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La distanza più breve: Finale di partita per Costante e Serravalle
La distanza più breve: Finale di partita per Costante e Serravalle
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E-book255 pagine3 ore

La distanza più breve: Finale di partita per Costante e Serravalle

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Info su questo ebook

Nuove nubi offuscano il cielo sopra le vite sospese di Tancredi Serravalle e del commissario Giacomo Costante. Sulla loro amicizia aleggia l’ombra dei sensi di colpa, delle recriminazioni e di troppi silenzi. La violenza di ricordi passati e di una vendetta non ancora consumata torna a riecheggiare nella mente del professore e rischia di trascinarlo in un gorgo senza vie di fuga. È un finale di partita che non ammette incertezze.

Vincenzo Maimone (Messina, 1970) si è laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Messina. È Professore Associato in Filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania. È autore di vari saggi e articoli su riviste scientifiche e della monografia La società incerta. Liberalismo, individui, istituzioni nell’era del pluralismo (Rubbettino, Soveria Mannelli 2002). Ha pubblicato tre romanzi, Un nuovo Inizio (Sampognaro e Pupi, 2009) selezionato come semifinalista al Premio Scerbanenco; L’ombra di Jago (Sampognaro e Pupi, 2011); La variabile Costante (Fratelli Frilli Editori, 2014), romanzo finalista al “Tolfa Gialli & Noir 2015” e vincitore del “Premio Romiti 2015 – Sezione Scrittori Emergenti”; Sicilia terra bruciata (Fratelli Frilli Editori 2016); La trappola dell’irrazionalità. Potere, morale e conformismo (AlboVersorio Editore 2019). È appassionato di cucina e ama andare in giro in sella alla sua Harley Davidson.
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2020
ISBN9788869434426
La distanza più breve: Finale di partita per Costante e Serravalle

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    La distanza più breve - Vincenzo Maimone

    CAPITOLO PRIMO

    «Svegliati, cazzone!».

    La voce del demone socratico risuonò nella testa di Serravalle con lo stesso fragore di un gong tibetano. Anche il senso di fastidio era lo stesso. Il suo cuore sobbalzò e con un gesto istintivo Tancredi sollevò il lenzuolo fin sopra la testa, nel tentativo di scomparire, lasciando che il sonno e l’oblio avessero il sopravvento, almeno per altri cinque minuti.

    «Svegliati, ti ho detto!», lo rintuzzò la sua voce interiore.

    Serravalle si rigirò portando la mano all’orecchio e mugugnando parole incomprensibili.

    «Cazzo, Tancredi! Guarda come ti sei ridotto. Sembri un bambino capriccioso e francamente ne ho piene le palle di farti da madre petulante. Perciò, muovi il culo da quel letto e vedi di dare un senso alla tua vita!», sbottò senza giri di parole il demone.

    Tancredi ringhiò ancora una volta e lasciò che quelle parole gli scivolassero addosso. Aveva ormai acquisito una certa pratica in questa disciplina.

    Un raggio di sole si insinuò nella stanza facendosi largo con prepotenza tra gli scuri delle persiane. Il calore che si portava dietro contrastava con la fredda atmosfera di quell’interno. Tuttavia, non era la temperatura, che si manteneva nella media stagionale tipica di un’estate meridionale, a rendere algido l’ambiente. Era più una questione di umori, di sensazioni sopite e imbrigliate nella mestizia. Era l’insieme confuso dei ricordi che si erano depositati sulle cose, che si erano cristallizzati avvolgendo ogni soprammobile, sigillando le bottigliette di profumo ormai velate dalla polvere, opacizzando i monili sparsi disordinatamente nel portagioie, colonizzando ogni angolo e increspatura dei muri, ad aver reso quella camera refrattaria e impermeabile al benché minimo slancio vitale.

    Il demone socratico non intendeva comunque darla vinta a Serravalle. Non aveva smesso un solo istante, da tre mesi a quella parte, di pungolarlo e richiamarlo alle sue responsabilità. Era stato un lavoro estenuante riuscire a fargli concludere l’anno scolastico, fargli adempiere tutte le incombenze burocratiche che, in tempi normali Tancredi avrebbe considerato delle solenni cazzate e che adesso gli apparivano ancor più inutili e prive di senso. Si era fatto in quattro per tenerlo a galla, riparandolo con la sua ironia cinica dagli sguardi pietosi e dalla compassionevole curiosità dei colleghi che sembravano voler misurare l’intensità del suo dolore da ogni singola sfumatura delle sue espressioni facciali. Aveva accolto la fine dell’anno scolastico come una vera e propria liberazione. Tuttavia, il demone era pienamente consapevole che il suo carico di lavoro non sarebbe diminuito, anzi. La mancanza di un’occupazione regolare che tenesse la mente di Serravalle impegnata avrebbe acuito quella sensazione di smarrimento che lo aveva avviluppato.

    «Con tutta la filosofia che hai studiato, non sei capace di tirarti fuori da questo pantano? Darti una risposta sensata? Trovare una via di fuga dal labirinto nel quale ti sei andato a cacciare?». Il demone scoccava domande estraendole dalla sua faretra con la rapidità di Robin Hood. Tancredi si agitava nel letto cercando di evitare di essere trafitto da tutta quella schiettezza a buon mercato.

    «Lasciami in pace, ti prego», sussurrò Serravalle mettendo vigliaccamente la testa sotto il cuscino.

    «Ti piacerebbe? Lo sai che con me le preghiere non attaccano», lo schernì il demone che non aveva alcuna intenzione di dargli tregua.

    «Sveglia!»

    «Ma cosa cazzo vuoi da me? Smetti di rompermi i coglioni», sbottò Tancredi, voltandosi di scatto.

    «Scusa…papà!», rispose Chiara con la voce resa singhiozzante da un imminente pianto.

    Tancredi impallidì.

    Chiara era immobile sulla soglia, sorpresa e spaventata dalla reazione del padre.

    Serravalle balzò fuori dal letto e corse verso di lei. La abbracciò, stringendola forte a sé.

    «Scusa, Chiara. Non volevo risponderti in quel modo», continuava a ripeterle, accarezzandole i capelli.

    «Sei proprio un cazzone!», lo redarguì il demone socratico.

    Decise di concedergli un po’ di respiro. Era ideologicamente contrario a qualsiasi forma di accanimento terapeutico ed inoltre considerò che, in fondo, il suo obiettivo era stato raggiunto. Tancredi era sceso dal letto e il senso di colpa per quella reazione incontrollata nei riguardi di Chiara lo avrebbe sostenuto per il resto della giornata. Certo, la cosa aveva prodotto qualche effetto collaterale. Lo sgomento che si era dipinto sul suo volto aveva creato nella sua cinica scorza demonica qualche crepa, un accenno di ripensamento circa l’efficacia della sua strategia motivazionale. Chiara, nonostante le apparenze, era una bambina forte, anche se forse non ne era ancora del tutto consapevole. Ma Chiara era un capitolo a parte. E su quel fronte il demone aveva evitato di calcare troppo la mano nello spronare Tancredi a ripristinare una parvenza di normalità.

    Una statuina di cristallo era ciò che Chiara era diventata agli occhi del padre. Un oggetto delicato da maneggiare con estrema cura per evitarne la rottura.

    Nella memoria di Serravalle l’immagine della sua corsa fuori dalla macchina con le braccia tese verso di lui era impressa in maniera indelebile e si sovrapponeva confondendosi con il rosso acceso delle fiamme che avvolgevano l’abitacolo e inghiottivano Camilla. Era questa impossibilità di scindere quei fotogrammi ad amplificare la sensazione di essere trascinato in un gorgo che continuava a sballottare lui, Chiara e tutto quello che fino a quel momento aveva dato senso alla sua vita senza che riuscisse ad arrestare quella folle centrifuga. Ed era il timore di quel vortice che lo costringeva ad abbassare lo sguardo tutte le volte che gli occhi di Chiara incrociavano i suoi cercando una risposta, un conforto, un istante di serenità.

    Aveva provato mille volte a parlarle: nelle notti insonni e quando cercava di rasserenarla dopo uno dei tanti risvegli bruschi, tormentati da incubi, che nelle prime settimane dopo la tragedia si erano succeduti senza soluzione di continuità. Ma la corazza che Chiara si era costruita intorno sembrava impenetrabile e per nulla scalfita dal blando assedio che per pudore o insicurezza Serravalle le aveva cinto intorno.

    Anche per Chiara la conclusione dell’anno scolastico aveva rappresentato un’occasione per riprendere fiato. Non era stato facile per lei ritornare tra i banchi. Il suo umore era cambiato: era più silenziosa, meno partecipe alla vita della classe, più introversa e scostante. La sua insegnante, intuendone il disagio, si era mostrata comprensiva su alcune consegne non rispettate e su errori un tempo impensabili. La quantità di bambagia nella quale era stata avvolta, tuttavia, aveva finito per ritorcersi contro di lei isolandola dal resto della classe.

    Sei la cocca della maestra!. Era stata questa la frase rivoltale da un compagno di classe con l’asciutta e schietta cattiveria che è propria dei bambini, a scatenare la sua reazione aggressiva. Chiara aveva cominciato a schiaffeggiare il malcapitato riversandogli contro tutto il dolore che aveva accumulato nei tre mesi precedenti. Una tempesta di sberle che aveva reso paonazzo il volto del bambino.

    Tancredi era andato a riprenderla a scuola con il morale sotto le suole, costernato e disorientato al tempo stesso. In un cantuccio il demone socratico aveva solo bisbigliato, badando bene di non farsi sentire dal suo ospite: Ben fatto, piccola!. Anche se era pienamente conscio che una simile situazione non fosse più sostenibile. Pensare che la cosa potesse risolversi da sola, che sarebbe semplicemente sparita da un giorno all’altro era qualcosa privo di ogni logica. Una speranza ancora più eterea di una pia illusione.

    Stress post traumatico, così lo aveva definito un suo amico psicologo, al quale si era rivolto per avere qualche consiglio. «Devi parlarle. Devi aiutarla a ricostruire in maniera chiara gli eventi. Forse dovresti provare con un periodo di psicoterapia», gli aveva suggerito.

    «E forse dovresti fare lo stesso anche tu. Non ti farebbe male andare in analisi per un po’», aveva concluso, prima di chiudere la conversazione.

    E a te non farebbe male andare aff…, sbottò il demone lasciando in sospeso la frase e preferendo mantenere una posizione distaccata di ascolto.

    Tancredi aveva abbozzato una mezza risposta affermativa, ma in cuor suo sapeva bene che non avrebbe seguito fino in fondo il consiglio dell’amico analista.

    Il demone ghignava.

    Qualcosa avrebbe fatto, senz’altro. Quella situazione di stallo non faceva bene a nessuno dei due. E di questo Tancredi era pienamente consapevole. Ma l’analisi, no.

    Datti una mossa!, aveva ricominciato a dirgli il suo demone.

    Sì, sì, ma non continuare a rompere le palle, rispose piccato Serravalle.

    Versò il latte appena scaldato nella tazza e la porse a Chiara.

    «Vuoi qualcos’altro?», le chiese cercando di ammorbidire il tono della sua voce distanziandosi dalla spigolosa irritazione con la quale l’aveva scossa qualche istante prima.

    «Biscotti», le rispose Chiara, tirando su con il naso e asciugando con un gesto rapido della mano un’ultima lacrima che scendeva sulla sua guancia.

    «Ti va di andare al mare? Potremmo scendere a Santa Maria La Scala e arrivare fino alla pietra salpa, che ne dici?», domandò Tancredi.

    «Come vuoi tu, papà», rispose la bambina con un tono non particolarmente entusiasta. La rassegnazione della sua voce collideva con l’entusiasmo che solo un anno prima Chiara era solita esprimere tutte le volte che Tancredi proponeva quella meta. Chiara adorava saltellare tra uno scoglio e l’altro e ancor di più, da quando aveva imparato a nuotare, tuffarsi dalla scogliera e sguazzare nella piccola insenatura circondata dalla pietra lavica.

    «Dai, Chiara. Allora si va. Al ritorno potremmo prendere la navetta per ritornare a casa. Che ne pensi?».

    Chiara annuì e continuò a sorseggiare il latte.

    Tancredi cominciò a preparare tutto l’occorrente per il mare, cercando di limitare al massimo il carico della borsa. Gli spostamenti erano diventati alquanto problematici. La macchina era andata distrutta nell’esplosione, esattamente come la vita di Camilla e le aspettative di Tancredi, e Chiara inoltre, da quel giorno, si era rifiutata di salire su un’automobile. Alcuni tentativi di superare questo blocco si erano rivelati fallimentari e oltremodo deleteri. Chiara si irrigidiva, cominciava a tremare e piangere.

    Tancredi aveva inserito anche quel sintomo tra le cose di cui avrebbe dovuto occuparsi, prima o poi. Ma più passavano i giorni e le settimane, più la lista si allungava e gli alibi si moltiplicavano.

    Padre e figlia sembravano aver deciso di vivere in un tempo sospeso, di lasciar decantare tutte le loro paure, mentre le domande che reciprocamente avrebbero voluto porsi si accatastavano e gli spazi diventavano sempre più angusti.

    Ed era proprio questo che più di ogni altra cosa, faceva incazzare il demone socratico.

    CAPITOLO SECONDO

    Costante allentò il nodo della cravatta e in barba all’eleganza sbottonò la camicia per dare un po’ di refrigerio al collo e per massaggiare la cicatrice irritata dal sudore e dallo sfregamento del colletto.

    Si sarebbe rassettato non appena giunto in ufficio, ma nel frattempo cercava di difendersi come meglio poteva dalla temperatura canicolare che imperversava su Acireale già da qualche settimana.

    La giornata era afosa e il livello di umidità appesantiva la sua andatura. Si tolse il panama bianco e si passò una mano tra i capelli che diventavano ogni giorno più brizzolati.

    Il cappello era stato un regalo di Carla.

    Costante aveva guardato con sospetto il voluminoso pacchetto che la sua compagna gli sventolava davanti con sorriso beffardo, presagendo, dalla malizia che era ormai in grado di leggerle sul volto, l’imminente trappola che stava per scattare.

    Non era mai stato un amante dei copricapi, qualunque fosse la loro foggia o funzione, ma in quell’occasione non aveva avuto il coraggio di deludere le aspettative della sua compagna e dunque aveva capitolato dopo aver opposto una blanda resistenza, accettando di indossarlo.

    «Stai benissimo!», aveva esclamato Carla, osservando con ammirazione la sfilata del commissario davanti allo specchio.

    Costante aveva annuito senza troppa convinzione.

    «Sembri Clint Eastwood», lo aveva schernito Carla.

    Nonostante i suoi sforzi di fantasia, Costante non riusciva proprio a immedesimarsi nel personaggio e l’immagine che vedeva riflessa nello specchio gli ricordava molto più il Grinta. E la cosa non lo inorgogliva particolarmente. Chiuse l’occhio sinistro per rendere più efficace la sua interpretazione. Carla applaudiva e Costante ringraziò con un elegante inchino il pubblico presente.

    Il cappello, nonostante la reticenza iniziale mostrata da Costante, si era rivelato un valido alleato contro la calura estiva e alla lunga il commissario aveva parzialmente ribaltato il suo giudizio.

    Riprese a camminare cercando di intercettare tutte le zone d’ombra che il percorso verso l’ufficio gli permetteva di sfruttare in modo da evitare di peggiorare le sue già precarie condizioni estetiche. Una goccia di sudore scivolò lungo la schiena acuendo la sensazione di fastidio che il caldo gli provocava.

    Lungo corso Umberto qualche sparuto turista in bermuda e infradito trascinava stancamente il passo ostentando camicie dall’improbabile fantasia che contrastavano con il rosso acceso della carnagione ustionata da un sole aggressivo.

    In prossimità del manto stradale l’aria tremolava amplificando l’effetto da miraggio desertico e sfocando il profilo dell’orizzonte.

    Costante si fermò ancora una volta. Questa volta non erano stati né il caldo asfissiante, né la stanchezza a farlo arrestare. Il suo sguardo era fisso su un punto preciso della strada: la sua attenzione era come calamitata verso un luogo che da tre mesi a questa parte aveva imparato a conoscere e che, tutte le volte che gli occhi si soffermavano a osservarlo, scatenava nel suo animo una tempesta scomposta e inarrestabile di sensazioni. Tre transenne ne delimitavano il perimetro. Del materiale di risulta accatastato su ciò che restava del marciapiede segnalava dei lavori ancora in corso. Una lugubre macchia color nero fumo ricopriva quasi per intero la superficie scrostata di un vecchio muro cadente. Era in quel punto che la macchina di Tancredi era esplosa. La deflagrazione aveva scosso gli edifici circostanti mandando in frantumi i vetri di alcune abitazioni, dissolvendo in un istante la vita e il corpo di Camilla. Al solo pensiero l’eco di quello scoppio rimbombò nella testa di Costante. La sua coscienza ebbe un sussulto. La valanga di recriminazioni, sensi di colpa e interrogativi che lo aveva assalito nei giorni successivi a quella tragedia era adesso nuovamente di fronte a lui.

    E se fossi stato più veloce nel condurre le indagini, e se avessi compreso prima il legame tra le vittime, e se… e se….¹

    Una lunga sfilza di ipotesi, di atti mancati, di mere contingenze erano al suo cospetto e con tono imperioso lo pressavano chiedendogli conto e ragione di qualcosa non più riparabile.

    Era per questo motivo che il commissario non amava passare da lì. Preferiva allungare il tragitto che da casa lo conduceva sino all’ufficio piuttosto che sottoporsi a quella sottile ma intensa violenza psicologica.

    Quella mattina, tuttavia, si era fatto forza e aveva scelto di fermarsi di fronte a quell’angolo maledetto. Aveva deciso di sfidarlo apertamente, quasi a volerne carpire ogni recondito segreto ancora celato, un qualche indizio sfuggito ai più, ma rimasto lì a prendersi gioco di tutti loro. Ne aveva parlato anche con Carla, proprio prima di uscire. Il pretesto lo aveva dato una domanda a bruciapelo che lei gli aveva posto.

    «Come sta Tancredi?».

    Costante era rimasto in silenzio per qualche istante. Aveva abbassato lo sguardo rimanendo a fissare il lento vortice voluttuoso del caffè dentro la tazzina.

    «Non lo so. È un po’ che non ci sentiamo», aveva risposto laconicamente.

    «Dovresti chiamarlo. Credo che entrambi abbiate bisogno di riannodare i fili della vostra amicizia», disse Carla.

    «Ma la nostra amicizia non è mai stata in discussione», le rispose Costante, indispettito da quella insinuazione che reputava priva di fondamento.

    «Ne sono certa. Ma è come se lo fosse. Forse inconsapevolmente entrambi avete deciso di mantenervi a distanza l’uno dall’altro», lo incalzò Carla che sembrava avesse tenuto dentro quel discorso in attesa del momento adatto per liberarsene in un flusso di coscienza che non ammetteva, adesso, interruzioni. Costante rimase quasi interdetto, e tuttavia non sorpreso, dalla schiettezza con la quale Carla aveva avviato la conversazione.

    «Posso comprendere le ragioni di Tancredi. Non sarà stato facile per lui, e credo non lo sia tuttora, riprendere le fila della sua vita, sempre che abbia intenzione di farlo. Ma tu? Quali sono le tue ragioni? Pudore, sensi di colpa?», disse Carla picchiando duro sull’animo di Costante, certa che quella frase avrebbe scatenato in lui una qualche reazione.

    «Sensi di colpa? Perché mai dovrei provare dei sensi di colpa? Per cosa poi? Non capisco proprio dove vuoi andare a parare con questi discorsi», rispose il commissario rovesciando la tazzina con un movimento brusco della mano.

    Carla rimase a fissarlo, compiaciuta di aver toccato un nervo evidentemente scoperto.

    «Perché ho come l’impressione che tu voglia rimuovere quello che è accaduto.

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