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Cambio di gioco
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E-book256 pagine3 ore

Cambio di gioco

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Info su questo ebook

Ky, trentun anni, introversa e riflessiva, appassionata di filosofia orientale.

Lexi, ventisei anni, impulsiva e capricciosa, shopping dipendente.

La passione per il calcio le accomuna.

Un legame profondo le unisce.

Ma una decisione importante sta per cambiare le loro prospettive.

Tra meditazione e tacchi alti, tatuaggi e matite colorate, la storia di un sentimento potente quanto l'emozione di un gol al novantesimo.

Perché le partite si vincono anche all'ultimo minuto.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mag 2022
ISBN9791221411218
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    Anteprima del libro

    Cambio di gioco - Linda Colombo

    Ricominciare

    Avete mai guardato il mondo a testa in giù?

    Il mio maestro di yoga sosteneva che stare a gambe per aria fosse una delle posizioni di meditazione più efficaci per invertire l’effetto della forza di gravità, procurando benefici all’organismo come maggiore ossigenazione al cervello, rinforzo del sistema immunitario e riattivazione del metabolismo.

    Non sapevo né da quanto tempo né come fossi finita in quella posizione, distesa sul divano con le gambe buttate oltre lo schienale e la testa che penzolava al di là del sedile.

    Visto da quella prospettiva l’orologio appeso alla parete segnava l’una e venti.

    Avevo lasciato i Lions da sei mesi ed ero tornata a Holdstreet, il paese dei miei genitori.

    Lontana dalla frenesia della vita di calciatrice, mi sembrava che il mondo si fosse ribaltato. Avevo trascorso anni felici correndo dietro a un pallone, poi, complice un logorìo mentale che aveva messo a dura prova anche il mio fisico, bam! All’improvviso niente più fascia di capitano, compagne di squadra, vittorie, sconfitte. Niente trionfi, delusioni, vita da spogliatoio, ritiri, trasferte interminabili, interviste e tifosi che scandivano il mio nome.

    Stanca di dover dimostrare di essere sempre all’altezza e incapace di sostenere il peso delle responsabilità, avevo detto basta. Risultato? Quello per cui avevo tanto lottato ormai si trovava a quasi mille chilometri di distanza e non avevo la più pallida idea di quale sarebbe stato il mio futuro. Perso l’unico punto fermo, mi ero resa conto di aver trascurato tutto il resto; ero libera, ma libera di fare cosa? La verità era che, per quanto ne avessi sentito la necessità, chiudere con il calcio in quel modo mi aveva stravolto. Continuavo a sentirmi in un vicolo cieco, desiderosa di trovare la mia strada ma senza sapere quale direzione prendere.

    Cosa volevo fare da grande? Il tempo trascorreva veloce e quella domanda si faceva sempre più insistente.

    Gentilissima sig.ra Hanson,

    siamo lieti di comunicarle che è stata ammessa alla Scuola Internazionale di Comics e Arti Visive di Firenze.

    In quella strana posizione, a detta del maestro di yoga purificatrice e portatrice di giovamento per l’anima e il corpo, ma per me solo scomodissima, rilessi ad alta voce quella lettera almeno dieci volte, preoccupandomi di scandire bene le parole.

    «È stata ammessa.»

    Il significato era chiaro. Non ci si poteva sbagliare.

    Ero dentro.

    Ero stata ammessa.

    Ricontrollai il nome sulla busta.

    Kylie Hanson.

    Ero proprio io!

    Ecco la svolta che attendevo.

    L’amore per il disegno era nato da bambina. Insieme al calcio, matite e pastelli avevano dato un tocco di colore alla mia infanzia.

    Da piccola finivo spesso in punizione; se c’era una cosa in cui i miei genitori riuscivano benissimo era riversare su di me le frustrazioni derivate dal loro matrimonio e spedirmi in castigo per ogni sciocchezza.

    Mi vietavano di uscire, ma non mi sono mai sentita oppressa tra le quattro mura della mia camera: grazie alle tonnellate di fogli di carta che riempivo ogni giorno, mi estraniavo dalla realtà, mi perdevo in un mondo fantastico, solo mio, nel quale nessuno poteva entrare. Inventavo personaggi, storie, amici immaginari con cui parlare e se qualcosa non mi piaceva prendevo la gomma, cancellavo tutto e ricominciavo daccapo.

    Disegno e calcio, calcio e disegno, nel periodo della scuola per me non esisteva altro.

    Avevo frequentato il liceo artistico di Nestcity. La professoressa Fawcett, dai folti capelli color carota e gli occhiali alla John Lennon, grande amante dell’Impressionismo e di Freud, aveva l’abitudine di analizzare la personalità degli studenti attraverso i loro disegni, ma alla fine era stata costretta ad ammettere di non aver capito nulla di cosa mi passasse per la testa. Dribblata con una certa classe l’insegnante psicologa, avevo continuato a dedicarmi a quella passione con dedizione e costanza anche dopo il diploma. Mentre la mia carriera prendeva il volo, mi ritagliavo sempre un momento per mettere nero su bianco le mie complesse emozioni, che fosse su un album, un foglio stropicciato o un tovagliolo. Disegnare era un po’ come meditare con una matita in mano, mi aiutava a rilassare corpo e mente.

    Arrivata a Saint Leo era cambiato tutto. Per quattro anni nella mia testa erano esistiti solo i Lions. Fogli e pastelli erano finiti in fondo a un cassetto e il sogno di portare la squadra in vetta alla classifica era diventato quasi un’ossessione. Solo negli ultimi mesi, quelli più sofferti, avevo ripreso in mano le matite colorate: se il campo da calcio non era più la mia casa, il disegno sarebbe stato un rifugio temporaneo, in attesa di una sistemazione migliore e magari definitiva.

    Il giorno prima della finale persa contro le Panthers avevo mandato alcune strisce di fumetti con storie auto-conclusive alla Scuola Internazionale di Comics e Arti Visive di Firenze, uno degli istituti più prestigiosi al mondo. Non ero stata spinta dalla speranza che le mie tavole potessero essere scelte, consapevole che solo pochissime opere avrebbero superato la selezione, semplicemente non avevo niente da perdere. Nemmeno mi ricordavo della busta spedita più di sei mesi prima.

    «È stata ammessa.»

    Anche a testa in giù, quelle parole non potevano essere fraintese. L’Italia mi stava aspettando, forse sarei finalmente riuscita a rimettere ordine in quel mondo che appariva sottosopra ormai da troppo tempo.

    Prima che il senso di nausea mi facesse esplodere la testa, tornai a fatica con i piedi per terra.

    L’orologio segnava le sette meno dieci.

    Tutto stava volgendo verso una nuova normalità.

    Ci manca Ky

    «Un altro inutile pareggio!» Maria si lasciò cadere sconsolata sulla panchina dello spogliatoio. «Il quarto di fila! Perché non riusciamo più a vincere?»

    Dovrebbe essere illegale fare certe domande dopo una partita. Inoltre ero troppo impegnata a tirare a lucido le mie scarpe appena uscite da una durissima battaglia nel fango. Questione di priorità!

    «Ky!» La flebile voce di Sarah interruppe il silenzio. Tutte ci voltammo sorprese verso di lei, nel girarmi rischiai pure di scivolare e cadere.

    Che risposta ovvia! Ky mancava a ognuna di noi, eppure da quella maledetta partita contro le Panthers pronunciare il suo nome era diventato quasi un tabù. Magari non tutte avevano compreso la sua scelta, ma l’avevano rispettata. E poi a cosa sarebbe servito parlarne? Ky non c’era, dovevamo inventarci qualcos’altro per dare una svolta alla nostra stagione.

    Stazionavamo tra il quinto e il sesto posto in classifica. Nel corso del campionato avevamo giocato anche belle partite ottenendo dei risultati di tutto rispetto. I tifosi ci seguivano con entusiasmo e il Lions Stadium era quasi sempre pieno. La società si era impegnata per garantire una campagna acquisti all’altezza delle aspettative, dimostrando di non aver abbandonato il sogno della promozione in prima categoria. Le ragazze nuove si erano da subito inserite e stavano fornendo prestazioni più che discrete. Mister Holmes, oltre a mantenere un look del tutto discutibile, continuava a farci lavorare sul campo con l’entusiasmo di sempre.

    Insomma, tutto assolutamente normale. Il dopo Ky non era stato così terribile, la vita era andata avanti, però… lei mancava e la nostra classifica faceva schifo.

    Sarah arrossì. Quarantadue occhi la fissavano. Prese coraggio e continuò: «È la verità, se ci fosse Ky i nostri risultati sarebbero migliori.»

    «Sarah ha ragione!» E no, eh! Adesso ci si metteva pure Taylor. Ma non fu l’unica perché anche Ellen, Amanda e Holly corsero a sostegno della loro giovane compagna. Neanche in campo si era mai visto un gioco di squadra così perfetto.

    «Ora smettetela!» Carol si scostò da un armadietto e intervenne con decisione. «Questi sono discorsi che non stanno in piedi! Pensiamo piuttosto a cosa è mancato a ognuna di noi nelle ultime partite. Pensiamo a lavorare di più sul campo. I rimpianti non ci faranno scalare la classifica.»

    Lo spogliatoio ammutolì. La questione era chiusa.

    Mi preparai alla svelta, non vedevo l’ora di tornarmene a casa.

    Ero già nel parcheggio quando Carol mi raggiunse.

    «Lexi!» urlò, prima che salissi in auto. Da quando giocavamo insieme nei Lions le avevo rivolto la parola tre o quattro volte al massimo. «Scusami. Volevo solo chiarire quanto è successo prima.»

    Perché? C’era qualcosa da chiarire?

    «Non voglio tu possa pensare che per qualche strana ragione io ce l’abbia con Ky. So quanto ci manca e so che con lei sarebbe tutto più facile, ma lei non c’è e io non posso lasciarmi abbattere, devo continuare a incoraggiare la squadra, soprattutto in un momento difficile come questo. Se anche io mi lasciassi travolgere dai ricordi, che credibilità potrei avere di fronte alle ragazze? Lo capisci?»

    Carol aveva ereditato la fascia di capitano. Aveva avuto coraggio ad accettare. Non era un cattivo capitano, era solo completamente diversa da Ky.

    Ky parlava solo quando serviva, non faceva lunghi discorsi di incoraggiamento alle compagne, se ne stava spesso sulle sue, isolata in un mondo fatto di meditazione e filosofia orientale; ma in campo si trasformava: a volte era strafottente, non era strano vederla coinvolta in qualche rissa con le avversarie. Ma non perdeva mai il controllo. Lei era energia allo stato puro, la sentivi, e questo faceva la differenza.

    Al momento di nominare il nuovo capitano, Holmes aveva scelto Carol senza alcun dubbio. Lei si era dimostrata grata e orgogliosa del ruolo che le era stato assegnato, ma era chiaro che enormi responsabilità le sarebbero pesate sulle spalle. Tutte noi ne eravamo consapevoli, per questo nessuna le aveva fatto mancare il proprio sostegno.

    In campo Carol rispettava avversarie e arbitri, aveva sempre il sorriso sulle labbra. I suoi discorsi nello spogliatoio, probabilmente complice una laurea in Scienze della Comunicazione, erano persino più elaborati di quelli del mister. Anche se i lunghi sermoni mi avevano sempre annoiata a morte, a volte la ascoltavo volentieri. Dalle sue parole trasparivano passione e ottimismo.

    In un modo completamente differente Ky e Carol erano riuscite a ottenere la fiducia della squadra.

    Riflettendoci, Carol non era solo diversa da Ky, era proprio l’opposto. Tuttavia non avrei saputo individuare un capitano migliore per i Lions.

    Una folata di vento gelido mi fece rabbrividire.

    «Sì, lo capisco. Hai fatto quello che era giusto.» Non mi sarei aspettata un comportamento diverso da lei.

    «Grazie, Lexi. Ora mi sento sollevata.»

    Le sorrisi, poi feci per salire in auto.

    «Vi sentite?» mi chiese. «Tu e Ky, intendo.»

    Avevo apprezzato il fatto che si fosse preoccupata di darmi una spiegazione, anche se non ne vedevo il motivo, ma fino a un’ora prima stavo nuotando nel fango, nonostante la doccia sentivo ancora i capelli appiccicosi ed ero stanca. Non avevamo parlato negli ultimi tre anni, dovevamo farlo proprio ora?

    «Qualche volta» mi limitai a risponderle.

    «E non avete mai parlato di un suo possibile ritorno?»

    «No, lo sai com’è fatta. Ky non parla in generale.» Alzai le spalle, sperando mi lasciasse andare al più presto.

    «Magari potresti chiederglielo. Cioè…» Carol si strinse nel cappotto, esitante, poi proseguì: «…se lei tornasse io non avrei problemi a farmi da parte. L’hai visto anche tu, le ragazze sarebbero entusiaste, sarebbe la svolta che tanto cerchiamo.» Si fermò di nuovo, poi allungò le braccia come per stiracchiarsi. «Scusami, sto dicendo un mucchio di assurdità. A volte per superare le difficoltà vorremmo percorrere la strada più facile, schioccare le dita et voilà, volare in testa alla classifica. Ma non si può, vero?»

    Rimasi incerta sul fatto che volesse veramente una risposta.

    «Non lo so, forse i problemi vanno semplicemente affrontati.» Magari non stasera, eh?

    «Già.» Annuì. «Grazie di avermi ascoltata, Lexi. Buona serata. Io mi chiuderò in casa a meditare sui miei errori. Chissà, magari mi verrà una qualche illuminazione.» Rise, poi si allontanò canticchiando.

    Restai lì impalata a fissare il vuoto.

    All’improvviso sentii dentro di me una nostalgia profonda. Che mi stava succedendo?

    Il monologo di Carol era stato una folgorazione. Chiedere a Ky di tornare. Che idea assurda le era saltata in mente.

    Erano trascorsi sei mesi dalla sua partenza e ogni tanto ci sentivamo. Durante le nostre telefonate evitavo di parlarle dei Lions, ma le raccontavo nei minimi particolari di tutto il resto, dalle mie giornate di shopping alla mia storia con Jason fino all’ultimo film che avevo visto. Di lei, invece, sapevo poco o nulla. Non avevo idea di quello che stesse facendo a Holdstreet. Un giorno mi aveva scritto qualcosa su una torta che non stava lievitando nel modo giusto. Avevo pensato che fosse sotto l’effetto di qualche sostanza strana – ora non era libera di fare ciò che voleva? – o di qualche fungo allucinogeno che cresceva su una di quelle montagne sperdute di cui mi aveva raccontato.

    Non era la prima volta che parlavo di Ky con qualcuno o che pensavo a lei, ma in un istante mi accorsi di un fatto talmente scontato che avevo ignorato fino ad allora: Ky mi mancava. Che novità! Mancava a tutte, ma non era solo quello. Senza di lei mancava un pezzo di me, ecco qual era il punto. Era davvero così strano?

    Cercai di scrollarmi di dosso tutte quelle stupidaggini e mi misi alla guida. La strada del ritorno mi sembrò più lunga del solito. Attraversai Ice Street e passai davanti alla Torre di Diamante, la sede centrale dell’azienda di mio padre. Quel palazzo, con la facciata illuminata dalle decorazioni natalizie, dominava la città dall’alto dei suoi centocinque piani. Lì vicino, all’incrocio tra Sea Road e River Street, io e Ky avevamo scoperto una minuscola pasticceria che sfornava le brioches più buone che avessi mai assaggiato. Facevamo spesso colazione insieme prima di correre ad allenarci. Quello era uno dei momenti che preferivo.

    Scossi il capo. Non vorrai lasciarti travolgere dai ricordi proprio adesso!

    Imboccai una curva a tutta velocità, poi un’altra ancora, prima di fermarmi a fare rifornimento. Approfittai della sosta per prendere un tè caldo. Forse il mio cervello aveva preso troppo freddo e doveva solo ricaricarsi un po’.

    Su uno dei cartelloni pubblicitari appesi nei pressi della stazione di servizio si reclamizzava il grande ritorno in città del Circo Komatsov. Il circo era stato una delle mie grandi passioni sin da bambina e mio padre ogni volta che ne aveva l’occasione mi ci accompagnava. Gli acrobati mi affascinavano, così leggiadri e incuranti del pericolo. Le figure spettacolari che eseguivano mi emozionavano, ma non mancavo mai di controllare che ci fossero reti di sicurezza o qualche altro sistema di salvataggio in caso di pericolo.

    D’altra parte, avevo una paura folle di salire ai piani alti dei grattacieli o sulla cima di una montagna. La sensazione di vuoto era insopportabile e la vertigine mi annebbiava la vista, perdevo la percezione di me stessa e il cuore cominciava a battere a mille. Solo una volta con Ky…

    Smettila, Lexi.

    Mi rimisi in marcia. Le stazioni radio a quell’ora proponevano musica orribile. Ne cambiai diverse senza successo, poi spensi. Meglio il silenzio.

    Se lei tornasse…

    Riaccesi la radio. Doveva pur trasmettere qualche stupido motivo da cantare a squarciagola!

    Percorsi il vialetto di casa e fermai l’auto in garage.

    Appoggiai la fronte sul volante; quel groviglio di pensieri continuava a martellarmi in testa.

    Ky ha scelto di andare via.

    Devo rispettare la sua decisione.

    Fine della discussione.

    E se andassi a Holdstreet? Solo per una visita…

    No, scordatelo, ci sono mille altri modi per goderti la sosta invernale.

    Però…

    Otto ore di viaggio, Lexi sei impazzita?

    «Basta!» gridai. «Verrò a Holdstreet e ti riporterò a casa!»

    L’incontro

    «Sei pronto?»

    Buzz era sull’attenti, gli occhi tondi fissi sulla palla di gomma che avevo tra le mani e le orecchie dritte, leggermente tese in avanti; gli arti anteriori abbassati come un centometrista che attende solo lo sparo dello starter

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