L'uomo che imparò a guardare il sole
Di Roberto Pati
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Anteprima del libro
L'uomo che imparò a guardare il sole - Roberto Pati
633/1941.
***
Entrò quasi in punta di piedi senza tempo né spazio. Lo specchio copiosamente intriso di polvere, segno sicuro di mesi d'assenza, non rimandava la sua immagine. Il soffitto basso di un bianco ipotetico sembrava cadergli sul capo. Fece scricchiolare il collo ruotandolo su sé stesso e aspettò che passasse la vertigine.
Massaggiandosi la nuca con perizia, segnò una traccia verticale con l’indice destro e una mezzaluna di polvere segnò il polpastrello accondiscendente.
Rimbecillito cercò d’infilare il naso balenante nella striscia tracciata, ma l’equilibrio cercato non fu realizzato. Ponderatamente con lo stesso polpastrello, come per incanto, tracciò una linea orizzontale a squartare lo specchio quasi perfettamente in una scontata geometria. Rise e smorfiando cominciò a pulirsi il naso. Prima la narice destra, poi la sinistra, un gesto infantile che aveva imparato a sentire familiare nell’apatica formalità della cella.
Il calcare e la ruggine avevano lasciato segni indelebili sui sanitari, segni del tempo. Intorno ai rubinetti cromati ormai opacizzati, aloni diffusi e ciuffi di muffa avevano eroso lo smalto della ceramica; quel verde strano con le piastrelle nocciola gli davano nervi più di quanto avrebbe immaginato, considerato il modo e la misura in cui aveva sempre odiato quella stanza. Odiata senza un motivo, come si può odiare un vicino di casa o un compagno di classe solo per il modo di portare i pantaloni o per una strana pettinatura lontana dai propri gusti estetici.
Lo sportellino dello specchio reagì al tentativo d’apertura, poi le cerniere scattarono lasciando cadere della crosta arrugginita sul lavandino; ne uscì un odore nauseante.
Studiò i tre ripiani. In ordine sparso: acqua di colonia, spazzolino per i denti e relativo tubo di dentifricio quasi esaurito, mucchietti sparsi di bustine campione di chissà quali creme. Anche qualche scontrino ormai sbiadito. Poi boccette di profumo, ciprie, una confezione di cerotti vuota e ancora rasoi. Richiuse vinto dall’olezzo. Odiava fare la barba, per quel motivo per lunghi periodi la faceva crescere. E poi non era bravo.
Iniziò a radersi con inaspettata minuzia, lento e attento. Solchi netti tra la schiuma segnavano la faccia in un incerto equilibrio verticale. La mano stringeva un bisunto bilama, pregno di stantio profumo consolidato chissà di quanto vecchio. A ogni solco tracciato tra la spuma mentolata, una maledizione a chi millenni orsono, per la prima volta decise di radersi la faccia con un frammento di selce.
Perché lo fece? Dove non ce n’era bisogno, erano caduti da soli. Se in alcuni punti erano rimasti, ci sarà pur stato qualche valido motivo. Invece no! Si ripeteva, continuando a radersi, alternando i pensieri alle bestemmie. Ci si depila anche oltre: la testa, il torace, la schiena, le gambe e spesso anche il pube. Sarà una forma di rivalsa nei confronti della femmina che di peli ne ha pochi di suo.
S’immaginò gorilla e bello, con una gorilla bella, a leccarsi tra i peli irsuti e fitti; a fare l’amore strofinando la morbida peluria color cioccolato. Senza accorgersene aveva risvegliato quel primordiale istinto che cova in noi, quell’idea di selvaggio sopraffatta da un’evoluzione che spesso confonde la pulizia con l’estetica, l’ipocrisia con l’istinto; chiudendo tutto dentro sé stessi, in una particella di un’idea pura, che non può essere solo garbo ed educazione l’esistenza, ma anche il rozzo coraggio di osare. E lì Eduardo tornò a impantanarsi; coraggio di osare a lui sconosciuto, causa di tutte le sue sconfitte. Coraggio di osare; e ora era lì da solo a leccarsi le ferite, togliere le croste per fare uscire il marcio serbato dentro, farlo uscire tutto, fino all’ultima goccia, nella speranza di poter ripartire pulito.
Tutto amplificava la sua robusta tristezza; anche la giornata di sole che aveva messo fine alla sua reclusione.
Pablo gli aveva regalato un borsone nero di nylon mediocre. Lui svogliato ci aveva infilato dentro a casaccio le sue poche cose, quelle indispensabili: due magliette bianche, un paio di jeans, due maglioni e una tuta da joggin grigio melange; il resto lo avevo addosso.
Eduardo invece gli aveva lasciato i rasoi, la schiuma da barba, qualche poster idiota sbiadito dal tempo e forse anche molta della sua voglia di ricominciare.
Circoscrivendo con lo sguardo l’intero perimetro della cella aveva perfino trovato il modo di piangere. Nell’introspettivo resoconto finale s’era imbattuto nei momenti da tenere per sé; Pablo era uno di quelli. Quel distacco gli scorticava l’anima più di quanto avesse immaginato.
Con la guardia ritta sulla porta socchiusa ad aspettarlo, si era riseduto sul letto piantando lo sguardo dritto negli occhi di quel mezzo indio dai modi pacati. Anche Pablo sedette sulla branda lasciandosi avvolgere dallo sguardo dell’amico.
Sospirava Pablo, respiri lenti e profondi, aveva le lunghe dita delle ossute mani intrecciate, oscillavano dagli avambracci appoggiati sulle ginocchia nude. Sul polso sinistro un grossolano tatuaggio di un sole stilizzato, per metà nascosto da un braccialetto di stoffa intrecciato da lui stesso. Inspirò in profondità un paio di volte ancora, prima di abbassare lo sguardo per resistere all’emozione che spingeva in gola inumidendo i suoi occhi.
Eduardo tentò di parlare, ma tacque. E per sfuggire dalle fauci della nostalgia, virò lo sguardo sui muri scalcinati della cella. Lesse tutto quello scritto negli anni o inciso sulla parete incolore. Lo lesse più volte, forse per ingannare il presente: il blasfemo contro Dio, il perverso accompagnato da rozzi disegni, diversi viva la libertà
, e tante iniziali tra cuori spezzati. Tralasciò solo le innumerevoli e fredde date, segnate in un’ordinata fila orizzontale sulla destra del lavandino, quasi attaccate agli armadietti, devastati dalla ruggine. Accese l’ultima sigaretta guardando la sagoma di Pablo contrita tra un pantaloncino di tela avana e una canottiera bianca.
Sentendosi così attentamente scrutato, Pablo mosse il labbro sinistro, un movimento simile ad un tic nervoso. Il sottile baffetto da sparviero s’inarcò. Eduardo fumò avvolto dai ricordi e dal terrore di sentirsi un alieno appena fuori da quelle mura. L’impermeabile silenzio era scandito dagli sbuffi cadenzati del secondino che per rompere quell’incantesimo faceva tintinnare le robuste chiavi penzolanti dalle dita della mano destra.
Eduardo si sentì avvinghiare dai muri scorticati della cella; Pablo s’alzò di scatto e senza fiatare lo spinse fuori, con buona soddisfazione della guardia. Continuò a stringergli il braccio per alcuni istanti, poi mollò la presa abbandonandolo lungo il fianco, come se all’improvviso gli fosse venuta meno tutta la forza.
Pianse come un bambino Eduardo quella mattina di sole in cui si separano. Lo abbracciò con forza, la sua pelle era tirata d’emozione e i peli si rizzarono sotto il palmo della mano che scivolava sul braccio nudo di Pablo. Il torace esile sotto la canottiera bianca sussultava tra i profondi respiri e dagli occhi di terra bruciata sgusciarono due misere gocce salate, ma non riuscirono a oltrepassare l’increspatura delle palpebre fisse annacquando soltanto lo sguardo rivolto altrove.
Pablo restò immobile sulla porta della cella; con un goffo movimento Eduardo lo salutò prima di lasciarlo per sempre alla sua pazzia che un po’ lo aveva contaminato, aiutandolo a rendere meno atroce la permanenza in quella dannata cella. Gli voltò le spalle, la guardia chiuse la porta, girò la chiave. Eduardo non si volse, aspettò rigido che la guardia muovesse i passi nella sua direzione. Trattenne il respiro; quell’apnea fece largo nella sua testa, cancellando pensieri superflui.
Avevano diviso quasi per un anno quella schifosa cella. I primi mesi c’era stato nessun dialogo tra i due; Eduardo, passava la maggior parte del tempo a leggere e scarabocchiare con la matita sul blocco notes lasciatogli dal vecchio inquilino; un ragazzone della provincia di Roma, finito dentro con l’accusa di rapina a mano armata. Si chiamava Cesare, parlava in continuazione, di tutto e mentre parlava, molto spesso in maniera sconclusionata, disegnava le cose più disparate: profili di donne nude, casolari in fiamme, volti di uomini e donne.
Un giorno di pioggia torrenziale, Eduardo si piazzò alle sue spalle osservandolo mentre schizzava una finestra con le sbarre, poco reale, simile ad un fumetto, ma rendeva molto bene l’idea. Finitala, emise un profondo respiro, accese una sigaretta e ruotato il collo verso Eduardo senza alzarsi, disse tra i denti, indicando con la punta della matita lo spazio tra le sbarre dove sarebbe dovuto esserci un ipotetico cielo:
Là c’è il mondo che non ci appartiene più
Perché non ci appartiene più?
Una volta che finisci qua dentro, ci rimani per sempre, caro!
Cosa avesse voluto dire, Eduardo lo capì quando varcò la soglia del penitenziario, finalmente libero
.
Cesare aveva una mole e l’andatura elefantina che lo rendeva simpatico, a tutti; gli occhi azzurro cenere non lasciavano trasparire violenza, e la sua voce sfumata era colta e puntigliosa: era pedante, questo sì. Istrionico per natura, riusciva sempre a imporre le sue ragioni, riuscì perfino a far diventare Eduardo tifoso della Roma; una passione il calcio, che era quasi tutta la sua vita, il solo argomento capace di farlo incazzare. Poi lo trasferirono e Eduardo ne conservò il ricordo usando le sue cose.
Pablo invece passava le giornate fissando il niente. Nell’ora d’aria si accucciava da solo in un cantuccio puntando il cielo, sia fosse grigio, sia sereno. Non lo smuovevano nemmeno le pallonate, scagliate di proposito, dei detenuti che giocavano a pallone nello stretto cortile del carcere. Aveva uno sguardo talmente fisso da poterne scorgere il fascio tracciato nell’aria. Eduardo prese a scrutarlo con curiosità per capire dove volesse arrivare quel sudamericano quasi sordomuto.
Si piazzava di fronte fissando gli occhi incavati protetti da lunghe ciglia dai battiti felpati. Anche nei movimenti era compassato. Camminava lentamente meditando i passi e studiando dove appoggiare il piede.
In cella dopo qualche tentativo, Eduardo aveva rinunciato a dialogarci; rispondeva alle domande emettendo dei brevi suoni gutturali percettibili appena e scuotendo il capo quando la risposta era affermativa, gli sembrava di