Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Non smettere di sperare
Non smettere di sperare
Non smettere di sperare
E-book439 pagine5 ore

Non smettere di sperare

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un’autrice bestseller del New Tork Times e di USA Today

«Merita tutte le stelle, tutto l’amore, tutto l’incanto del mondo!»

Evan Bryant non era il tipico eroe. Ma era mio. Agli occhi del mondo un debole, ma per me era il ragazzo più forte che avessi mai conosciuto. Era il mio migliore amico, il ragazzo a cui avevo dato tutto, il mio cuore, il mio corpo e una promessa eterna. E quando avevo più bisogno della sua vicinanza, lui se n’è andato. Mi ha lasciato a pezzi, facendomi dubitare di tutto ciò che avevamo vissuto insieme. Sono passati tre anni, ma ancora non ero pronta a vederlo tornare a Gingham Lakes. Le mie dita vorrebbero ancora accarezzargli la pelle, il mio corpo supplicherebbe ancora per il suo tocco. Ma il tempo cambia le cose, e ci sono segreti che potrebbero rovinare tutto. Possiamo trovare un modo per amare di nuovo, o le paure del passato ci ruberanno la speranza nel futuro?
A. L. Jackson
è un’autrice bestseller di «New York Times» e «USA Today». Gli ingredienti dei suoi romanzi rosa sono emozioni intense, passioni travolgenti e protagonisti dal carattere forte. Quando non scrive trascorre del tempo insieme alla sua famiglia, assaggiando cocktail o con il naso immerso tra le pagine di un libro. La Newton Compton ha pubblicato la Fight for me Series (La strada che mi porta da te, L’amore mi porta da te, Ogni cosa mi porta da te) e Non smettere di sperare.
LinguaItaliano
Data di uscita8 lug 2021
ISBN9788822747105
Non smettere di sperare

Correlato a Non smettere di sperare

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica contemporanea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Non smettere di sperare

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Non smettere di sperare - A.L. Jackson

    Avvertenza

    In Non smettere di sperare viene utilizzato il linguaggio dei segni americano. Per garantire una lettura più scorrevole, questi passaggi non sono riportati nel formato reale.

    Prologo

    La luce della luna entrava a fiotti dalla finestra e mi illuminava lì seduto alla scrivania, con l’anima straziata dalla decisione che ero costretto a prendere.

    I ricordi infuriavano nella mia mente come una tempesta violentissima.

    Implacabile e crudele.

    Mi sentivo incatenato. Legato per sempre al passato che aveva deciso la mia condanna.

    Avevo cercato di cambiarlo, di aggiustare le cose. Tuttavia, avevo già causato più dolore di quanto dovrebbe toccarne a una persona sola.

    Ormai non potevo fare altro che rompere quei legami.

    Staccare la spina prima che fosse troppo tardi.

    Amarla era stato facilissimo.

    Lasciarla era una tortura.

    Ogni cellula del mio corpo piangeva di dolore, lì chino sul foglio.

    Un fiume di parole si riversava sulla pagina. Amarezza e rimpianto e quel briciolo di speranza che mi aveva lasciato lei.

    Prima di poter essere tanto egoista da cambiare idea, mi alzai, raccolsi il borsone e me lo misi in spalla.

    Poi me ne andai senza voltarmi indietro.

    Sapevo che non avrei mai potuto espiare quel peccato.

    Nessuna pena avrebbe mai riscritto ciò che era inciso nella pietra.

    Nulla poteva cambiare ciò che ero…

    Uno

    Frankie Leigh

    «Oddio, perché è tanto buono?», mugugnai, leccandomi per bene il dito infilato in bocca.

    Come una vera signora.

    Ma cavoli, quando si trattava di cibo, per quanto mi riguardava le buone maniere potevano buttarsi dalla finestra di un grattacielo.

    Alla mia migliore amica Carly sfuggì una risatina. «Uhm… sono quasi sicura che sia per via dello zucchero. Tanto zucchero».

    Giusto.

    Era probabilmente per questo che il mondo gli aveva dichiarato guerra: rendeva tutto troppo delizioso e una volta cominciato era difficile smettere.

    E lì al Drop of Hope, deliziare era il nostro mestiere.

    E quella glassa era fuori dal mondo.

    Bingo.

    «Dio, toglimela da davanti prima che la mangi tutta da sola». Spinsi via la ciotola, ma non tanto lontano da non poterci intingere il dito per un ulteriore assaggio.

    Zia Hope sorrise come se avesse appena vinto chissà quale premio, mentre mescolava un’altra infornata di cupcake al limone.

    «Buona?», domandò, mordendosi il labbro inferiore, concentrata sull’eseguire a puntino la nuova ricetta.

    «Dire buona è farle un torto. È da orgasmo», dissi, la bocca piena di un’altra ditata di glassa.

    Fatemi pure causa.

    E comunque… era una ciotola di prova. Non infrangevo nessuna norma igienica. O almeno, pensavo di no.

    Zia Hope ridacchiò sommessamente, in piedi davanti me e Carly al grande tavolo nella cucina industriale del suo bar pasticceria, che gestiva insieme alla sua migliore amica Jenna.

    Carly e io ci lavoravamo da sempre, sin da quando andavamo ancora alle superiori e l’avevamo supplicata di assumerci durante l’estate.

    «Addirittura, eh?»

    «Oh, sì. Penso che diventerà la mia nuova preferita».

    Carly scosse la testa, con una breve risata. «Ti rendi conto che lo dici per ogni nuova ricetta di Hope, vero?»

    «A parte per i cupcake al bacon», la corressi, fingendo di vomitare. «Il bacon è per la colazione, o, se proprio vogliamo esagerare, per l’hamburger, un paio di fette al massimo. Metterlo su un dessert è una bestemmia».

    Zia Hope rise. «La solita melodrammatica, Frankie Leigh. Solo tu puoi mettere i cupcake allo stesso livello del paradiso e del sesso. Scommetto che Jack è contento». Mi fece l’occhiolino, come fossimo tutte amiche che cazzeggiavano e basta.

    Repressi l’improvvisa ondata di dolore, una piena istantanea che per poco non mi travolse.

    Non aveva idea di cosa stesse dicendo né delle implicazioni della sua frase. Non sapeva a cosa si rivolgessero i miei pensieri quando menzionava insieme paradiso e sesso, perché al mondo c’era un solo posto in cui andassero a braccetto.

    Mi chiesi cosa avrebbe pensato di me se avesse saputo la verità.

    Mi stampai un sorrisone sulla faccia.

    Niente di meglio che vivere una vita fasulla all’ennesima potenza.

    «Ehi, qui facciamo un lavoro serio», esclamai, nonostante l’imbarazzo. «Non sminuire l’importanza dei dolci. Rendiamo felicissimi ogni giorno una tonnellata di clienti».

    Lasciai che cogliesse da sola l’allusione.

    Lei rise e arrossì.

    Okay, zia Hope non era proprio una vera zia. Era sposata con il mio padrino, Kale Bryant.

    Da ragazzino, Kale era molto amico di mio padre e di Oliver Preston. Quei tre erano stati inseparabili. Più che semplici amici. Legati in una maniera che aveva incatenato per sempre le loro vite l’una all’altra.

    E i rapporti tra le rispettive famiglie col tempo si erano talmente intrecciati che eravamo diventati una cosa sola.

    Il sangue non contava: l’affetto e i legami erano fatti di devozione e lealtà. Dell’essere disposti a fare qualsiasi cosa per sostenere qualcuno a cui volevi bene – e loro ti ricambiavano allo stesso modo.

    Ecco cos’era una famiglia.

    Quindi, forse dovreste sapere un’altra cosa sulla zia Hope – sul perché mi tremava l’anima ogni volta che entravo nel suo spazio vitale.

    Era anche la mamma di Evan.

    Pensando a lui sentii una pugnalata di dolore. Un effetto che cazzo, si produceva quasi mille volte al giorno.

    Evan un tempo era il mio migliore amico. Il bambino che era stato al mio fianco da quando avevo cinque anni.

    Era via via diventato fondamentale nella mia vita. La parte più luminosa della mia anima.

    Mi aveva lasciata tre anni prima e sentivo ancora la sua presenza dappertutto.

    Riecheggiava dalle pareti.

    Tormentava il mio spirito e provocava la mia mente.

    Mi aveva abbandonata quando avevo più bisogno di lui. Aveva fatto i bagagli lasciandosi dietro solo un biglietto.

    Mi aveva quasi uccisa.

    Chissà come, in qualche modo ero riuscita a strapparmi alle tenebre.

    Oh, ma questo non significava che non facesse ancora male.

    Mi rifiutai di affogare in quei pensieri e mi concentrai sul mio vero compito: creare qualcosa di spettacolare, una nuova ricetta che mantenesse abbondante il flusso di clienti.

    Zia Hope fece uno dei suoi sorrisi dolci. «Sì, i nostri clienti sono sempre soddisfatti, di sicuro. E devo dirvelo, sono molto grata di avervi qui ad aiutare me e Jenna».

    Quando avevo cominciato a lavorare lì, alle superiori, pensavo che il titolo di barista suonasse molto più figo che stare nella tavola calda di mamma, a pochi isolati di distanza.

    Forse era una roba adolescenziale. Avevo bisogno di spiegare le ali e fare nuove esperienze lontano dagli occhi vigili di mia madre.

    Chissà perché, mentre studiavo all’università, avevo finito per… restare.

    Il punto era il seguente: ogni volta che entravo in quella cucina sentivo di appartenervi così tanto che non ero capace di girare sui tacchi e andarmene.

    Ottenuta la laurea in marketing, non potevo fare a meno di immaginare dove saremmo potute arrivare con il locale.

    «Lo sapete, vero? Non ce l’avremmo fatta senza di voi», insistette Hope. Si fece strada sul suo viso un lampo di tristezza che non l’abbandonava da tre anni.

    Mi colpì dritto allo stomaco, vedere la sua preoccupazione, la confusione generata dal comportamento di Evan.

    Il primo figlio le aveva portato gioie e dolori immensi. Quel ragazzo speciale per così tanti motivi.

    Straordinario.

    Indimenticabile.

    La osservai; avrei voluto poter cancellare la sua sofferenza. Dirle che sarebbe andato tutto bene.

    Solo che non pensavo di riuscire a raccontarle una bugia tanto grossa.

    I capelli rossi le danzavano liberi sulle spalle, la spruzzata di lentiggini sul suo viso scintillava come porporina sotto le luci forti della cucina. Giuro, era come guardare il sole. Un raggio di sole che aveva fatto di Gingham Lakes casa propria.

    La parte più difficile era che assomigliava troppo a guardare lui.

    «Sono contenta della possibilità che ci hai offerto, zia. E che ci sopporti». Provai a scherzare, nascondendo il tremito nella mia voce.

    Sbuffò. «Vi sopporto? Se cercaste di andarvene, verrei a stanarvi per trascinarvi indietro. Non guadagniamo tanto da anni, tutto grazie a te».

    Mi puntò addosso i luminosi occhi verdi. Dello stesso colore di quelli che mi avevano guardata per anni con un affetto talmente intenso da farmi credere di essere il centro di un vasto mondo meraviglioso.

    Il centro del mondo di Evan.

    Forse per questo mi ero sentita devastata, persa, quando se ne era andato.

    Non sapevo più se procedevo nella direzione giusta, da sola, le nostre vite erano intrecciate da sempre.

    «Ehi, mi fate sentire il terzo incomodo». Carly assunse un’espressione di finto disprezzo e rabbia.

    Risi. «Scusa, ma la tua laurea in Lettere non ci serve a niente».

    «Pronto? L’hai letta la bio del negozio sul sito? È una figata. I clienti accorrono ipnotizzati dalle mie parole. E il coupon che ho caricato ieri? Genio allo stato puro».

    «Continua a ripetertelo». Sogghignai e sentii il timer del forno alle mie spalle trillare. Infilai i guantoni e tirai fuori la teglia di scones con tripla dose di frutti di bosco. Rapita dal profumo, mi chinai per annusare a pieni polmoni.

    Dio, profumavano davvero di paradiso.

    «Non pensarci nemmeno», mi ammonì zia Hope, vedendo che la golosità stava prendendo il sopravvento su di me.

    Risi. «Solo uno?»

    «Comincerò a ridurti lo stipendio».

    «Niente in contrario». Appoggiai la teglia sulla grata per farla raffreddare.

    Zia Hope prese l’infornata di cupcake al lime che aveva già glassato. Erano splendidi, la glassa verde chiaro decorata con una fettina carinissima di lime candito e una chiave di zucchero.

    Mi diede un colpo con l’anca. «Continua così e saremo pari».

    Cercai di sorridere. Non sapeva quanto l’adorassi, quanto avrei voluto cancellare il dolore che nascondeva nel calore di quegli occhi amorevoli.

    A volte mi chiedevo se fosse colpa mia. Forse avevo chiesto troppo e troppo in fretta o l’avevo amato con troppa passione.

    Forse sarebbe rimasto, se non fosse stato per me.

    «Grazie, zia», sussurrai.

    Sorrise e si avviò alle porte a vento che immettevano nel locale. «Meglio che vada a riempire i vassoi con questi e a controllare come sta Jenna. Ormai sarà pronta per una pausa. Potete prendere le torte multistrato alla frutta e le millefoglie alla vaniglia? L’ultima volta che sono uscita, stavano per finire».

    «Certo». Mi tolsi i guanti e mi avvicinai a uno dei forni sul fondo, quelli per tenere i dolci in caldo.

    Dalle pareti sottili filtrava il brusio dei clienti e l’aroma del caffè appena fatto riempiva l’aria – vaniglia e nocciola e panna dolce, mescolato al profumo dei dolci in cottura che faceva venire l’acquolina in bocca.

    Non c’era da meravigliarsi che il Drop of Hope fosse pieno sia nel tardo pomeriggio, quando le persone staccavano dal lavoro e facevano tappa lì prima di tornare a casa, sia alla mattina, quando aiutava la gente a iniziare la giornata col piede giusto.

    Zia Hope scomparve oltre le porte e io trovai quel che mi serviva prima di seguirla.

    Mi si disegnò un sorriso soddisfatto sulle labbra, sentendo l’andirivieni all’esterno. Le voci risuonavano nel locale, il campanello sopra la porta tintinnava ogni pochi secondi.

    Senza dubbio si stava formando la fila alla cassa. La coda arrivava spesso fino all’uscita.

    Accadeva sempre così: un attimo prima non c’era nessuno, quello successivo la sala era completamente stipata. Era tempo di mettersi all’opera.

    Feci per uscire, poi sentii uno schianto improvviso che mi paralizzò per un istante. Qualcosa di metallico sbatacchiò sul pavimento e qualcuno trasalì forte.

    Seguì un silenzio appiccicoso che si protrasse a lungo.

    E riempì il locale di apprensione e angoscia.

    Sentii una morsa al petto, la paura mi invase e mi fece sentire come intrappolata nel cemento a presa rapida.

    Avevo i battiti rallentati, bum, bum, bum.

    Ci volle del bello e del buono per costringermi ad attraversare le porte, le gambe talmente pesanti che mi sembrava di guadare acciaio liquido.

    I miei occhi, quelli corsero. Analizzarono la situazione a tutta velocità.

    I clienti vicino al bancone si guardavano alle spalle, confusi, i cupcake rotolavano tra i piedi della gente e Jenna aveva gli occhi sgranati e se ne stava immobile con una banconota da venti in mano.

    Zia Hope era paralizzata appena oltre la soglia e si premeva le mani sulla bocca come per impedirsi di piangere.

    Inutile cercare con tutte le mie forze di tenerlo chiuso in gola: mi sfuggì un singhiozzo.

    Riecheggiò per tutta la stanza, per poco non ebbi un infarto quando il cuore cercò di uscirmi dal petto e accelerò i battiti e si contrasse di colpo.

    Tre anni. Tre anni. Tre anni.

    Ecco da quanto tempo se ne era andato Evan.

    Da tre anni una parte del mio cuore aveva smesso di battere.

    Da tre anni non vedevo il suo volto bellissimo.

    Ed eccolo lì, fermo sulla soglia del locale, con il sole che inondava le vetrate alle sue spalle. Illuminato come una visione, un fantasma evocato dall’aldilà.

    Prima di andarsene, già non era più un bambino. Adesso? Era un uomo fatto e finito.

    Cambiato in tutto eppure, chissà come, sempre lo stesso.

    Magro ma muscoloso, forte.

    Alto ma non più allampanato.

    Sano.

    Bellissimo.

    Tuttavia, ero quasi certa che il cambiamento maggiore fosse il bambino minuscolo che reggeva sul fianco destro, una cosina che stringeva il colletto della sua maglia nel pugno, aggrappandosi a lui come un ranocchietto a un albero.

    Il dolore mi investì come un vento impetuoso.

    Mi appoggiai al muro per non cadere sotto il peso di quegli occhi verdi tanto familiari. Il bimbo sembrava molto confuso.

    L’orrore si mescolò al sollievo e non avrei saputo dire quale dei due fosse più intenso. Se a polverizzarmi fosse avere davanti Evan, vivo e sano e salvo, o il peso di vedere ciò che non avrei mai avuto.

    Tornai a guardarlo. Evan era immobile come me.

    Sconvolto.

    Eravamo intrappolati entrambi in quell’attimo, mentre io venivo assalita dai ricordi. Dai giuramenti e dai sogni che avevamo tessuto insieme.

    Mi aveva promesso la sua vita, poi se ne era andato.

    La crepa nel mio cuore fremette e minacciò di spalancarsi di nuovo.

    All’improvviso non riuscivo più a respirare. Non c’era più aria. Mi cedevano le ginocchia.

    Lottai per ricompormi, per concentrarmi sul fatto che era tornato, ma non riuscivo a smettere di tremare.

    Non riuscivo a fermare quell’esplosione di dolore che mi faceva vibrare la terra sotto i piedi.

    In lacrime feci qualche passo indietro, incapace di restarmene lì a guardarlo. Trovai le porte a tentoni; non potevo restare lì.

    E fuggii dal ragazzo che avrei sempre amato più di chiunque altro.

    Due

    Evan

    Avete mai sentito che rumore fa il silenzio?

    L’eco del nulla che rimbomba nell’immobilità?

    Io ci vivo da sempre. È come muoversi in un mare ovattato di quiete totale, completa.

    Sordo dal primo giorno.

    Ma quello di quando entrai nel Drop of Hope, nel momento stesso in cui mia madre usciva dalla cucina, fu forse il più profondo che avessi mai sperimentato.

    Come al rallentatore, un vassoio le cadde di mano, il metallo sbatté sul pavimento, rimbalzò due volte e quindi scivolò via.

    I dolci che preparava da quand’ero nato si riversarono in terra.

    Tutti i presenti si paralizzarono, un’ondata di confusione sfavillò nell’aria. La sentii, come ansia sommessa che mi artigliava la pelle.

    Le vibrazioni interrotte che tremavano e rabbrividivano, che urlavano più di quanto avrebbe mai potuto fare qualsiasi voce.

    Mi ero aspettato un’accoglienza diversa?

    Il figliol prodigo torna a casa e gli mettono l’anello al dito e preparano un banchetto?

    La mamma si coprì la bocca con le mani, trattenendo quello che sapevo essere un grido di dolore. Sgranò gli occhi, nonostante le rughe agli angoli, annebbiati da uno sconvolgimento violento di cui ero io l’unico responsabile.

    Irradiava incredulità e sofferenza come un fiume in piena.

    Unica consolazione: in mezzo a tutto ciò c’era un sollievo incredibile.

    A volte basta un attimo per capire che hai davvero mandato tutto a puttane. Quello era il mio attimo.

    Ma non potevo fare altro che andare lì, inerme, senza più speranza.

    Cazzo, avrei implorato bocconi sul pavimento se necessario.

    Sollevai un po’ di più Everett sul fianco e lo sentii affondare le piccole dita nella mia maglia, alzare su di me gli occhi fiduciosi con aria interrogativa.

    Avevo un nodo in gola.

    Cazzo. Non sapevo ancora che fare, come gestire l’assalto della paura che pulsava fiammeggiando nelle mie vene. Un milione di emozioni che non riuscivo a metabolizzare.

    Apparivano come impulsi stroboscopici.

    Sapevo solo che dovevo tornare. Al diavolo le conseguenze.

    «Va tutto bene», gli dissi; ero sicuro che la mia voce si sarebbe spezzata per la paura.

    Feci per dire qualcosa alla mamma, per implorarla.

    Un attimo prima che riuscissi a farlo, lo sconvolgimento mi togliesse l’aria dai polmoni quando notai la porta che si apriva alle sue spalle.

    Uscì Frankie Leigh, il passo incerto.

    Un caleidoscopio di quell’energia che conoscevo esplose nell’aria.

    C’era anche lei. Ovviamente.

    La gola già stretta mi si chiuse del tutto e il mio cuore cercò di farsi strada nella strozzatura, come se riconoscesse casa sua e fosse impaziente di giacere ai suoi piedi.

    Non gli importava se per arrivarci doveva farsi malmenare a sangue. E comunque, era difettoso dal giorno in cui ero nato.

    A quel punto, non pensavo di poter sperare in una riconciliazione. Tanto valeva gettarsi nel dolore.

    Rimasi fermo dove mi trovavo e vidi l’orrore inciso sul suo volto quando si fermò di colpo.

    Non mi importava fare la figura dell’idiota: la guardai negli occhi, come frugando tra le macerie, le dita sanguinanti e le ginocchia sbucciate per farmi di nuovo strada fino a lei.

    Fu come se mi affondassero un paletto nel cuore. Una frustata. Un balsamo. Cazzo, non lo sapevo nemmeno io.

    Quegli occhi nocciola con pagliuzze cannella che non avrei mai dimenticato cercarono i miei, sembrava che volesse raggiungermi, toccarmi attraverso la stanza. Ricordare.

    Ma poi il suo sguardo cambiò direzione.

    La confusione nei suoi occhi esplose quando spostò l’attenzione sul bambino che avevo in braccio.

    Mio figlio. Mio figlio. Mio figlio.

    Le parole mi vorticavano nella mente come un tornado, un vortice che mi risucchiava verso l’oblio. Ancora non riuscivo a capacitarmene nemmeno io.

    Ma Frankie Leigh? Scattò indietro come se le avessero tirato un pugno in faccia, colta alla sprovvista.

    Volevo urlare, supplicarla di capire. Di non guardarmi come se l’avessi distrutta, era l’ultima cosa che avrei mai voluto.

    Capii subito che portava stampata in faccia la stessa espressione che ero stato troppo codardo per affrontare tre anni prima, quando me ne ero andato. Capii che era il tipo di dolore che portava scritto in fronte quando aveva trovato il biglietto.

    Schiacciata.

    Polverizzata.

    Nessuna scusa del cazzo avrebbe sistemato le cose. Nessuna spiegazione. Nessun motivo sarebbe mai stato considerato sufficiente.

    Dovevo ricordarmi che non ero lì per il casino lasciato fra noi: avevo un bambino da proteggere.

    Deglutii, cercai di reprimere l’agitazione, ignorare il fatto che il bel corpo di quella ragazza ancora risvegliava in me lo stesso bisogno doloroso che mi aveva tormentato per tre anni.

    Dovevo ignorare la violenza del suo spirito scombussolato.

    Ignorare quel legame tra noi che mi strattonava e tirava e pretendeva di sapere come avevo potuto tradirla a quel modo.

    E tuttavia mi sentii squartare quando arretrò.

    Fuggiva, alla disperata ricerca di un posto sicuro. I riccioli castani ribelli le incorniciavano il viso. La bocca semiaperta, sconvolta, lo sguardo fisso su Everett come in cerca di una spiegazione.

    Poi mi osservò per un istante, improvvisamente allarmata, si girò e scomparve.

    Volevo inseguirla, toccarla; ma dovevo concentrarmi sul motivo che mi aveva riportato a Gingham Lakes.

    Mi costrinsi a guardare di nuovo mia madre, la donna che avrebbe dato la vita per me, la persona che mi aveva protetto e aveva sacrificato tutto per suo figlio e mi aveva insegnato cosa dovrebbe essere un vero uomo.

    Avevo fallito anche in quello.

    «Evan». Mosse le labbra in una supplica; alle mie orecchie non giunse alcun suono.

    Non aveva importanza: la sentii.

    Focalizzai tutta la mia attenzione sul movimento delle labbra, osservai la mamma che scendeva a patti con l’idea del mio ritorno, mentre io cercavo di non impazzire. Senza dubbio era il bambino tra le mie braccia a sbalordirla.

    Eravamo in due.

    «Mamma». Costrinsi la voce a uscire, sapevo che la parola risultava probabilmente distorta e confusa, ma la maggior parte della gente riusciva a capirmi quando alzavo la voce.

    Everett mi graffiò il mento. Senza dubbio, quell’ometto percepiva la mia ansia. Mi chiedevo se fosse nato con un sesto senso.

    Un istinto che gli permetteva di percepire le emozioni in maniera innaturale, come se avesse preso i miei sensi amplificati moltiplicandoli a suo uso e consumo.

    Tra noi si era creata una connessione immediata che mi aveva fatto cagare sotto dalla paura. Non avevo idea di come occuparmi di lui, di come aiutarlo. E, tuttavia, non potevo comunque fare altro che tenermelo stretto.

    Lo appoggiai al mio petto, sentii il battito irregolare del suo piccolo cuore. O forse era il mio.

    «Mamma, mi serve il tuo aiuto».

    Bastò quello a far precipitare la mamma verso di me in una nube di confusione. Le lacrime le scorrevano sulle guance, i suoi occhi sembravano voler assorbire ogni centimetro di noi due.

    Si fermò di colpo a una spanna da me, le mani alzate, tremanti, come se volesse abbracciarmi e non sapesse come farlo.

    Come se ormai fosse un’estranea.

    Odiai vederla così. Odiai il fatto di aver messo tanta distanza tra noi che non sapeva più come raggiungermi.

    Everett schiacciò un orecchio sul mio petto, la testa incassata sotto il mio mento, fissando la nonna. Allargai le dita sulla sua schiena per confortarlo e capii che a mia madre sfuggiva un singhiozzo gutturale, spezzato.

    Me lo dissero il modo in cui il suo petto si gonfiò e tremò, il movimento della gola, la contrazione della mascella.

    Il dolore mi trapassò l’anima.

    Rimpianto e rimorso e cazzo, tutto quel che avrei voluto potermi rimangiare.

    «Mamma», ripetei.

    Cominciò a parlare forsennatamente nella lingua dei segni.

    E-V-A-N. CHE SUCCEDE? CHE SIGNIFICA? NON POSSO CREDERE CHE TU SIA TORNATO. SEI QUI

    .

    Gli occhi lucidi si spostavano su Everett, una mano tremante gli sfiorò la guancia paffuta. Le tremavano vistosamente le labbra quando alzò lo sguardo e chiese: «Oddio, Evan… è tuo figlio?».

    Non era proprio una domanda, considerando quanto assomigliava a me nelle foto da bambino. Ma sapevo come si sentiva.

    Sconvolta. Ferita. Invasa dal terrore perché già sapeva cosa significava questo.

    «Sì». Un dolore che non mi aspettavo mi colpì a quell’ammissione.

    Everett fece uno dei suoi sorrisi, con quei dentini minuscoli, e, cazzo, di nuovo venni intrappolato da quella sensazione a cui continuavo a oppormi.

    Volevo mettermi la coda fra le gambe e fuggire.

    Volevo restare.

    Volevo combattere. Proteggere.

    Forse volevo anche raggomitolarmi come da bambino e pregare che la mamma riuscisse a sistemare tutto.

    Quei giorni però erano finiti da tempo ed era ora di mostrarsi uomo.

    «Oddio», piagnucolò mia mamma, vacillando, e all’improvviso Jenna uscì da dietro il bancone e corse verso di noi. L’afferrò per la vita proprio quando sembrava che stesse per svenire.

    Jenna si girò verso di me. Incazzata. Attonita.

    Non potevo biasimarla.

    «Forse è meglio trasferire la festa di bentornato sul retro, che ne dite?». Parlò così in fretta che fu difficile leggerle le labbra, ma capii l’antifona: mi avrebbe fatto il culo.

    Annuii, teso.

    Mi prudevano le mani dalla voglia di toccare mamma, di abbracciarla e implorarla. Di dirle che mi dispiaceva tanto, cazzo. Che non avevo mai voluto ferirla. Che pensavo di fare la cosa giusta per tutti.

    Ero stufo di essere un peso. Di far ruotare le loro vite attorno alla mia, in attesa del giorno in cui sarebbe finita.

    Una volta cominciato ad affondare in quella spirale di disperazione, non ero stato più capace di uscirne.

    Ora non mi restava altra scelta.

    Lanciai uno sguardo contrito ai clienti che ci guardavano a bocca aperta, testimoni involontari di quel disastro.

    Jenna guidò la mamma sul retro e io le seguii, sentendo un altro pugno nello stomaco quando entrai in cucina e vidi Carly che rientrava dalla porta sul retro con aria stravolta.

    Rossa in faccia e affannata e con gli occhi che non sapevano dove guardare.

    Dovendo scommettere, avrei detto che aveva appena inseguito fuori Frankie.

    Quando mi vide, una lacrima le cadde dagli occhi; scuoteva la testa in mezzo alla confusione, spostava lo sguardo da me a Everett come se nemmeno lei mi riconoscesse.

    A quanto pareva, avevamo fatto un’entrata memorabile.

    Benvenuto in famiglia, Everett.

    Li conoscevo abbastanza da sapere che l’avrebbero accolto a braccia aperte. Avrebbero fatto qualsiasi cosa per lui, l’avrebbero protetto e curato. Ed ero lì proprio per questo.

    Appena in cucina, mamma si girò di scatto verso di me, artigliandosi il petto. «Mi hai spezzato il cuore, Evan».

    Le sue parole mi graffiarono la pelle. Mi colpirono come un pugno. No, non arrivarono alle orecchie, ma cazzo, le sentii fin nell’anima.

    La vergogna s’impossessò di me. «Mi dispiace. Cazzo, mi dispiace tanto. L’ultima cosa che volevo fare era ferirti».

    Strinsi un po’ più forte Everett, perché non volevo che si trovasse sulla linea di tiro.

    Quella situazione non era colpa sua. Era mia.

    Mamma sbatté più volte le palpebre. «Non volevi ferirmi? Dio, Evan… mi hai distrutta. Io… io… sono tre anni che non dormo una notte intera. Tre anni, Evan. Perché non riesco a fare altro che preoccuparmi per te. Mi chiedevo se fossi al sicuro o malato. Felice o solo. Se fossi vivo».

    Di nuovo strinse il pugno sul petto, come se il solo pensiero le desse la nausea.

    «E adesso ti presenti qui con un bambino? Un bambino che a vederlo ha almeno un anno e mezzo? Come hai potuto farmi questo? Come?».

    Quando hai una disabilità, la gente ti guarda come se fossi diverso. Ti tratta come se fossi diverso, con troppa attenzione o palese disprezzo. Ti fa mille moine e concessioni o ti considera spazzatura, indegno dell’aria che respiri.

    Ero stato chiamato speciale e femminuccia mille volte.

    Il punto era che in vita mia non avevo mai pianto, se non per quella donna.

    Quando soffriva. Quando camminava nella paura. Quand’ero piccolo e tutto ciò che volevo era riuscire a proteggerla da quel pezzo di merda del mio padre biologico, ma non potevo fare nulla perché ero solo un debole bambino.

    E ora, uomo, davanti a lei… cazzo, volevo piangere perché alla fin fine mi ero dimostrato una femminuccia davvero. Un codardo.

    Uno che di fronte all’oscurità e alla desolazione era scappato.

    Le voltai le spalle per un attimo, mi afferrai i capelli con una mano; riuscivo a malapena a guardarla, mamma non ci stava andando affatto leggera.

    Non me l’avrebbe fatta passare liscia.

    Non me lo sarei meritato.

    Sentivo Jenna e Carly osservarci inorridite; tutto attorno a me tremò quando mi costrinsi a parlare. «E da tre anni io odio ogni giorno quello che ho fatto e allo stesso tempo sento che non avevo altra scelta».

    PERCHÉ

    ?, mi supplicava.

    Esitai, combattuto, infine dissi: «Dovevo… dovevo trovare me stesso. Lontano da tutto questo».

    Era una stronzata. E lo sapeva anche lei.

    Il dolore le si dipinse sul volto e un attimo dopo mi si gettò addosso.

    Ci abbracciò tutti e due. Le braccia che avevano combattuto per me da quando ero nato, attraverso tutte le mie disabilità, le mie malformazioni genetiche. La mia sordità e quel cazzo di cuore trapiantato che a volte non sapevo come continuasse ancora a battere.

    Grazie a lei, ecco come.

    Quella donna che mi aveva avvolto nel conforto e nella gioia e in una fede incrollabile. Non aveva rinunciato alla speranza nemmeno quando le avevano detto che era tutto inutile.

    Ci strinse più forte, sentii le lacrime passare attraverso la mia maglia. Sentivo i suoi singhiozzi, i tremiti del suo corpo. Quando si staccò, parecchio tempo più tardi, l’angoscia dipinta in volto, fu solo per cambiare posizione e prendere in braccio Everett.

    Sussurrava, lo abbracciava e mormorava e lo baciava sui capelli. E nemmeno sapeva come si chiamasse.

    Per questo ero tornato.

    Per questo sapevo che era l’unico posto in cui potessi andare.

    Mi guardò attraverso il velo delle lacrime e scagliò una sfilza di domande silenziose.

    È sano?.

    Ha la tua malattia?.

    Dio, come hai potuto permetterlo?.

    Sollevai le mani e le diedi l’unica risposta che avevo.

    SI CHIAMA EVERETT. EVERETT CHASE

    .

    Everett Chase, di cui fino a tre sere prima ignoravo l’esistenza.

    Everett Chase, che mi era stato messo tra le braccia nel cuore della notte con una supplica e un avvertimento.

    Everett Chase, che non conoscevo, ma ero deciso a proteggere.

    Costasse quel che costasse.

    Fu surreale entrare nel vialetto circolare dei

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1