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Morte ad Asti: La nebbiosa domenica dell’investigatore Martinengo
Morte ad Asti: La nebbiosa domenica dell’investigatore Martinengo
Morte ad Asti: La nebbiosa domenica dell’investigatore Martinengo
E-book270 pagine3 ore

Morte ad Asti: La nebbiosa domenica dell’investigatore Martinengo

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Info su questo ebook

È un Giorgio Martinengo sconvolto quello che, una nebbiosa domenica di febbraio, rinviene il cadavere della bella Vittoria Squassino, suo grande amore di gioventù e competente manager della succursale milanese di una banca tedesca. Poco tempo prima il nostro investigatore privato era stato ingaggiato dai vertici della banca proprio per indagare su di lei a causa di sospetti sul suo operato palesatisi quando le era stata attribuita una relazione con Valerio Cortese, affascinante imprenditore nel campo delle SPA a tema enologico. Martinengo conosce anche lui. L’indagine su Vittoria assume così i contorni di un viaggio a ritroso nel tempo, dove sullo sfondo di una Asti benestante e gaudente, come lo erano gli anni ’90, si delineano i difetti di una nazione, il disincanto della gioventù e le basi per una tragedia che metterà a dura prova le capacità dell’investigatore delle Langhe.

Fabrizio Borgio nasce prematuramente nella città di Asti il 18 giugno 1968. Appassionato di cinema e letteratura, affina le sue passioni nell’adolescenza iniziando a scrivere racconti. Trascorre diversi anni nell’Esercito. Lasciata l’uniforme, bazzica gli ambienti artistici astigiani, segue stages di sceneggiatura con personalità del nostro cinema, tra cui Mario Monicelli, Giorgio Arlorio e Suso Cecchi d’Amico. Collabora proprio come sceneggiatore e soggettista assieme al regista astigiano Giuseppe Varlotta. La fantascienza, l’horror, il mistero, il fantastico “tout court”, gialli e noir sono i generi che maggiormente lo coinvolgono e interessano. Esordisce partecipando con un racconto breve al concorso letterario Il nocciolino di Chivasso e ricevendo il premio della giuria. Ha pubblicato Arcane le Colline nel 2006 e La Voce di Pietra nel 2007. Per Fratelli Frilli Editori pubblica nel 2011 Masche (terzo classificato al festival Lomellina In Giallo) e nel 2012 La morte mormora. Nel 2014 esce Vino rosso sangue, il primo noir che vede protagonista l’investigatore privato Giorgio Martinengo. Firma un contratto con la Acheron Books di Samuel Marolla con la quale pubblica il romanzo IL SETTIMINO, terza avventura dell’agente speciale del DIP Stefano Drago. Asti ceneri sepolte è l’ultimo noir pubblicato con Martinengo protagonista, sempre per la Frilli editori. Dal 2015 è membro della Horror Writers Association. Nel 2017 partecipa all’antologia in ebook Spettrale con il racconto Il tempo delle spigole.Sposato, vive a Costigliole d’Asti sulle colline a cavallo tra Langhe e Monferrato con la sua famiglia e un gatto nero di nome Oberyn, dove oltre a guadagnarsi da vivere e scrivere i suoi romanzi, milita nella locale sezione della Croce rossa Italiana come soccorritore. Membro ONAV è anche assaggiatore di vino.
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2017
ISBN9788869432262

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    Anteprima del libro

    Morte ad Asti - Fabrizio Borgio

    Prologo

    La bellezza ci può trafiggere come un dolore.

    (Thomas Mann)

    Febbraio 2016

    La donna spiccava col suo pallore alabastrino dal mosto limaccioso nel quale giaceva immersa fino al collo. La testa reclinata all’indietro, agganciata al bordo del grosso tino di legno, al centro della sala piastrellata di bianco. I capelli, lunghi, pendevano, fuori, impiastricciati: suggerivano la desolazione di un’alga depositata sulla spiaggia dalle onde. L’abbandono della morte ricordava con crudo dolore la materialità dei corpi. Una realtà che Giorgio Martinengo ricordava ogni volta che osservava un cadavere e una realtà ancora più dolorosa, più devastante quando il corpo, in vita, l’aveva amato.

    Vittoria… Vittoria Squassino. Una delle donne più belle di Asti.

    Attorno a lui si muovevano gli uomini della scientifica. Indossavano spettrali tute in tyvek, si aggiravano lungo la scena del delitto con leggerezza irreale. I colpi di flash del fotografo scolpivano il quadro della tragedia con impietose scudisciate di luce. Giorgio si sentì attraversare da un brivido e si strinse nel paltò nell’inconscia ricerca di un abbraccio consolatorio, ma di fronte a un amore cancellato con violenza definitiva si sentiva solo come un asteroide: prossimo allo schianto.

    Dove la pelle di Vittoria non mostrava bianchezza esangue era accesa dalla colorazione intensa e antocianica del mosto. Un porpora cupo e carnale, profondo come un budello. Anch’esso suggeriva morte e aveva imbrattato pavimento e piastrelle con un effetto macello insostenibile.

    Giorgio osservava il tutto immobile, rincantucciato vicino all’ingresso del locale. A ogni flash stringeva gli occhi senza staccare lo sguardo da lei.

    Udì il vociare discreto della dottoressa Temperino alle sue spalle e torse il collo per sbirciare e strapparsi dalla vista di Vittoria.

    Attiguo alla sala bagni c’era un salottino arredato in stile arte povera. Sul divano posto di fronte al banco prenotazioni era seduta la Temperino, magistrato di turno e, vicino a lei, un uomo alto e abbronzato che lui conosceva bene: Valerio Cortese.

    Cortese stava sul bordo del sofà, i gomiti aguzzi appoggiati sulle ginocchia, proteso verso la dottoressa, attento. Assomigliava a uno scolaro che pendeva dalle labbra della maestra. La camicia sembrava brillargli addosso.

    Giorgio sospirò cercando di scacciare il senso di greve oppressione che gli pesava addosso. Una morte difficile, un caso difficile, la sua posizione difficile. Il nuovo anno era già tutto in salita.

    Ritornò a osservare il corpo di Vittoria, quando il medico legale lo stava ispezionando. Chiuse gli occhi, stringendoli forte per impedire alle lacrime di scorrergli sulle guance. L’odore intenso e famigliare del mosto impregnava tutto ed era insopportabile. D’impulso salì i gradini che separavano il luogo del delitto dal salotto e corse a sedersi su una sedia imbottita, vicino a un grosso ficus. Si osservò le mani protette da mezzi guanti di lana nera: tremavano piano, come quelle di un vecchio che piangeva. Si grattò la nuca, si scompigliò i capelli, che per l’inverno aveva lasciato crescere e che così avevano finito per mostrare sempre più fili bianchi, contribuendo a un effetto scolorito che sembrava armonizzarsi coi circostanti campi ricoperti di brina. Si sentiva esausto, stremato dalla consapevolezza che il calvario era appena iniziato.

    L’andirivieni di agenti e operatori lo distolse dal suo rimuginare e, sollevando lo sguardo, si accorse che Valerio aveva lasciato la stanza, mentre la Temperino si era alzata e stava bisbigliando qualcosa a un suo collaboratore. Il magistrato spostò poi la sua attenzione su di lui, serrò le labbra e gli indicò il divano.

    Giorgio la raggiunse e si sedette di fronte a lei.

    Maria Rosa Temperino riusciva sempre a misurare femminilità e freddezza professionale con precisione farmaceutica, appariva attraente e seria nello stesso tempo, in un dosaggio preciso, complici l’abbigliamento formale e una cura attenta della persona. I capelli corvini apparivano freschi di parrucchiere, la pelle fine e chiara aveva la compattezza di chi non lesinava in creme idratanti, il trucco era quello attento e onnipresente che solo una donna del sud sembrava saper portare. Si sedette a fianco a lui lisciando la gonna e intrecciando le dita sul ginocchio in un atteggiamento in apparenza più familiare di quello che lui aveva osservato prima, con Valerio.

    «Buongiorno, Martinengo», esordì. Lui cercò una posizione confortevole e salutò. Parlare stavolta gli era faticoso.

    La Temperino abbassò la voce quasi a un sussurro, tanto da far sembrare la conversazione il dialogo in un confessionale: «La vedo particolarmente turbato».

    «Conoscevo la vittima», dichiarò. Deglutì e lanciò un’altra occhiata all’uscio dal quale il personale della scientifica transitava in una processione dal passo nervoso.

    «La conosceva bene?».

    «Tanto da aver intrecciato una relazione, in passato», rispose asciutto.

    La donna annuì scrutandolo con grandi occhi scuri. «Capisco...».

    Un uomo sulla sessantina, magro e pelato, si avvicinò, indossava un camice in tessuto di cellulosa sopra un completo grigio dal taglio classico. Giorgio lo conosceva di vista, era il medico legale che aveva appena esaminato Vittoria. Scambiò poche, inudibili parole con la donna magistrato e lei annuì.

    «Ho autorizzato la rimozione del corpo», l’informò. «Allora, Martinengo, come è finito qua?».

    «Per motivi professionali», disse lui. «Seguivo l’attività della signorina Squassino da circa un mese». Si strinse nelle spalle mentre entravano gli agenti della polizia mortuaria spingendo una cassa di alluminio montata su una rumorosa lettiga. Da fuori, la nebbia lasciava filtrare una luminosità lattea che ingrigiva ogni ombra. Giorgio sentì una morsa alla gola, spalancò la bocca e si costrinse a prendere una boccata d’aria. «Adesso le racconto».

    Capitolo primo

    Un essere umano è una creatura estetica prima ancora

    che etica.

    (Joseph Brodsky)

    Gennaio 2016

    La convocazione gli arrivò con una telefonata mattiniera, mentre nell’aria si spandeva l’aroma del caffè e lui spegneva il fuoco.

    Giorgio si recò frettoloso nello studio e sollevò la cornetta del vetusto apparecchio di bachelite nera dopo appena due squilli.

    «Parlo col dottor Martinengo?».

    La voce dall’altro capo del filo, oltre a rivelargli una ostentata austerità, tradiva uno smaccato, scivoloso accento milanese.

    «Parla col dottor Martinengo».

    «Della Martinengo Indagini?».

    «Esatto».

    «Buongiorno, sono il dottor Cazzaniga, Safety manager della MidaGest».

    «Buongiorno».

    «La chiamo per motivi professionali», iniziò il Cazzaniga. Si schiarì la voce e tirò su col naso rivelando uno stato influenzale che il suo probabile stacanovismo aveva di certo ignorato.

    «La ascolto», lo incoraggiò Giorgio, la penna in mano e un’agenda aperta davanti a sé.

    «Saremmo interessati a ingaggiarla a causa di un nostro… definiamolo problema interno. È disponibile per un incontro di approfondimento?».

    Giorgio si sporse sulla scrivania come se stesse guardando giù da uno strapiombo, mentre con un occhio controllava che la telefonata fosse in fase di registrazione.

    «Problema interno è un’espressione vaga perché io possa farmi un’idea precisa».

    «Guardi, dottor Martinengo, Milano pullula di professionisti e agenzie grandi e strutturate, ma il nostro problema necessita di una presenza radicata sul territorio di riferimento. Questo non ci impedisce di guardarci attorno...».

    L’immediata, piccata risposta del Cazzaniga provocò in Giorgio la morsa improvvisa di una rabbia viscerale. All’arroganza che gli veniva sbattuta in faccia non riusciva a opporre il suo abituale aplomb. Ritornò a sedersi in posa più composta.

    «Per principio non rifiuto mai un lavoro e, proprio perché lo voglio fare al meglio, devo decidere in base alla maggiore quantità di informazioni che il cliente mi può fornire. Lei mi ha infiocchettato un discorso molto formale, ma io rimango senza sostanza per darle risposta».

    Ci fu una pausa da Milano, nel microfono distingueva un respiro lontano e i fruscii di chi gesticolava con l’apparecchio in mano.

    «Bene, dottore, ci avevano informato che lei era un puntiglioso. Apprezziamo il puntiglio e la perfezione, sa?».

    Il Cazzaniga aveva tentato la sua sbruffonata e vista la reazione aveva mutato tono. Giorgio si distese contro lo schienale. «Naturalmente, capisco che non possa entrare in dettagli così, per telefono. Mi serve però sapere di quali ambiti stiamo parlando quando ci si riferisce a un problema interno», rincarò assumendo il suo tono più professorale.

    «Fedeltà», si sbottonò il Cazzaniga. «Fedeltà di una nostra dirigente».

    Giorgio scarabocchiò qualche riga d’appunti annuendo. «Perfetto», sorrise alla finestra, i vetri lattei per la bruma che ammantava Valle Tanaro e risaliva con le sue spire indolenti fin su bricco Cornajàss. «Quando possiamo incontrarci, dottor Cazzaniga?».

    «Domani mattina? Alla sede italiana della MidaGest...». Gli lasciò l’indirizzo, lo salutò con decisione e mise giù.

    Giorgio rimase seduto dopo aver riposto la pesante cornetta. L’odore del caffè che s’insinuava dalla cucina lo chiamava alla colazione, le due righe scritte per scrupolo e abitudine, come se il fissare su carta con inchiostro gli donasse il conforto tangibile e la conferma di un lavoro, lo rassicuravano per il prossimo futuro. A pelle, il Cazzaniga gli suggeriva il tipo d’uomo totalmente votato a un mondo che aborriva, ma che era anche il suo, questo per quanto lottasse per costruirsi una bolla ideale dal quale astrarsene.

    Il resto della giornata lo trascorse a pianificare il tempo che avrebbe dovuto dedicare al nuovo caso. Era un periodo difficile ed erano sempre meno i clienti che si potevano permettere le sue indagini, il nuovo anno non sembrava promettere ricchezza e, nonostante tutto, la telefonata del milanese avrebbe potuto essere davvero un buon inizio.

    Il Cazzaniga lo aveva testato con più malizia di quel che aveva immaginato in un primo momento. Sfruttava la sua natura un po’ baüsha per smascherare incapaci e incompetenti. Se lo figurava simile a un grosso ragno appostato nella sua tana, lo sguardo sornione e le mandibole pronte a sbranare la vittima malcapitata. Giorgio se ne rendeva conto ogni minuto di più che trascorreva a ricostruire la dinamica della conversazione che aveva portato alla proposta d’ingaggio. Ne era talmente convinto che dopo pranzo era andato di nuovo in studio a riascoltare la telefonata, tra un sorso di caffè e l’altro.

    MidaGest. Era andato a cercare un po’ di dati riguardanti i nuovi clienti su internet. Una scorporata de La Bank con una vocazione al radicamento territoriale, in un’ottica di investimenti glocal che negli ultimi tempi tanto piacevano alle amministrazioni locali. Un Giano bifronte con uno sguardo volto alla finanza internazionale e l’altro alle ancora solide e liquide realtà della piccola provincia, con guadagni concreti e parsimoniosi risparmi.

    Spulciando l’organigramma notò che il direttore responsabile era un tedesco, un certo Edmund Krüger; c’era l’appena conosciuto dottor Cazzaniga e altri nomi, accompagnati da complesse denominazioni anglofone che non accesero la sua curiosità e sulle quali non si soffermò.

    Squali, pensò. Gente capace di razziare via dalle tasche di un moribondo anche pochi centesimi pur di rientrare nei loro obiettivi e presentare ancora il conto del disturbo alla vedova in lacrime. La crisi li rendeva ancora più famelici e spietati, gelidi, determinati a vendere e guadagnare fino alla fine su ogni briciola, ogni rimasuglio; su tutto.

    C’erano indubitabili vantaggi a lavorare per clienti come loro; notti insonni, giorni intensi, ma guadagni sicuri. Non badavano a spese, saldavano le parcelle senza battere ciglio, versando i bonifici per lo più entro i tempi previsti dalla fatturazione.

    ***

    Il mattino seguente si alzò molto presto. Fuori, le tenebre avevano ancora l’ipnotica profondità della notte e faceva un freddo umido che ricopriva ogni cosa come un gelido sudario. Fece una doccia bollente, indugiando nel box nel tentativo di scacciare dal corpo i madidi brividi che l’avevano attraversato non appena aveva messo i piedi nelle ciabatte; poi decise di radersi, anche se non era domenica. S’insaponò abbondantemente, schiacciando il pennello spumoso sul viso, cercando di ammorbidire la pelle e sollevare i peli della barba, poi passò il rasoio con lentezza, partendo dalle basette e le guance, tirandosele con due dita e ascoltando, nel silenzio del bagno, il piacevole raschiare della lama che scivolava via. Solo pelo, lasciando per ultimi il mento e la gola. S’insaponò una seconda volta e ripeté l’operazione alla ricerca di aree del volto ancora ruvide. Quando ebbe terminato si sciacquò con l’acqua gelida e si esaminò allo specchio. La pelle si era leggermente sgranata sotto al mento e alcune chiazze di sangue rosseggiavano sul suo pallore. Aprì l’acqua bollente e sotto il getto vi inzuppò un piccolo asciugamano di spugna; chiuse l’acqua. Volute di vapore avevano appannato lo specchio. Vi passò la mano umida sopra, per potersi ancora guardare, serrò le labbra e si applicò l’impacco ancora fumigante, premendo forte sul viso. Rimase così a sopportare il calore che dilatava i pori e a respirare profondamente dal naso finché non avvertì l’asciugamano iniziare a raffreddarsi. Si tolse l’impacco e si strofinò con un gel dopobarba dalla forte essenza mentolata. Avvertì un debole bruciore e poi una rivitalizzante sensazione di fresco. Si passò la mano sulle guance, sul mento, accarezzando la pelle finalmente liscia e compatta e, soddisfatto, andò a vestirsi.

    Decise per il completo di velluto a coste, una camicia chiara e una cravatta di lana verde, poi consumò una rapida colazione a base di caffellatte con molto caffè e due croissant tagliati a metà e riempiti di marmellata d’arancia. Sospirò. Si sentiva ansioso come un maturando il giorno dell’esame. La sottile soggezione, tutta piemontese e provinciale che provava verso l’ipertrofica gràn Milàn si era insinuata in lui come una paura atavica.

    L’é ün travàj. Si disse. Màc ün travàj.

    Si paludò nell’abbraccio pesante del suo montgomery e uscì. Quando mise in moto il Land Rover, disturbando la quiete dell’alba con il suo borbottare da trattore, una luminosità dalle sfumature violente contornava la linea ondulata dei bricchi, proprio in direzione di Milano.

    Capitolo secondo

    Sì, Milano è proprio bella, amico mio, e credimi

    che qualche volta c’è proprio bisogno di una tenace volontà

    per resistere alle sue seduzioni.

    (Giovanni Verga)

    Gennaio 2016

    Impiegò oltre due ore per arrivare a Milano. Da Alessandria, inoltrandosi verso oriente, la nebbia, in banchi spessi come barriere di bambagia, si era alternata a una foschia vaporosa, che svelava campi di terra brulla, caramellata dal ghiaccio.

    Alla barriera s’indovinava un sole senza raggi, sospeso tra i palazzi e le antenne come una luna piena fuori posto. Il traffico meneghino si snodava e diramava lungo gli svincoli e le tangenziali in code lente e nervose. Giorgio imprecò.

    Tutto a Milano era contagioso, la fretta, il mito di efficienza e dinamicità, l’ambizione di concretezza, tesa verso un irrealizzabile stampo di carattere anglosassone. Giorgio si sentiva un estraneo sempre e comunque e a lui, che aveva viaggiato in lungo e in largo l’Europa, succedeva soltanto lì. Londra, Parigi, Heidelberg, Amsterdam, Barcellona… i percorsi classici degli interrail li conosceva a menadito, gli sembrava di attraversare quelle strade ferrate come un pastore seguiva un tratturo.

    A Parigi e Berlino appariva talmente a suo agio che i turisti lo fermavano per chiedergli informazioni. A Milano sembrava risvegliarsi la sua ancestrale natura di uomo di campagna e si aggirava confuso tra lo stress dei suoi abitanti, che le linee della metropolitana sembravano essudare come icore oleoso e irritante. Nella guida l’ansia si gonfiava come una mongolfiera e così si protendeva in avanti, aggrappato al volante come un vecchio miope, sempre pronto a mettere la freccia terrorizzato dalla prospettiva di sbagliare l’uscita e inoltrarsi nel ginepraio stradale dell’hinterland.

    La sede della MidaGest era poco oltre Assago e svettava dagli ultimi piani di un grattacielo dalle vetrate color quarzo, dominando la piana strinata dal gelo che si stendeva davanti: l’immenso zerbino della città.

    Parcheggiò il Land Rover dalle fiancate ancora schizzate di fango in mezzo a SUV e berline tedesche lucide e s’incamminò con passo lento verso l’androne; alla fine era arrivato con un quarto d’ora d’anticipo che gli parve un buon compromesso. Arrivare ancor prima avrebbe potuto denotare un eccessivo nervosismo e quindi un’insicurezza ben poco spendibile sul lato professionale; spaccare il secondo avrebbe comportato troppi rischi pratici, mentre un ritardo sarebbe stato intollerabile. Nonostante tutto, aveva la sensazione di riuscire a mantenere ancora un certo controllo, dosando i tempi.

    Al banco c’era una giovane donna impettita in una giacca blu. Era truccata, capelli lisci e corvini; probabilmente aveva anche una laurea con ottimi voti, ma da certi portoni ci passi solo col giusto pedigree. Lei, intanto, aveva messo un piedino oltre la soglia, nel vestibolo, in attesa.

    Si presentò esibendo il tesserino. La donna lo prese fra le dita affusolate, aggrottò, fugace, l’ampia fronte liscia e aprì un sorriso meccanico come il movimento dell’otturatore di una macchina fotografica. Sollevò il cordless e parlò, concisa e seriosa, con qualcuno ai piani alti. Gli restituì il tesserino e indicò le porte a specchio di un ascensore. Giorgio ringraziò, ma lei era già assente, assorbita dalle sue mansioni.

    Approdò a un corridoio con il pavimento listato di legno wengé. Ficus a decorare gli angoli, stampe che pubblicizzavano i prodotti finanziari e i servizi della banca d’investimenti. Volti giovani, felici, illuminati da un’eterna estate che inondava di luce case moderne ed eleganti. Un immaginario patinato che aveva sempre considerato agghiacciante per falsità e ipocrisia.

    Al fondo del corridoio individuò una sala d’aspetto deserta. Vicino a un finestrone, con vista sull’orizzonte velato di smog e polveri sottili, era sistemato un divanetto di pelle nera, sul quale prese posto. Mancava una manciata di minuti all’appuntamento, ma voleva farsi trovare seduto comodo.

    Tra le mille passioni e interessi che attraversavano di continuo la sua vita, c’era stata una fase da scacchista che aveva impegnato non poco del suo tempo libero all’epoca dell’università. Aveva letto diversi fra i testi considerati fondamentali, come Il centro di partita di Romanovsky, Anthology of chess combinations e Il mio sistema di Nimzowitsch. Si era spinto a disputare qualche gara provinciale, con risultati dignitosi e quella forma mentis dell’anticipo, dell’impostare attacchi e difese lavorando sul predire le mosse avversarie gli era rimasta, salda e continua, in tutte le sue relazioni. Come diceva Bronštejn, l’arma più potente a scacchi è quella di avere la prossima mossa. Abbozzò un sorriso tra sé, estrasse il telefono dalla tasca interna del montgomery e vide che erano trascorsi sei minuti dall’ora dell’appuntamento. L’espediente di far attendere come simbolo del potere, della libertà di disporre del tempo degli altri. Poco elegante, ma in quella sottile arroganza c’era lo stile italiano dell’autorità. Capì che non avrebbe parlato con Krüger, ma si sarebbe misurato col Cazzaniga.

    Ecco, l’attesa. L’inutile generatore di ansia che nella vita quotidiana lavorava sempre a pieno regime, un’idrovora d’anime.

    Udì dei passi rintoccare sul parquet. Secchi, nervosi. Passi di donna. Si aprì la porta che aveva davanti e si affacciò sull’uscio una signora di bassa

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