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Oltre l'orizzonte
Oltre l'orizzonte
Oltre l'orizzonte
E-book358 pagine5 ore

Oltre l'orizzonte

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Info su questo ebook

Se ti ha emozionato Open di Andre Agassi, questa storia vera ti toglierà il fiato

Una storia vera che supera ogni limite 

Quella di Richard Parks rappresenta una delle storie più straordinarie dello sport contemporaneo.
Per oltre dieci anni della sua vita si è dedicato al rugby, poi ha dovuto bruscamente interrompere per via di una brutta lesione. A quel punto si è trovato costretto a ripensare al proprio futuro. «L’orizzonte è solo il limite del nostro sguardo», diceva sua nonna. E Richard ha fatto suo quel motto. È stato infatti protagonista della 737 Challenge, scalando 7 vette e raggiungendo i Poli in soli 7 mesi, impresa mai tentata in precedenza. Nel 2013 ha affrontato tre eventi estremamente impegnativi: la maratona attraverso la giungla peruviana, la gara in mountain bike più difficile al mondo, e una di ultra-triathlon in Snowdonia. Queste sfide gli sono servite per stabilire un nuovo primato di velocità in una spedizione solitaria fino al Polo Sud. Oltre l’orizzonte è una storia vera incredibile, stimolante ed eccitante sia per chi ama vivere l’avventura da una comoda poltrona, sia per gli appassionati di sport estremi e di alpinismo.

La sua avventura supera ogni limite

«Quassù l’orizzonte è più lontano che in qualsiasi altro luogo, e trovarsi a contemplarlo significa contemplare quanta più terra possibile senza staccarsi dalla sua superficie. Per questo motivo penso che ti faccia sentire più vicino al pianeta e, in qualche modo, a qualsiasi cosa ci possa essere di superiore a noi esseri umani.»
Richard Parks

«Una lettura fantastica. Richard Parks è modesto e umile nonostante i suoi traguardi. Se questo libro non vi motiva, niente potrà farlo.» 

«Questo libro va letto. Vi farà ridere, piangere, ma soprattutto pensare!»

«Sono queste le storie che danno un senso all’esistenza. Consigliatissimo.»
Richard Parks
Classe 1977, è un ex giocatore di rugby a livello internazionale, poi diventato un praticante di sport estremi e avventure ai confini del mondo. Quando non è in viaggio, divide il suo tempo tra Cardiff, Sheffield e Londra.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2016
ISBN9788854192102
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    Anteprima del libro

    Oltre l'orizzonte - Richard Parks

    1

    La vetta di una montagna non è un posto per chi soffre di agorafobia. Né lo è il punto più alto, o quello più basso, del pianeta. Quassù l’orizzonte è più lontano che in qualsiasi altro luogo, e trovarsi a contemplarlo significa contemplare quanta più Terra possibile senza staccarsi dalla sua superficie. Per questo motivo penso che ti faccia sentire più vicino al pianeta e, in qualche modo, a qualsiasi cosa ci possa essere di superiore a noi esseri umani. Serve uno sforzo di volontà per comprendere tutto ciò, forse uno sforzo grande quanto quello richiesto per arrivare in uno di questi posti. Più o meno.

    È strano quindi ammettere che il mio viaggio cominciò con il sottoscritto rannicchiato dentro una stanzetta in preda all’agorafobia. Ora vedo quella stanza come un tunnel, che mi ha condotto dalla mia vita di giocatore di rugby professionista fino al bianco abbagliante delle montagne, degli spazi incontaminati e inesplorati. È stato terribile essere là dentro, ad affrontare il fatto che la mia carriera sportiva fosse finita, a provare a controllare le paure che avevo sempre tenuto a bada ma che alla fine erano emerse, minacciando di trascinarmi a fondo.

    Era stata la paura a dare forma a ogni mossa della mia carriera di rugbista. Quando avevo esordito vincere era la cosa più importante, e così lo era il corrispondente timore di perdere, ma maturando (cioè dopo le prime sconfitte) divenne il timore di commettere errori, di essere scartato, e più di tutto di deludere i miei compagni di squadra. Che terribile spreco di energia, compresi in quella stanza, quando tutto era finito. Che visione riduttiva permettere che i propri orizzonti si restringessero in quel modo. Che senso ha essere preoccupato per una cosa che non farai, perché hai troppa paura di farla? Ben venga la preoccupazione, ma solo per le sfide che hai deciso di accettare.

    Nessuno sportivo ha la minima idea di come se la caverà alla fine dei suoi giorni di gloria. Molti neppure ci pensano. Mi ero soffermato sull’idea di tanto in tanto, ma mai molto a lungo. Era troppo spaventevole. Inoltre, in uno sport di contatto come il rugby, se pensi troppo a cose come queste esponi il fianco al dubbio e alla vulnerabilità, e può essere proprio questo a condurti alla fine. Scoprii che era meglio non pensarci. Ti trovi già tutto pronto: un ambiente elitario, una serie di routine impegnative che ti impostano la vita, una direzione da seguire, uno scopo. Devi solo concentrarti sulla prossima sessione di allenamento e la partita in programma.

    Se solo potesse durare per sempre. A volte sembra di sì. Ma poi la fine arriva, e può essere proprio la prossima sessione, o la partita seguente.

    Quel che è certo è che il mio tempo arrivò all’improvviso e senza chiedere il permesso. Non mi venne data alcuna scelta. E, come fu poi chiaro, io gestii la cosa davvero male, rinchiudendomi in quella stanza per ventuno giorni. L’unica volta che ne uscii fu per un’operazione alla spalla distrutta.

    Era una stanza fredda e inospitale nel piccolo bilocale che i miei avevano in affitto a Newport, mentre ristrutturavano la loro nuova casa. Quando avevo lasciato la mia precedente sistemazione, due settimane prima, ero andato a stare là, nella stanza sul retro. Non avevo idea che sarebbe diventato il mio purgatorio, una casa di transito tra la vita che avevo avuto e quella che stavo per intraprendere.

    Ricordo bene quella stanza. Aveva le pareti nude, lisce e bianche. Il letto in cui dormivo era bianco. Anche il comò coordinato ai piedi del letto era bianco. L’unica finestra dava sul fianco della ripida collina sulla quale era costruita la casa. Una volta che mi ero deciso a guardare fuori, le case lungo la strada accanto sembrava si fossero radunate per guardarmi dall’alto, perciò quasi sempre tenevo le tende tirate. Sul pavimento le borse straripanti di attrezzi, simboli dell’unica vita che avevo mai conosciuto, sembravano adesso tutte cose improvvisamente inutili.

    Cosa ho fatto là dentro per tanto tempo? Niente. Quanto meno, niente di costruttivo. C’era molta paura e autocommiserazione. Verso la fine ho cominciato a leggere un libro. Avevo anche un laptop con una connessione internet insopportabilmente lenta. E c’era un tatuaggio all’interno del mio braccio sinistro, c’è tuttora. Tutti insieme, questi oggetti mi avrebbero portato fuori dallo stato di agorafobia e depressione in cui ero piombato. Ma fino a quel momento passai il mio tempo sopportando le emozioni e i pensieri che venivano a farmi visita, scrutando quelle mura perfette in cerca di una crepa in cui infilarmi, o anche solo una macchia nella quale riconoscermi.

    Avevo una spalla dolorante e fuori uso, e ogni volta che girandomi nel letto ci finivo sopra mi svegliavo. Qualche giorno dopo l’operazione arrivò il momento di togliere la fascia e cominciare gli esercizi di fisioterapia che mi avevano prescritto, ma non riuscii a impormi di farli. A quale scopo? La mia carriera era finita.

    Ogni tanto i miei genitori venivano a controllarmi. Sapevo che erano molto preoccupati, eppure non mi assecondavano né tentavano di forzarmi a fare alcunché. Mi lasciavano stare. Il solo sapere che fossero al di là di quella porta bianca era l’unico conforto a cui mi aggrappai durante quei ventuno giorni, anche se non fui in grado di aprirmi a loro emotivamente. Si potrebbe dire che, a dispetto dei miei trentuno anni, c’era ben poca differenza tra il me di allora e il teenager che non voleva uscire dalla sua stanza. La mia situazione era magari più seria, le emozioni più intense e i pensieri più cupi e spaventosi, eppure a livello superficiale la reazione era indistinguibile.

    Ma non potevo rendermene conto. Quando mi sento vulnerabile reagisco tirandomi indietro. Le cose andavano male perciò mi rifugiai nella proverbiale tana. E non c’era nessuno che volessi o che potessi accogliere, là dentro. Papà e mamma ne erano consapevoli.

    Ciò che capisco adesso, anche se non lo compresi al tempo, era che inconsciamente avevo associato la fine del mio percorso come giocatore di rugby alla fine di tutto quanto. Ecco perché non avevo il coraggio di affrontare quel pensiero. Era come un’ombra scura annidata negli strati più profondi della mia mente. Non ci pensare. C’è solo la prossima sessione. La prossima partita. Tu sei indistruttibile, ricordatelo.

    Quando tornai nel Galles per l’inizio della nuova stagione, nel 2007, ero più determinato che mai. Forse anche troppo. Forse perfino disperato. Avevo perso la capacità di vedere le cose in prospettiva. Mi sembrava che la mia intera carriera di sportivo, ovvero la mia intera vita di adulto, dipendesse dal contratto di due anni che mi avevano offerto i Dragons nella regione gallese al cui centro c’era Newport, la mia città natale.

    Volevo disperatamente – sì, è questa la parola giusta – giocare di nuovo per il Galles. Avevo vinto l’ultima delle mie quattro coppe nel 2003 e da allora avevo giocato altrove, prima nella mia amata Leeds, poi a Perpignan, in Francia, nel corso di un anno difficile. Adesso ero tornato. Avevo compiuto trent’anni un paio di settimane prima dell’inizio della stagione. L’età non mi aveva mai preoccupato, ma forse il numero tondo aveva amplificato la sensazione che quella fosse effettivamente la mia ultima possibilità.

    All’inizio giocai il miglior rugby di tutta la mia vita. Il mio coach, Paul Turner, mi disse che gli altri allenatori nel Galles gli stavano parlando di me. Quell’autunno non c’era il campionato internazionale, per via della Coppa del Mondo, ma sembrava che fossi di nuovo nei pensieri della gente che contava. Quasi avevo dimenticato l’ombra dentro la mia testa.

    Ma poi un incidente al ginocchio durante la festa di Santo Stefano mi mise fuori gioco per qualche mese, e così prese il via la spirale discendente che mi avrebbe portato fino alla stanza in casa dei miei, un anno e mezzo dopo. Sono abituato agli incidenti, e tutte le volte ho recuperato tornando più in forma di prima, ma stavolta sentivo che era diverso. Sotto sotto mi rendevo conto che il mio corpo e la mia testa non erano guariti. Ero sempre stato un pessimo malato, ma quella volta mi sembrò di avere anche attacchi di panico. Mentre mi sforzavo di recuperare la forma fisica era come se annaspassi in cerca di aria, ogni volta che pensavo ai giorni e alle settimane preziose che perdevo. Non era questo il piano: non era per questo che ero tornato.

    Quell’incidente fu solo l’inizio, a ogni modo. Durante il secondo incontro della stagione seguente, una partita in casa contro i Llanelli Scarlets, ero accovacciato sotto un giocatore placcato e cercavo di conquistare la palla quando uno dell’altra squadra mi venne addosso di lato. Sentii un dolore bruciante alla spalla. Più tardi avrei scoperto che avevo subìto una sublussazione, e uscendo dall’alveo articolare l’omero aveva staccato parte della cartilagine.

    L’idea di una ferita che mi mettesse di nuovo fuori gioco era impensabile. Non esisteva. Non avevo ancora vinto la mia quinta coppa in Galles, e questo era l’ultimo anno di contratto per potermela guadagnare.

    Giocai per il resto della partita e per il resto del mese e quello successivo. Non ho mai dato peso al dolore. A dire la verità, si sapeva che ci andavo a nozze. Non che sia un masochista, ma mi piace quella sensazione di spingermi oltre, e a volte ciò vuol dire provare dolore. E poi, se giochi a rugby da professionista, la sofferenza fisica è qualcosa a cui sei abituato.

    Ma se il dolore era appena sopportabile, le mie capacità di movimento stavano diminuendo rapidamente e per la fine di ottobre mi era impossibile sollevare il braccio al di sopra della spalla. Era un bel problema, così come lo era il regime eccessivo di analgesici a cui mi sottoponevo. Feci una lastra, che rivelò la vera dimensione del problema. Il pezzo di cartilagine che si era staccato era rimasto a fluttuare dentro l’alveo articolare, e siccome avevo proseguito a giocare, la cartilagine aveva continuato a staccarsi anche in altri punti. Così adesso c’era una quantità di pezzi di cartilagine liberi all’interno dell’articolazione e in un punto di questa l’osso era a diretto contatto con l’osso, fatto che causava la diminuzione della mobilità.

    Con l’aumentare della perdita di movimento il panico prese a crescere di nuovo. Ero tornato al punto in cui mi trovavo l’anno prima, con il problema al ginocchio. Stavolta dovevo operarmi. Geoff Graham è uno dei più esperti del paese in materia di articolazione scapolo-omerale e ben presto finimmo col conoscerci piuttosto bene. Decise per una procedura chiamata microfrattura, con cui si trapana l’osso per stimolare la crescita della cartilagine fibrosa. La fibrocartilagine non è mai forte come la cartilagine ialina, che è quella di cui sono composte le articolazioni, ma si tratta di una procedura consueta tra gli sportivi. Era stata testata sulle ginocchia, più che sulle spalle, ma se volevo continuare a giocare quella era la mia unica possibilità.

    Quando ripresi conoscenza Geoff mi disse che l’operazione era andata bene. Ma mi disse anche che la situazione era più seria di quel che aveva creduto. Mi sentivo intontito per via dell’anestesia, ma dubito che avrei compreso appieno quello che mi stava dicendo, indipendentemente dal mio stato di coscienza. In tutta franchezza non so dirvi quale fosse la causa della sua preoccupazione perché non volli proprio ascoltarlo. Udii tutto quello che lui disse e a livello razionale lo accettai – ma poi devo averlo rinchiuso dentro una segreta all’interno della mia mente.

    Quello che ti guida in uno sport come il rugby non è l’intelletto. Tutti sapevano del modo in cui continuavo a rimuginare sulle cose, ma sono comunque un uomo che segue il proprio cuore. Se vivete una vita solo all’insegna della logica non potete giocare a rugby. Non vi mettereste a caricare le persone e a farvi caricare da loro ogni sabato pomeriggio. Anzi, se lo faceste avreste dei seri problemi!

    Perché malgrado tutte le riflessioni e la preparazione, pensare troppo alle cose non è utile in un contesto sportivo, soprattutto se non si ha il coraggio di venire a patti con il pensiero in questione. Non avevo tempo per preoccuparmi della mia condizione. Ero sempre stato indistruttibile. Sarei stato bene.

    Giocai di nuovo verso la fine di febbraio e non ci furono problemi. In quella fase della stagione, col torneo delle Sei Nazioni in corso e poi con le eliminatorie del campionato europeo, i match si distribuiscono in maniera irregolare per tutto il calendario. Giocai nell’unica partita che avemmo a marzo e poi di nuovo nella prossima all’inizio di aprile. C’era qualcosa che non andava, ma non potevo starci a pensare. Erano malesseri professionali, niente di nuovo, ma forse stavolta c’era qualcosa di differente. Forse le parole di Geoff avevano cominciato a infettarsi dentro la mia mente. O forse si trattava di una premonizione della fine.

    Il 26 aprile del 2009, una domenica, giocai in casa contro il Connacht. Non ricordo davvero come successe. Ricordo solo la rottura, lo scricchiolio, l’abrasione. Non li sentii solamente nel corpo, li udii anche nelle orecchie. E compresi. Ero andato, di nuovo. A cinque minuti dalla fine del match uscii da un campo di gioco per quella che si sarebbe rivelata l’ultima volta.

    Presi un appuntamento con Geoff non appena mi fu possibile, che risultò essere il mercoledì seguente. Dan Martin, il fisioterapeuta dei Dragons, mi accompagnò. Ricordo bizzarri piccoli dettagli, come il fatto che quando entrammo notai che Geoff guidava una Subaru Impreza, e mi sembrò un po’ troppo una macchina da scavezzacollo per un primario di ortopedia. Se solo fossi capace di ricordare con altrettanta precisione i dettagli di quanto mi disse in clinica, dopo avergli raccontato quello che era successo e mostrato quanto la spalla fosse ridiventata immobile, ma penso che fosse qualcosa del genere:

    «Temevo che sarebbe successo. La tua spalla è danneggiata in modo irreversibile e non farà altro che peggiorare. Avrà conseguenze sulla tua vita. Il mio consiglio come medico e amico è quello di smettere di giocare».

    Lo disse con il tono di uno che parla a un bambino di dieci anni. A quel tempo ci conoscevamo già piuttosto bene, e volle essere sicuro che lo ascoltassi e che comprendessi fino in fondo.

    Non avevo nulla da dire. Ero assente. Ero uscito dal mio corpo ed ero finito da qualche altra parte. Si chiama lutto. Ho perso familiari e amici, e il momento in cui ricevevo la notizia la sensazione era la stessa. Non discussi, non avevo domande, perché già lo sapevo. Per un sacco di tempo avevo temuto questo momento. Quell’ombra oscura in fondo alla mia mente era uscita e aveva reclamato quanto le spettava. Bene, alla fine mi ha preso, era tutto quello che riuscivo a pensare.

    Avevo bisogno di un’altra operazione per potermi garantire un minimo di qualità di vita. Una volta uscito mi misi a discutere con Dan su quanto in fretta avrei dovuto operarmi. Per un momento non potei fare a meno di credere che l’operazione avrebbe potuto salvare la mia carriera. Ne parlammo nel parcheggio. Avrei aspettato fino alla fine della stagione per dar modo ai Dragons di elaborare la notizia, così Dan mi suggerì di usare la mia assicurazione sanitaria personale, se ne avevo una. E ce l’avevo, me lo ricordo. Una polizza sottoscritta quando ero in un altro club. Bene, sistemiamo subito la faccenda. Troviamo il numero della polizza. Diamoci da fare.

    Mi diressi alla macchina, ma quello scoppio di risolutezza era destinato a vita breve. Uscii dalla clinica di Geoff a Cardiff e quasi immediatamente mi resi conto che non avrei dovuto guidare. Quando si è in stato di shock si entra in una specie di trance. Si guarda qualcosa e in realtà non la si sta guardando; il punto focale è altrove. Svoltai in una strada laterale e cercai di ricompormi. Che cazzo sta succedendo, mi dissi. Non era così che doveva andare. Non era così.

    Telefonai a Dee Clark, il medico dei Dragons, che per parecchi di noi era molto più di quello. Lei sapeva riconoscere la fragilità dietro tutto il machismo di un ambiente ad alto tasso di testosterone, e comprendeva l’importanza di una parola di conforto. Le dissi tutto. Come sempre mantenne una calma perfetta e mi spiegò che mi serviva il numero della mia polizza al Bupa. Era qualcosa su cui potevo concentrarmi, così li chiamai.

    Non sono sicuro di averla mai usata prima d’allora, e mi ero trasferito così tante volte da quando l’avevo stipulata che non sapevo sotto quale indirizzo fossi attualmente registrato presso di loro. La conversazione prese una piega surreale quando mi sedetti al volante ed elencai gli indirizzi di tutte le case in cui avevo vissuto, una specie di tour della mia ormai ex-carriera, col tipo del Bupa che mi giudicava in silenzio.

    «41 Madrid House?», provai.

    «No».

    «Allora 23 North Lane?»

    «No».

    Quando alla fine trovai la polizza telefonai alla segretaria di Geoff, Helen, per darle il numero. Poi, una volta che mi fui ripreso, ovvero probabilmente mezz’ora dopo anche se parvero giorni, tornai a casa e lo dissi a mamma e papà.

    I miei rimasero scioccati come me dalla notizia. Sapevano che mi ero fatto male, ma non era esattamente la prima volta. Loro due avevano partecipato a ogni svolta e imprevisto della mia carriera come se fossero stati in campo con me, perciò sarebbe stata la fine di un periodo importante anche della loro vita. Si mostrarono forti e, quel che conta di più, mi stettero vicini. Non so se ce l’avrei fatta nelle settimane che seguirono senza di loro. Non li feci avvicinare e non permisi loro di aiutarmi, ma fisicamente erano lì con me, e la costanza che ebbero fu la sola cosa a cui mi aggrappai mentre tutto il resto crollava.

    Devo averlo detto anche ai miei amici Kev Morgan e Sonny Parker, perché ricordo bene il venerdì sera che seguì. Kev propose di andare a farci un paio di birre a Cardiff. Ci mangiammo una pizza e poi finimmo dentro un club. Io caddi nell’autocommiserazione e mi comportai in un modo che ancora adesso mi imbarazza al solo ripensarci, per non parlare di doverne scrivere. Spero di non essere un coglione quando bevo – ne sono abbastanza sicuro – ma quella sera lo sono stato. Cominciai a discutere con un gruppo di persone nel locale e rovesciai da bere addosso a una ragazza. Quando arrivarono i buttafuori per farmi uscire minacciai di fare a botte con loro, come se stessero incarnando la crudeltà del mondo stesso. E feci tutto questo con una mano sola.

    Essendo giocatori di rugby noti nella zona, conoscevamo il gestore del posto e lui conosceva noi. Kev gli disse quello che mi era successo e lui ci portò nel suo ufficio. E là, nella stanza del proprietario di un club di Cardiff, mi abbandonai alle emozioni per la prima volta. Crollai e mi misi a piangere in mezzo alle scatole e alle cassette di liquori.

    Il gestore mi fece tornare al bar, dove me ne stetti per un po’ su uno sgabello, senza alcuna voglia di tornare a casa. Ero un trentunenne che viveva nella stanza degli ospiti in casa dei genitori. Presto non avrei avuto alcuno stipendio e non potevo più sfruttare l’unica competenza che avevo nel mercato del lavoro. L’illusione della sicurezza proveniente dal sapere di far parte di un’élite di giocatori professionisti era improvvisamente svanita, come se qualcuno avesse attivato un interruttore. Non sapevo dove andare.

    Allora mi recai a casa della mia ex ragazza. Non la vedevo da settimane, ma certo non sono il primo che ha fatto stupidaggini da ubriaco mentre passava un brutto momento. Però dopo aver dormito nel mio stesso vomito sul pavimento del bagno di casa sua, mi fu chiaro che la nostra relazione era arrivata al capolinea né più né meno della mia carriera sportiva.

    Cominciò allora la mia reclusione. L’imbarazzo di quella serata fu la scintilla finale, una scintilla molto forte, ma altre emozioni erano sopraggiunte, così intense e ben definite che dovevano essersi sviluppate per tutto quel tempo.

    Ero arrabbiato, davvero arrabbiato. Si fottesse Geoff. Che ne sapeva? Quando mai avevo dato retta a un medico, tanto per cominciare? Avevo sempre fatto il contrario di quel che mi dicevano. Perché non avrei dovuto fare così anche stavolta?

    Perché dentro di me sapevo che aveva ragione, il che mi portava alla frustrazione. Non ero pronto per ritirarmi. Avevo così tanto da dare ancora, così tanto da dimostrare.

    E questo spalancava la porta all’imbarazzo. Non avevo raggiunto i traguardi che mi ero prefissato. Non avevo giocato più per il Galles. Tutti nella squadra sapevano che era quello l’obiettivo che avevo stabilito per me stesso, e come potevo farmi vedere ancora da loro, adesso che avevo ufficialmente fallito? Il mio corpo si era rivelato troppo debole e avevo deluso anche loro, i miei compagni di squadra e di battaglia.

    Ciò mi condusse alla tristezza, una schiacciante malinconia che sopraggiunse quando realizzai che non avrei mai più visto l’interno di uno spogliatoio. L’elettricità nell’aria, quel senso di trepidazione e la tensione per lo scontro imminente, e poi dopo, quando tutto è finito, sei completamente svuotato, dolorante, in pezzi, si spera anche vincitore, e gli occhi incontrano quelli di un compagno di squadra. E non c’è altro. Questo è tutto quello di cui hai bisogno. La sensazione che sei parte di qualcosa di più grande. La squadra, il club sportivo, la città, la nazione. Essere tagliati fuori da tutto questo…

    Mi ritirai dentro la stanza. L’operazione era prevista per l’8 maggio e me ne stetti in attesa, inerte. Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a tornare al club sportivo. Non volevo vedere nessuno di loro. Non c’era niente nei Dragons – e credo nel rugby in generale – che fornisse quel tipo di supporto, emotivo, educativo o altro, di cui un giocatore nella mia condizione aveva bisogno, anche se fosse stato pronto con tutto se stesso ad accettarlo. Ma sarei stato per sempre riconoscente ai Dragons per quello che fecero per me. Anche solo tutta la burocrazia, per esempio, era abbastanza da farmi perdere la testa. Non aveva senso per me alzarmi dal letto, come potevo trovare la forza per riempire un modulo? Furono i Dragons a farlo al posto mio. Scrissero una dichiarazione che annunciava il mio ritiro, che poi fu da me rivista e ampliata, per ringraziare tutti coloro che mi erano stati accanto durante la mia carriera. Poi, quando la dichiarazione fu pronta, mi domandarono quando volessi che venisse diffusa. Fatelo adesso, dissi di quel foglio che sembrava la dichiarazione ufficiale della mia sconfitta. Pubblicatelo e basta.

    L’operazione fu la stessa della volta precedente, una microfrattura, ma stavolta la sezione di cartilagine che si era staccata dall’osso era molto più estesa. Tornai in camera per recuperare e mi misi a letto, stordito e dolorante, e poi cominciarono ad arrivare le telefonate. Amici, riviste, giornali. Il comunicato stampa era stato diffuso, e adesso la fine della mia carriera era di dominio pubblico. Fu quello il momento in cui divenne reale. Ogni speranza inconscia che potessi aver covato, su come tutto alla fine si sarebbe rivelato una finta, o che una volta sotto i ferri potessero aprirmi e rendersi conto che si erano sbagliati, o che semplicemente potessi rimettermi col tempo, a quel punto era tutto svanito. Quel giorno, ogni emozione con cui avevo lottato dal momento della diagnosi era stata sostituita da una sola, semplice e devastante. Tutte le mie emozioni avevano abdicato in favore della paura.

    Ero stato istituzionalizzato, che è quello che accade con tutti i professionisti in un ambiente sportivo elitario. Il rugby aveva controllato ogni decisione della mia vita da adulto. Avevo sacrificato così tanto – di buon grado e con riconoscenza, devo precisare – per arrivare a essere il meglio che potevo. Avevo scelto di abbandonare un corso di medicina dentistica per potermi concentrare sul rugby professionistico. Il matrimonio di mia sorella si era scontrato con la mia prima convocazione per il Galles, che fu in Sudafrica. Era il rugby a decidere quando mangiavo e quando dormivo. Il novanta per cento della mia vita sociale era a base di rugby. E adesso non c’era più, senza alcuna speranza che tornasse. Ero paralizzato. Cosa faccio? Dove vado? Chi sono?

    Cominciò così la spirale depressiva. L’imbarazzo causato dal fallimento del mio corpo e, così la vedevo, della mia carriera, unito al modo in cui mi ero comportato quel venerdì sera, si cristallizzò in una forma estrema di disprezzo per me stesso e nella sfiancante letargia che l’accompagnava. Non avevo voglia di fare nulla, cosa che si traduceva in ulteriore odio per la mia persona. In fondo non ero stato sempre un uomo d’azione, se non altro?

    Mi ritrovai in alcuni luoghi veramente oscuri della mente. Considerai anche la soluzione più estrema. E l’odio per me stesso arrivò a nuovi livelli per averlo fatto. Mi sento in colpa adesso anche solo per averci pensato. Credo davvero che la vita, e tutto quello che essa contiene, sia un dono. Che abbia considerato la possibilità di buttare tutto via è una cosa che ancora oggi mi crea delle difficoltà.

    Papà e mamma erano i miei punti fermi. Chiaramente erano preoccupati per me, ma mi lasciavano stare nella mia tana, fiduciosi che avrei trovato un modo per uscirne. Erano l’unica costante che mi fosse rimasta. Sono la sola cosa della mia vita che è rimasta sempre immutabile. Per quanto folle diventasse il mondo, c’è sempre stato qualcosa saldo come una roccia: casa. Non è un posto, è più un’emozione. Quante cose i genitori fanno per noi…

    Sono fortunato ad avere un ottimo rapporto con loro. Discutiamo, ma siamo soprattutto amici. Mio padre, Derek, è gallese, e mia madre Lee è giamaicana. Sono l’unico figlio di entrambi, anche se ho due fratelli e due sorelle, una delle quali da parte di mamma e gli altri tre da parte di papà. Sono stati insieme per un po’ prima che nascessi. Credo di essere stato un fuori programma per loro, ma mi è sempre piaciuta di più l’idea che fossi nato per amore!

    Molta della mia giovinezza la trascorsi in una tenda nel retro della nostra macchina. Da venerdì a domenica mi portavano alle gare di motocross in giro per tutto il paese. Papà mi comprò un motorino da 50 cc quando avevo sei anni e non ce ne pentimmo mai. Ogni fine settimana gareggiavo al South Wales Schoolboy Scramblers Club. Papà mi aiutava a imparare il tracciato di gara e faceva da meccanico; mamma scriveva gli articoli per il giornale locale e preparava i panini al bacon per chiunque fosse intorno alla nostra macchina/tenda. Quando cominciai ad attirare qualche sponsor essa divenne un furgone/tenda. Se gareggiavo bene ci fermavamo da Little Chef sulla via di ritorno a casa e i miei mi compravano le frittelle alla ciliegia. Rientravamo in tempo per vedere il quiz Indovina la frase in televisione. Che periodo stupendo! Se potessi, tornerei indietro in un batter d’occhio.

    Crescendo, non ebbi i normali idoli della maggior parte degli altri ragazzi, ho sempre ammirato mamma e papà. Erano loro i miei eroi. Certo non potevano essere più diversi tra di loro. Mamma è passionale ed emotiva. È lei la forza motrice di casa, sempre attiva. Papà è calmo e rilassato ma ha uno spirito avventuroso. Sono entrambi severi ma comprensivi. Insieme fanno una squadra perfetta, e da loro ho appreso il valore della gentilezza, dell’etica professionale e del lavoro svolto come si deve. Mi hanno instillato queste virtù con la loro fermezza ma senza essere invadenti. Anche quando dovetti affrontare la difficile decisione, come ogni sportivo professionista deve fare a un certo punto, se abbandonare una vita normale e dedicarsi completamente allo sport, mi lasciarono libero di prenderla autonomamente. Nel 2000, al terzo anno di un corso di odontoiatria lungo cinque all’Università di Cardiff, Pontypridd mi offrì un contratto. Presi un periodo sabbatico di due anni (al termine dei quali dovevo tornare all’università, cosa che non feci) e firmai il contratto. Malgrado i sacrifici fatti dai miei genitori per assicurarmi le opportunità che loro non avevano mai avuto, da parte di entrambi non venne mai altro che sostegno – e la fiducia che ce l’avrei fatta.

    Seguii delle lezioni scolastiche private, cosa che sorprese qualcuno, per via del mio accento, dei tatuaggi e del colore della mia pelle, ma io mi ritengo appartenente a un ceto sociale medio-basso. Papà è un ingegnere ancora attivo, anche adesso che ha più di settant’anni. Mamma in genere lavora con lui, si occupa dei libri e se serve guida anche i camion. Adesso è un giudice. Sono quasi sempre stati liberi professionisti. Lavorarono duro per permettermi di andare al collegio di Monmouth. Quando cominciai a giocare a rugby nella lega giovanile di Pontypool tutti mi vedevano come il ragazzo che veniva dalla scuola pubblica, e questo fu vissuto da me come un ostacolo quando giocai nelle scuole gallesi, molto più del colore della mia pelle. Mi aiutò a consolidare l’impressione di essere un outsider.

    Non mi descriverei come un ribelle, ma mi sono sempre sentito un po’ diverso, come se non fossi mai a posto in nessun luogo. Non c’è alcun rimpianto da parte mia, anzi, ho sempre amato l’idea di camminare per la mia strada. Anche se le ripercussioni di questo mi crollarono addosso in quei giorni bui alla fine della mia carriera di rugbista, è stato ciò che mi ha reso quello che sono. Ho imparato a essere indipendente e a pensare a me stesso sin da quando ero piccolo. Sono orgoglioso di essere gallese anche se di etnia mista, di essere figlio unico anche se ho quattro fratellastri, di essere stato sempre in mezzo agli altri anche se non mi sentivo mai del tutto uno di loro.

    Quest’impressione proseguì per tutta la mia adolescenza di scolaro e giocatore di rugby, amplificata dal fatto che ero sempre il più giovane dei

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