino alla mia testa la sagoma nera e stravagante di un pipistrello, vorticava su sé stessa, ruotava e ruotava, a ogni zigzag la sua presenza era più palpitante, sembrava cercare nel plenilunio una feritoia, un passaggio che la risucchiasse.

    Almeno col cuore dovevo volare.Vivo di nuovo, e, lo sentivo, di nuovo mortale ed effimero, dovevo volare, portare la mia imprecisa essenza, la mia mediana condizione a non avere più coscienza del suolo. Come un uccello. Come un arcangelo dall’assoluta spiritualità. Con le braccia completamente allargate, devo avere qualcosa – mi spronavo – almeno qualcosa dell’angelo. O angelo o sfracellato. Dovevo riconoscermi invincibile. Con umiltà, ma invincibile. Come un’aquila dallo sguardo folle che stringe nelle pupille un lampo sfrecciante.

    Palpavo il vuoto, mentre il pavimento della piazza non era più allo stesso livello, ma ancora più in basso. Ho dato di aluzze, poco più di due braccia spalancate. Non sapendo bene verso dove, e all’indietro, ho disteso le chele accartocciate. Sfiorato con un calcagno uno di quei pilastrini più in basso della sfera dorata, così somiglianti a esili funghi o a pedoni degli scacchi. Sfiorato con la spalla, o forse con l’aluccia, l’obelisco al centro della piazza.Tutto questo percepito in modo indistinto, con grosse macchie che galleggiavano davanti agli occhi. Sia come sia, l’istinto, e qualcosa che istinto non era, si stavano intrecciando, tracimavano l’uno nell’altro, nella spinta del mio volo al rovescio, sgrammaticato. Piombavo dall’alto del mio mistero aerodinamico come una cascata sul mare. Col culo per terra. Slombato, lungo disteso sul pavimento a cubetti di porfido che chiamate sampietrini, dopo due o tre sobbalzi leggevo dal basso verso l’alto, alla base dell’obelisco:

    eccecruxdomini. fvgite

    partes adversae.

    vicit leo detribv ivda.

    Avevo preso terra sul lato di levante, come potevo desumere da una mattonella sull’impiantito, che riportava anche il nome del vento che spira da quel lato, lo scirocco. Alzatomi, non vedevo l’ora di lasciare la piazza, impaurito dalle forti luci artificiali che i miei occhi sperimentavano per la prima volta; dalla grandiosità del colonnato; dalla sensazione che potessero ben presto piombare su di me sentinelle e custodi.

    Un ultimo sguardo alla cupola, il cui slancio mi sembrava mozzato dalla facciata, quadrata come quella di un palazzo, ed ero in movimento, anche se acciaccato.

    Solo, impaurito dalla mia missione, seguivo i miei stessi passi. Le ali, recline, già quasi rotte nella caduta, le sentivo come sotto l’azione di una roncola invisibile, tagliate via come erbacce. Ho alzato gli occhi al cielo, che adesso era in preda al movimento: intere greggi di nuvole galoppavano scompigliate, il candore degli orli luminosi, il nero delle masse, tutto galoppava sotto la luna che scorreva anch’essa, emergeva, scivolava, si oscurava, si spegneva e rispuntava immacolata. Il cielo era come pervaso da due moti contrari, uno impetuoso e uno tranquillo. Camminavo lentamente, verso dove le gambe mi portavano.

    Il monumentale portone del palazzo del Santo Uffizio, nella piazza omonima, si è aperto mentre passavo di là, mentre avanzavo al centro di quello spazio. Brivido. Anche per me si è aperto il Santo Uffizio, ho pensato, con una risaticcia sul volto. Una lunga automobile nera ne usciva.

    Dopo un po’ ero sotto un altro portone, più piccolo e neutro. Cercavo un nome sul citofono, e le chiavi nelle tasche del soprabito scuro che mi rivestiva. Prima di entrare, mi sono accorto del prosperoso topo spuntato da sotto un cassonetto della spazzatura, dal pelo lungo, oltremodo lungo, da ratto persiano. Poi l’ascensore. Sul pianerottolo del terzo piano una porta lucida e un’etichetta d’ottone intestata a Chiaffredo Buffaldieci Guastella, avvocato.

    DUE

    L’avvocato Chiaffredo Buffaldieci Guastella ha i piedi piccoli. Ci inciampo continuamente. Per meglio dire, aveva i piedi piccoli. Mentre a me le forze divine davano una spinta per volare quaggiù, a lui si spegneva lo switch dell’esserci, l’interruttore della vita. Solitamente, quando la morte si fa viva, l’anima sgombera il corpo, che rimane lì inerte, e qualcuno provvede a un interramento o, con altra usanza, a un attuccio ustorio. Ma dibattere ora su questi diversi modi di trattare una salma sarebbe un di scorso assai devio. Dirò soltanto che il soma avvocatesco, chissà come, è rimbalzato su nelle fasce alte dei cieli, ma senza l’anima, che se n’è andata per suo conto dove do veva e di cui nulla so. Rimbalzato, come un salsiccione in cui la mia anima è andata a immembranarsi. Tutto molto alla svelta, perché i malèfici, gli aiutanti dell’Av versario, non si accorgessero di nulla. Mi auguro che lassù abbiano approfittato di un evento mortale in con comitanza con il mio volo e la mia missione. Se così non fosse, se Chiaffredo fosse stato sacrificato per la causa ce leste, avrei un altro motivo di cruccio, oltre ai tanti conosciuti in vita, e dopo, lungo le sterminate pianure temporali del mio meditare, lì in quell’ovo cereo volitante nelle amplitudini. Le vie del Signore sono infinite, lo si sa, e misteriose, si sa anche questo, e la lotta con i malèfici è diventata spietata. Non mi meraviglio più di nulla.

    I nostri metodi, i nostri e quelli dell’Avversario, sono diventati molto simili mi ha detto Kontrollo, il capo del Katechon, l’ultima volta che ci siamo parlati. Lo rivedevo dopo secoli, era più basso di quanto lo ricordassi. Ma è meglio che il ritrattino di Kontrollo lo rimandi a dopo: mi pare già di sentire le vostre voci insofferenti che chiedono cos’è mai il Katechon. E io ho accontentato così poca gente nella vita, e dopo, che se voglio pareggiare i conti devo pur cominciare ad accontentare qualcuno; per cui vi accontento, almeno ci provo, giacché non è semplice descrivere qualcosa che appartiene all’indescrivibile. Più semplice sarebbe rifugiarsi subito nel ritrattino esteriore di Kontrollo, per quanto anche lui un’entità grandiosa e difficile da raccontare.

    Forzando di molto le cose dirò che il cielo non è solo misteri, ma anche dicasteri. Il Katechon lo considero uno dei più grossi misteri-dicasteri che se ne stanno lassù. Se, per alcuni studiosi antichi e moderni il Katechon è la Chiesa stessa, quella che sta giù sulla terra, con il suo apparato istituzionale, per altri non è chiaro chi nella storia lo incarni. Per alcuni, per dire, il Katechon è l’Impero. Nessun esegeta ne è mai davvero venuto a capo. Il Katechon ha a che fare con il tempo dell’Apo calisse, ne è una figura inevitabile, signori miei. Dico anche che come il Salvatore è apparso in forma di uomo, anche l’Anticristo si mostrerà con aspetto umano.

    Verrà, come ladro di notte, la fine delle cose. Non importa quando.Verrà, sapete come?, come la morte. E sarà morte del tempo. Il tempo sarà assorbito dalla luce come questo bicchierino di grappa lo sto assorbendo io: esperienza nuova, qui nell’appartamento dell’avvocato Buffaldieci Guastella che da adesso è il mio appartamento. Chissà se l’uva da cui proviene questo distillato è stata coltivata nella vigna dell’Ottimo Massimo o in quella dell’Avversario. Ma l’alcolico è ottimo. Dicevo dunque del Katechon… Orbene, nella Seconda lettera ai Tessalo nicesi l’apostolo Paolo o un suo seguace parla di qualcuno o di qualcosa che frena, ritarda, trattiene: una struttura contenitiva, direste voi oggi, che ritiene e rallenta, e che appunto è il Katechon. A venire ritardato è il trionfo dello Spirito del male. Il Signore non verrà se non dopo che l’opera dell’Avversario sarà compiuta. Il giorno di Gesù sarà insomma preceduto dall’Apocalisse, dal mistero dell’iniquità. La fine è decisa, sia chiaro com’è chiaro il colore del grappino che vado centellinando: folle grappino: mi fa mollemente sorridere, e tirare fuori parole che starebbero meglio non dette.

    Tra i patimenti, gli spasimi di questo tempo che è l’ultimo tempo, e che non è dato sapere quanto durerà, il Katechon è la forza che non lascia sfrenare l’Apocalisse, che in ogni caso poi si sfrenerà. Allora Gesù e l’Avversario saranno faccia a faccia, e l’Avversario sarà annien tato per la forza del soffio della bocca del Signore. No, per favore, non chiedetemi il perché di questo potere raffrenante, del suo sforzo di trattenere la comunità anticristica. Io non so tutto. E considero il Katechon come qualcosa di buio, di ambivalente. Fino a che punto è dalla parte dei giusti? Non somiglia alla nuvola, che trattiene il temporale epperò lo porta dentro di sé? Un potere che frena come fa l’argine col fiume non rende più impeperito l’impeto della corrente, una volta che l’argine stesso è saltato? Non è tale argine una parte che dà compimento al principio che intende raffrenare? E l’Anticristo, l’Avversario, che volontà ha, in fin dei conti? Ha volontà di durata o vuole autodistruggersi? È autonomo o è una marionetta agitata dalle mani di Dio? Questa muraglia continuamente costruita nasce dalla volontà di concedere alle genti di dura cervice ancora tempo per la conversione? Per arrivare alla fine del tempo avendo convertito tutta l’umanità? Ma in tal caso, come potrebbe trionfare l’Avversario? Come potrebbe accadere l’Apocalisse? E perché dovrebbe?

    Annuso la trasparenza ormai vuota di questo piccolo bicchiere, il cui contenuto non ha portato a galla nessuna verità; ha anzi rivelato qualche dubbio che ha accompagnato tutta la storia passata di un’anima. Dubbi che avevo cancellato, ma l’alcol trascura le cancellature. Quel che di certo non sapevate, ve l’ho detto prima: il Katechon non sussiste solo quaggiù, nel corpo della Chiesa (ammesso che la Chiesa sia anche Katechon); vi è chi ci lavora anche sopra il punteggiarsi delle stelle.

    Il discorso con Kontrollo proverò a riviverlo insieme con voi, e della fila di cose che sono rimaste nella mente, alcune verranno fuori, come a sbalzo, ma altre resteranno chiuse dentro di me.

    Sinesio di Cirene, ti ho fatto chiamare perché potremmo esserci… Secondo me, ci siamo. Eravamo nel suo ufficio, ed ero pronto a sorbirmi il solito finto distacco, la stessa elaborata diffidenza, la medesima pedantesca prosopopea. Dall’altra parte della sua scrivania saggiavo lo schienale basso di una seggiola di ferro, mentre davanti a lui, sul ripiano, tre o quattro cellulari neri continuamente in vibrazione si spostavano da soli come grossi scarabei punti da uno spillo. La testa di Kontrollo sembrava aperta, al posto della calotta cranica una cupoletta di cristallo, un’eterea papalina che lasciava in vista un cervello palpitante di luce. Dietro lo sfolgorio di quei gangli cerebrali, uno squadro nella parete bianca si apriva a un bagliore diverso, più intenso, che la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta. Era la profonda, chiara essenza divina, la cui apparizione dava in tre giri, tre cerchi di tre colori diversi, ma di non diversa circonferenza; due di quei giri parevano l’uno il riflesso dell’altro, come un figlio

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