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L’estate del mirto selvatico
L’estate del mirto selvatico
L’estate del mirto selvatico
E-book287 pagine5 ore

L’estate del mirto selvatico

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Info su questo ebook

Le stagioni della vita ti aggrediscono a tradimento, ti ghermiscono l’anima e cancellano la nostalgia dei ricordi. Federico Canestri, scrittore in crisi con la moglie e in difficoltà creativa, è chiuso in una bolla indolente nel suo appartamento di Roma, finché apprende dal web che in una cavità del monte Circeo è stato ritrovato uno scheletro di un adolescente. Federico forse sa di chi sono quei resti. È lì che affiorano i ricordi su quell’estate che ti cambia, che appartiene a quel periodo dell’adolescenza in cui scopri l’amore, l’invidia, la gelosia, i tradimenti. È l’estate in cui sulle spiagge di Sabaudia la banda dei buoni, guidata da lui, detto Barabba, insieme allo sbruffone Hollywood, al timido Tasso Mannaro, alla bella Camicetta e all’impacciato Dracula, si fronteggia con la banda dei bulli, capeggiata dall’arrogante Hammer, i rissosi Crisantemo, Kamikaze e Moscarda, più le disinibite Mantide e Raffa. Federico deciderà di tornare all’ombra del Circeo per affrontare finalmente il passato, la misteriosa scomparsa di Dracula, il rapporto conflittuale col padre, la vita felice vissuta con Veronica, cercando decisive risposte nel presente. Ma chi erano veramente i suoi amici? E il padre? E lui? Lui è veramente chi crede di essere?
In un doppio percorso temporale e narrativo Federico cercherà di scovare gli amici e i nemici di quell’estate che lo ha cambiato per sempre, per scoprire in un perverso gioco di verità, reticenze e bugie cosa è accaduto in quella tragica notte del 3 luglio 1990.

Gian Luca Campagna (Latina, 1970) è giornalista, scrittore e comunicatore. Per sua stessa ammissione, scrive e legge per evitare il processo di analfabetismo di ritorno. Ha pubblicato i romanzi ‘Molto prima del calcio di rigore’ (Draw Up, 2014), ‘Finis terrae’ (Oltre, 2016), vincitore sezione emergenti al Premio Romiti e secondo al Giallo Indipendente del Salone del Libro di Torino, ‘Il profumo dell’ultimo tango’ (Historica, 2017), vincitore del premio giuria al Premio Barliario di Salerno.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2019
ISBN9788869433931
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    Anteprima del libro

    L’estate del mirto selvatico - Gian Luca Campagna

    PRIMO GIORNO

    Federico contò i gabbiani che sporcavano quel cielo morbido e cacciò la quarta bestemmia del giorno. Li seguì fino a consumarsi gli occhi mentre quelli spettinavano le nuvole. Sospirò, sorseggiò il caffè, sbirciò lo scontrino, s’accigliò e portò all’orecchio la conchiglia posata sul conto. Si sarebbe dovuto sentire il rumore del mare invece ascoltò solo l’ultimo successo di Enrique Iglesias. Guardò lo smartphone. Niente. Nessun sms, nessuna chiamata e nessuna notifica dai social da parte di Veronica. Sbuffò. Ormai era finita.

    Fissò di nuovo la linea dell’orizzonte. I gabbiani erano spariti, ma i fiocchi di nuvole se ne stavano ancora lì, in contemplazione verso la spiaggia. S’era fermato sulla terrazza di quell’hotel sul lungomare di Latina e ancora si chiedeva il perché. Aveva sbagliato direzione, così aveva deviato verso quel lido che gli ricordava tanto la Beirut dei palazzi disossati durante il conflitto mediorientale, scambiandolo per una pausa obbligata prima di arrivare alla meta. A sinistra il profilo della Maga sul promontorio del Circeo però lo aveva catapultato a quell’estate maledetta di tanti anni fa, motivo per cui da Roma aveva imboccato la Pontina.

    Il profumo di lavanda mischiato a quello del rosmarino che si alzava dai davanzali della terrazza gli solleticò le narici, strattonò il guinzaglio e il boxer calmò la sua naturale esuberanza. In quel viaggio s’era trascinato dietro Apollo, salvandolo dalle lamentele di Veronica e dai dispetti gioiosi di Silvia. Se doveva affrontare il passato che lo facesse almeno con quel grugno complice.

    Certo, oltre al passato che s’era affacciato arrogante, il presente gli dava altrettanto tormento. La situazione sentimentale era precaria per non dire compromessa, s’era allontanato da Veronica e ora che aveva tentato di riaffacciarsi alla sua vita lei gli aveva chiuso le porte del cuore. E la situazione professionale ristagnava. Come se la seconda fosse estranea alla prima, e la prima fosse svincolata dalla seconda. Era diventato uno scrittore di successo ma in quel momento la sindrome dello schermo bianco aveva circondato la sua anima e s’era accumulato un forte ritardo nella consegna del nuovo romanzo. S’avvicinava sempre più la deadline della sua vita. E s’era accorto che gli imprevisti superavano le soluzioni. Come se non ci fosse un domani. Come se tutto fosse sull’orlo di un precipizio e lui non potesse tornare indietro, con l’unica soluzione di spiccare un salto nell’abisso.

    La notizia lo aveva colto impreparato, come se le novità fossero avvezze ad avvisarti. La news era stata di quelle che ti cambiano il colore della giornata. Ci sono notizie che ti sbattono addosso senza che nemmeno te ne accorgi. Ci sono fatti che se ne stanno lì, immobili per anni, poi all’improvviso decidono di uscire dal guscio in cui si trovano relegati e si aprono al mondo, meglio di un paguro che si scoccia della quarantena. Ecco, ci siamo anche noi, sembrano urlare.

    Federico non aveva creduto ai suoi occhi, aveva scorso sul monitor quella notizia appena battuta dall’Ansa e aveva sogghignato. Si era reclinato sulla poltrona, aveva sorseggiato dalla bottiglietta dell’acqua e fatto perno coi piedi sulla scrivania. Aveva mollato una loffa silenziosa, olfattivamente sgradevole, ma nello studiolo s’era confusa col sudore rancido aggrappato sulle pareti. Aveva preso slancio e ficcato la testa dentro il pc, come per sincerarsi. Aveva sganciato un sorriso ebete: in una grotta del monte Circeo un gruppo di speleologi aveva ritrovato uno scheletro, scarnificato, con accanto pietre levigate usate come strumenti di caccia. La memoria correva alla scoperta del teschio dell’uomo di Neanderthal ritrovato dal professor Blanc nel 1939 all’interno della grotta Guattari, a San Felice Circeo, così recitava quell’articolo. Una scoperta sensazionale che aveva aperto un ventaglio di reazioni, da un rito antropofago svelato dal professore fino al fatto che il teschio non era altro che il resto del pasto di una iena. Certo, restava il cranio e lo scheletro del disgraziato di oggi: il nuovo uomo di Neanderthal aveva vissuto lì, al Circeo, aveva goduto di quell’angolo di paradiso quando era ancora un eden, ancora prima che Ulisse vi sbarcasse insieme ai suoi compagni per avventurarsi e scontrarsi con la maga Circe. Solo che qualche anatomopatologo aveva subito sgomberato il campo dagli equivoci: niente umanoidi, i resti sono più recenti, risalgono a un adolescente di circa sedici anni, intrappolato in quell’anfratto da almeno venticinque anni, gambe e braccia fratturate. Restava da capire come fosse morto e come fosse precipitato laggiù. Ma Federico temeva quelle risposte.

    Controllò di nuovo il cellulare. Nulla. Qualche sms via WhatsApp ma nessuna traccia di Veronica, scollegata dalla app da un paio d’ore. Sbirciò la fauna sulla terrazza: due adolescenti corteggiavano una coetanea, fumavano per darsi un tono, più in là due uomini d’affari in gessato scuro disegnavano finti progetti comunitari dove migliaia di euro erano pronti a finire nelle loro tasche, in spiaggia qualche temerario approcciava l’acqua, avventurandosi col costume e sfidando un ottobre sì tiepido ma sempre ottobre. Sorrise. Eccola, è l’estate indiana, quel periodo dolce dove i nativi d’America esorcizzavano l’arrivo dei rigori dell’autunno e dell’inverno vivendo la vita, come merita, coi tempi lenti. C’è sempre un’estate indiana nel corso dell’esistenza di un uomo, sbuffò. Si rifugiò in una Pall Mall. Contemplò ancora i tre ragazzi: lei era fasciata da una tuta nera che le lasciava scoperti i fianchi, dove insistevano dei tatuaggi tribali, indossava occhiali a specchio e aveva i capelli stirati col gel, uno dei ragazzi aveva i lobi uncinati da due orecchini a forma di teschio, la barba sfatta e un’aria melò, l’altro indossava una camicia aperta sul petto glabro e palesava atteggiamenti istericamente omosessuali che divertivano gli amici. Stava confidando l’ultima avventura: un cinquantenne che non aveva il coraggio di abbandonare moglie e figli per vivere quell’amore libero e senza omologazioni.

    Ripensò a Veronica. E a Silvia. L’accusa maggiore della moglie, ormai ex moglie? A te il quotidiano ti spegne. Non sai viverlo. Tu vivi solo di emozioni forti e sembri un eterno adolescente, alla continua ricerca di emozioni. Con l’ordinario vai in depressione lo aveva apostrofato prima che lui partisse per il Circeo. Sono uno scrittore. Vivo di emozioni, per farle poi vivere agli altri le rispondeva stizzito lui, quasi a trovarsi una giustificazione. La vita è una ballata, dove le incertezze si fondono con le certezze, nell’eterno gioco dei contrari che si riflettono, si respingono e si fondono, dove l’antitesi precede la sintesi. È qui che l’incipit precede il climax, è qui che il climax verga il ricordo, è qui che la vita si schiude di nuovo e ti abbraccia con le sue emozioni, fuse nell’eterno gioco in bilico tra ordinario e straordinario, alla ricerca di un impossibile equilibrio tra loro.

    Sbadigliò. Veronica gli sarebbe mancata anche sul lavoro. Giornalista in perenne difficoltà, correttrice di bozze per necessità, poi quella s’era improvvisata anche come scrittrice, aprendosi di fatto a una concorrenza domestica senza quartiere, che aveva sbalordito Federico, che invece la riteneva sua assoluta complice. Sospirò: quella correggeva le sue bozze fino a tarda notte, mentre lui la cullava con tisane al cumino e allo zenzero. S’impegnò a pensare che non poteva accadere una cosa così brutta proprio a lui, come se lui rispetto agli altri fosse immune dalle disgrazie della vita, come se lui sfuggisse alla legge dell’attrazione, gioia o dolore che fossero. Sbirciò il cellulare, fu tentato di telefonare alla psicologa per una parola di conforto.

    Il mare, la spiaggia, le dune, la lama d’asfalto, la macchia mediterranea, i laghi salmastri, la selva, la palude. La scoperta della gioia di vivere. Quel promontorio generava una ridda di emozioni, i ricordi si sovrapponevano perché il Circeo era la meta delle sue vacanze estive, quelle con la famiglia quando era una famiglia unita, prima del divorzio di mamma e papà, quelle con gli amici con cui era cresciuto insieme, quelli del liceo classico Alighieri che si scontravano con quelli del Giulio Cesare. Poi, anni più tardi, era diventato il luogo segreto dell’aperitivo al lago con Veronica. E già, gli scontri e i conflitti della vita. Sempre manichea, quando invece è il pensiero laterale a dominare la scena per sopravvivere.

    I cattivi da una parte. Hammer, Kamikaze, Crisantemo, Moscarda, Raffa e Mantide.

    Dall’altra, loro, i buoni. Camicetta, Hollywood, Tasso Mannaro. Lui, Federico Canestri detto Barabba.

    E poi lui, l’amico del cuore, Dracula.

    ***

    Su quella roccia macchiata di verde amazzonico potevi pensare di essere in un luogo fuori dal tempo, riservato solo ai sognatori. Sarà stata colpa del rum&cola ingoiato la notte precedente ma Federico si sentiva alcolico nel cuore. Se solo avesse voluto avrebbe fatto sgorgare i sogni dal di dentro, per toccarli e incoraggiare se stesso, fissandoli. Stirò un sorriso stanco e si rifugiò in una Pall Mall. Lo aiutava a riflettere. Avvertì in quell’aria pregna di natura selvaggia l’odore delle more schiacciate, si mischiò a quello del tabacco e al rumore dell’anima. Al Circeo non puoi non vivere a colori, tutti i fotogrammi della vita scorrono pieni di pixel riempiendoti gli occhi. Federico si domandò la differenza tra lo ieri e l’oggi. Proprio lì, su quella lingua di sabbia tutto aveva avuto inizio.

    Galeotto fu il bar di Charlie, appena sopra le dune, sospeso tra il mare e il lago di Paola. Tra l’odore della salsedine selvaggia e le fragranze Chanel delle donne ricche e annoiate che sfoggiavano brillanti anche in spiaggia, i ragazzi preferivano rintanarsi sotto il cono d’ombra della pergola del chiosco di Carlo l’americano, sbrigativamente chiamato Charlie. Lì c’era l’aroma forte del mirto che si confondeva con quello cupo dei gamberi e dei cannolicchi che sfrigolavano sulla griglia. Sabaudia era questa. E poi da Charlie c’era la tv. In spiaggia la direzione dello stabilimento Maga Circe aveva vietato il calcio, anche se andavano in scena i Mondiali di Italia ’90: non si poteva praticare sulla spiaggia, al bar non vendevano nemmeno i quotidiani sportivi, anche pensare al pallone poteva essere perseguito penalmente. Lamentele di un magistrato romano, che non ne poteva più di ascoltare sotto gli ombrelloni i discorsi di moduli alternativi applicati agli azzurri di Vicini, quello invece si smarriva tra le righe di Umberto Eco e a malapena tollerava i fumetti del figlio.

    Quel pomeriggio c’era la Colombia, una delle squadre rivelazione della Coppa del Mondo, che se la vedeva con i vu cumprà del Camerun, come li aveva sbeffeggiati Hollywood. Il risultato era segnato, aveva sbadigliato Tasso Mannaro, Barabba invece masticava fiele. Guardava la partita degli ottavi di finale del Campionato del Mondo in Italia con occhi distanti: aveva 16 anni ma avrebbe voluto tanto far parte della comitiva azzurra. Era già una punta della Primavera della Lodigiani, stava bruciando le tappe per diventare un calciatore professionista e faticava a immaginare che nessuno avesse pensato a lui. Era forte fisicamente, aveva il fiuto del gol e in questa Italia non c’era nessuno con l’istinto del killer. E poi conosceva il greco e il latino, nel rilasciare interviste si sarebbe avventurato anche in qualche citazione letteraria: avrebbe sfondato il video, era pronto a giurarlo. Vialli, Carnevale, Schillaci, Serena, Baggio, bah, facessero largo a lui piuttosto. E poi se la cavava sempre, perché altrimenti lo chiamavano Barabba, sorrise? Lui non fissava il tubo catodico, lo sguardo oscillava tra Camicetta e Mantide: due sogni proibiti quelle ragazze, divise dal tavolo del calciobalilla. Camicetta aveva due labbra pronunciate, indossava sempre un capo di una misura inferiore per far risaltare i seni che sembravano esplodere dal bikini, i capelli biondi impregnati di sabbia e salsedine più gli occhi verdi ancora innocenti, invece Mantide possedeva già la sfacciataggine della ragazza cresciuta in fretta, col tanga a disegnarle la divisione delle chiappe sode e un pezzetto di stoffa a coprire i capezzoli di un seno arrogante della sua terza misura soda, più due pupille scure che ti bucavano quando la guardavi. Il soprannome Mantide le derivava dalle chiacchiere, lei era di San Felice Circeo e giravano voci che la dava anche agli adulti ma non si legava mai a nessuno. Vicino a lei l’amica inseparabile dell’estate, Raffa, chiamata così per il taglio dei capelli alla Raffaella Carrà. Ma il richiamo del calcio divenne forte quando la palla cominciò a rotolare sull’erba del San Paolo di Napoli: Barabba rincorreva con lo sguardo quei ventidue che battagliavano. I cafeteros incedevano col passo lento degli dei, come moderni e arroganti incas, dall’altra parte le sagome nere, strette in quelle maglie verdi da mercato americano, ringhiavano e sbuffavano come se il riscatto dell’Africa passasse per quella disputa pedatoria.

    – Ma che cazzo c’hai da guardà?

    Eccola, la disputa, sbuffò Barabba. Quella testadicazzo di Hammer aveva sorpreso Hollywood a sbirciare le tette di Mantide. Inevitabile. Di tanti stronzi che fissavano le sfere di quella troietta proprio a quello doveva rompere le palle.

    – Sto parlando con te, idiota – continuò Hammer.

    Barabba lo conosceva bene Mario Antinori detto Hammer. Un autentico sbruffone. Quello giocava a calcio col Savio e frequentava il Giulio Cesare. Era un mastino dell’area di rigore da cui dovevi stare alla larga se non desideravi un labbro spaccato o un dente spezzato. Da qui il soprannome di chi non ti concedeva tregua. Quello era un lupo sul terreno di gioco. Se avevi un battibecco in campo, veniva a cercarti per mezza Roma insieme a qualche zingaro e passavi un brutto quarto d’ora. Un’autentica merda. Un vigliacco. All’ultima giornata di campionato uno scontro fortuito gli aveva procurato una distorsione alla caviglia destra, aveva mandato due amici rom a cercare il giocatore che secondo lui era intervenuto in modo scomposto nell’azione di gioco per dargli una lezione. Barabba aveva giurato a se stesso che se quello lo avesse minacciato in campo sarebbe andato lui a cercarlo. Non lo temeva, ma lo evitava, questo sì.

    – Non stava guardando nulla Mario – s’intromise Barabba. Solo lui poteva trarre d’impaccio Hollywood. Quel cretino s’era lasciato sorprendere ad ammirare quella ragazza che distribuiva sensualità e testosterone appena respirava. Osservò Mantide: il bikini bianco esaltava i capezzoli dell’adolescenza esplosiva e contrastava col rosso acceso del tattoo appena sopra l’ombelico. Le due ciliegie del simbolo del Pacha brillavano su quella pelle abbronzata.

    Hammer socchiuse gli occhi, gonfiò il petto come se dovesse scontrarsi in area di rigore contro il centravanti che aveva toccato il pallone senza avergli chiesto il permesso.

    – Sto parlando con lui – grugnì senza degnarlo di uno sguardo. L’aria era diventata ancora più calda. A Barabba il battito del cuore cominciò ad accelerare, era in discussione la sua leadership, davanti a Camicetta e, lo ammise, a Mantide. Quella ragazza era il suo sogno proibito. Se la ritrovava ogni estate davanti, sempre più procace e disinibita.

    Hollywood deglutì aria e paura, gli si seccò la gola. Per quanto si sforzasse, non riuscì a mascherare la tensione, non trovò nessuna frase per sdrammatizzare o scusarsi. Scrutò Barabba. Aspettava un suo aiuto, anche perché Tasso Mannaro si era lasciato cadere su una sedia per guardare la tv. Aveva deciso che la rissa non lo riguardava. Troppo vigliacco, Barabba digrignò i denti. Peccato che fosse assente Dracula, quello si sarebbe già gettato nella mischia ma la malattia lo aveva confinato a casa. Mantide cacciò un sorriso perfido e s’accucciò sotto il petto di Hammer come a cercare protezione. Moscarda, Crisantemo e Kamikaze s’alzarono dalle sedie per sostenere il capo, mentre Raffa si tolse gli occhiali da sole e sfilò lungo la passerella per andare a cercare i bicipiti di Hammer.

    – Chi ti ha autorizzato a guardare Mantide, mezzasega? – Hammer alitò a cinque centimetri dalla faccia di Hollywood. Sapeva di fumo e birra. Barabba avvertì le zaffate, l’aria si stava facendo elettrica.

    – Non c’è bisogno che ti scaldi, Mario. Senza nulla togliere alle tue amiche, qui ce n’è una altrettanto bella: noi abbiamo occhi solo per lei – Barabba si sciolse in un sorriso finto, cercando di scacciare il pericolo. Barabba si preparò mentalmente allo scontro, sbirciò la caviglia fasciata del bullo e capì che non avrebbe dovuto avere riguardi: il colpo lo avrebbe assestato lì. Hollywood fissò l’amico, abbozzò una reazione e indicò incerto Camicetta.

    – Vi masturba tutti insieme? O uno alla volta? – Mantide fissò impertinente Barabba, poi allungò il chewing gum allargando in modo osceno la bocca squadrando Camicetta. Moscarda, Crisantemo e Kamikaze s’erano appollaiati dietro le spalle di Hammer e con occhi carichi di odio scrutavano Barabba e Hollywood. Aspettavano solo un cenno per scatenare la zuffa.

    A Barabba il cuore cominciò a correre all’impazzata. Fiutò la tensione. S’impose di stare calmo. Come quando quella volta l’arbitro non gli concesse un rigore sacrosanto accogliendo le sue proteste in modo sprezzante: subì in silenzio sbuffando bestemmie e rabbia. Come quando il professore di greco gli chiese l’aoristo cappatico e lo rimproverò perché non aveva ripetuto a memoria la sua di spiegazione, rifiutando la risposta esatta. Sempre in silenzio, ricacciando dentro la frustrazione. Così promise a se stesso di stare calmo. Ma era comunque pronto. Non aveva paura.

    – Chiedi scusa alle nostre ragazze, sennò vi gonfio a tutt’e due – gli intimò Hammer. I tre che lo spalleggiavano stirarono un sorriso beffardo. Non era gente che si poneva problemi etici durante le risse: quattro contro due era uno scontro sbilanciato, ma la matematica non era mai stato il cruccio di quelle bestie. Barabba cominciò a scavare nella memoria una soluzione che lo facesse uscire da quel labirinto in cui s’erano cacciati. Maledì la vigliaccheria di Tasso Mannaro. Oh, lo avrebbe insultato dopo. Certo, se un dopo ci sarebbe stato. Sbirciò Hollywood: quello se ne stava impietrito davanti alla montagna di muscoli di Hammer, aveva lo sguardo terrorizzato e a malapena respirava.

    – Io?! Magari dovrebbe essere lei a chiedere scusa a Francesca – sgranò gli occhi Barabba, assumendo un’aria sorpresa e innocente non smettendo di fissare Mantide.

    – Tu gli hai mancato di rispetto – si rabbuiò Hammer tirando un buffetto alla ragazza.

    In cuor suo Barabba tirò un sospiro di sollievo. Se Hammer voleva lo scontro dialettico l’avrebbe accontentato, anzi ne sarebbe uscito vincitore.

    Le hai mancato di rispetto. È una donna, appartiene al genere femminile, non gli hai mancato di rispetto. Ignorante – intervenne deciso Tasso Mannaro, che s’issò dalla sedia.

    Barabba deglutì una bestemmia. Tasso Mannaro interveniva sempre a sproposito. Lo avrebbe riempito di sberle se fossero usciti vivi da quella situazione. Lo giurò a se stesso. Ma ora non sapeva come trarsi d’impaccio. Lo avrebbe spellato, promise, oh se lo avrebbe spellato vivo.

    Ad Hammer schizzarono gli occhi fuori dalle orbite. Virò lo sguardo su Tasso Mannaro e lo squadrò: gli arrivava a malapena alle spalle, era la metà di lui e il destino non lo aveva premiato con la prontezza di spirito: del resto, il soprannome era chiaro. Hammer non si capacitò di come fosse possibile che un ciccione del genere avesse potuto alzare la voce e offenderlo. Moscarda, Kamikaze e Crisantemo si voltarono e lo bruciarono con lo sguardo. Un cenno, attendevano solo un cenno, sembrava che stessero implorando il boss per scatenare la violenza che gli ribolliva dentro.

    – Ragazzi, avete stancato con le vostre smargiassate. Toglietevi di qui, che stiamo guardando la partita. Se non siete interessati, è bene che sgombriate – ululò dal bancone Charlie. Poi, arrivò un cameriere che si frappose tra Tasso Mannaro e Hammer.

    Crisantemo arricciò il labbro, furente. Diamo una lezione a questi sfigati sussurrò.

    – Se avete problemi tra di voi andate a risolverli altrove. Qui la gente ha voglia di calcio non di calci – li cazziò il barista, che intanto aveva raggiunto il cameriere. Era grosso quanto un armadio e usava un tono che non ammetteva repliche. Dispensava suggerimenti che assumevano sfumature di ordini.

    Crisantemo, Kamikaze e Moscarda guardarono il capo. Bastava un battito di ciglia. Hammer si divincolò dagli abbracci di Raffa e Mantide. La sua truppa restava in attesa. Camicetta non smetteva di fissare come una cagna furiosa le due ragazze, era pronta a scattare per prendere a calci quelle due zoccole. Il barista e il cameriere avevano divaricato le gambe e incrociato le braccia. Avevano deciso: i ragazzi dovevano togliersi dalle palle.

    – Non finisce qui… – soffiò Hammer continuando a rimpallare lo sguardo sprezzante tra Barabba, Hollywood e Tasso Mannaro.

    UNA SETTIMANA PRIMA

    Federico cacciò una sigaretta sgualcita dal pacchetto di Pall Mall e guardò le due squadre che si battevano in un’accesa partita di polo canoa. Gli schizzi dell’acqua arrivavano fino alla linea degli edifici sulla terraferma, sembrava quasi che li perimetrasse. Quelli con i caschi rossi avevano relegato nella propria porta quelli coi caschi bianchi, convinti che con le bestemmie potessero sfuggire alla rete avversaria. Federico sbuffò: sottoprodotti sportivi derivati dal calcio. Poi, tirò di fumo e distolse lo sguardo. Cominciò a fissare il parallelepipedo scuro delle Poste italiane: quell’edificio faticava anche a riflettersi nelle acque cristalline del laghetto dell’Eur. Scosse la testa. Gli era sempre parso come una figura geometrica tirata su dopo una veloce consulenza estetica chiesta a Ceaușescu, il dittatore rumeno giustiziato dal suo popolo nella notte di Natale del 1989. Palazzi così grigi che inducevano al suicidio appena li guardavi li aveva trovati solo nella Bucarest dei tempi del regime comunista. S’era sempre chiesto chi fosse stato il progettista. Dell’edificio delle Poste italiane. E cosa lo avesse afflitto per disegnare quell’orrore di vetro, ferro e cemento.

    – Alla fine voi siete riusciti a trovare il nome? – lanciò la cicca oltre la siepe d’alloro.

    Giuseppe e Francesca lo osservarono. La linea dello sguardo seguiva quelle finestre che sembravano cavità orbitali appena vomitate da un film distopico. Le strida dei gabbiani spaventati per gli schiamazzi della partita di canoa polo li richiamarono alla disputa sportiva. E al motivo per cui s’erano dati appuntamento al laghetto dell’Eur, a qualche metro dallo chalet di Giolitti, seduti sul prato come tre liceali sfaccendati.

    – Forse il nome che non ci fa dormire da un paio di giorni è un altro, non certo il progettista di quel palazzo di merda – si grattò la nuca Giuseppe, che continuò a guardare le evoluzioni delle canoe per segnare un gol. I bianchi stavano per capitolare. Era questione di secondi, ormai.

    Federico lo guardò, come se vedesse per la prima volta l’amico, Giuseppe Florenzi detto Hollywood. Le rughe gli disegnavano leggere linee concentriche attorno agli occhi, esaltate da una miopia che lo aveva assalito sin

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