Due passi avanti un passo indietro
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Anteprima del libro
Due passi avanti un passo indietro - Manuela Chiarottino
Due passi avanti, un passo indietro
Titolo: Due passi avanti, uno indietro
Autrice: Manuela Chiarottino
Questo romanzo è un’opera di fantasia: nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale.
Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totali o parziali, con qualsiasi mezzo, anche copie fotostatiche e microfilm, sono riservati.
© 2016 Amarganta
www.amarganta.eu info@amarganta.eu
ISBN 978-88-99344-67-2
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Copyright 2016 Amarganta
Stampato per conto dell’Associazione Culturale Amarganta nel mese di luglio 2016
Manuela Chiarottino
Due passi avanti,
un passo indietro
Amarganta
Davide
Era una calda sera di aprile e i lampioni rischiaravano appena la strada. Davide e Monica camminavano piano, le mani lungo i fianchi, senza sfiorarsi, gli sguardi persi davanti a loro.
I passi dei due tracciavano rette parallele, destinate a non incontrarsi mai, corpi distanti eppure così vicini che il respiro dell’uno si conficcava nell’animo dell’altro. Davide avrebbe voluto girare al primo angolo, cambiare percorso, allontanarsi da lei, scappare via da quel silenzio. Sapeva di dover dire qualcosa, ma come sempre le parole gli morivano in gola.
Monica era bella, ma non solo: era una donna intelligente, brillante e terribilmente comprensiva. Era tante cose. Solo che lui non ne era innamorato, forse non lo era mai stato, e quella verità stava crescendo dentro di lui occupando ogni pensiero. Non gli piaceva ciò che stava provando, sarebbe voluto tornare indietro, a quando ancora riusciva a confinare quella sensazione di disagio dentro di sé e gli bastava toccarla per placare ogni dubbio. Col sesso. Non che fosse giusto, ma in fondo non le aveva mai mentito, non le aveva mai detto di amarla… non ci era mai riuscito.
Monica si arrestò, sembrava una cerbiatta, implorava il suo predatore di finirla, con un bacio o con un addio.
Davide premette le labbra sulle sue, forse per impedirle di parlare per prima.
«Sei bella con questa luce.»
«Cioè in penombra?» scherzò lei, simulando un’allegria che nessuno dei due provava.
«No, che dici? Sei bella anche sotto un sole accecante, sei sempre bella. Sempre perfetta.»
«È questo che t’infastidisce?»
«Infastidisce?» chiese Davide incamminandosi, prendendo le distanze e lasciandola con una sensazione di gelo.
«Non so, è che ultimamente sei freddo. Scostante direi. Come infastidito, a volte.»
«Mi spiace… sono molto stressato. Il lavoro…»
«Sì, non preoccuparti» tagliò corto lei «ho capito.»
Monica lo prese sottobraccio e lui le sorrise con gentilezza. Ripresero a muoversi in silenzio, fino a casa di lei.
«Sono stanco e domani…»
«Lo so, devi alzarti presto. È stata una bella serata, grazie per la cena.»
«Sogni d’oro, Monica» la salutò pronto a dileguarsi.
«Ah, Davide» lo richiamò d’un tratto «ricordati della cena di sabato da Chicca e Gio.»
«Sì, certo» rispose baciandola frettolosamente per poi allontanarsi prima che potesse aggiungere qualcosa.
Monica chiuse la porta alle sue spalle, quindi si sfilò stancamente le scarpe e la giacca e si buttò sul divano.
Quante volte era rimasta a guardare mentre lui si chiudeva in un bozzolo? Tante, troppe. Ormai entrambi sapevano che qualcosa non funzionava come avrebbe dovuto, ma nessuno dei due aveva il coraggio di affrontare seriamente l’argomento, lei soprattutto. Aveva troppa paura di perderlo, eppure era chiaro che così non sarebbe potuta durare.
Si asciugò una lacrima. Davide era capace di alzare un muro tra lui e il mondo quando era turbato. Tutti pensavano che avesse sempre ogni cosa sotto controllo e che niente potesse davvero scalfirlo, ma Manica sentiva che c’era dell’altro oltre a quella facciata. Solo che neanche a lei era permesso avvicinarsi così tanto.
Davide non era riuscito a capire se Monica fosse più seccata o rassegnata; certo, non era felice della situazione e non doveva essere semplice neanche per lei.
Prese a calci una lattina lasciata per strada e il rumore riecheggiò tutt’intorno. Inavvertitamente colpì un gatto, che miagolò contro di lui, inarcando la schiena e arruffando il pelo in un gesto di minaccia o forse solo di difesa.
«Mi spiace, piccolo» mormorò.
Il povero felino si allontanò veloce, ma dal buio del viottolo uscirono altre due ombre, forse disturbate dal frastuono che aveva rotto il silenzio della notte. Una teneva il capo chino mentre l’altra aveva il volto nascosto da un cappuccio. Davide, d’istinto, fece un passo indietro; ormai era tardi e non c’era nessun altro in strada, ma si rincuorò accorgendosi come si stessero tenendo per mano, almeno fino a quando giunsero nella parte del marciapiede più illuminato.
Le due ombre bisbigliarono qualcosa per poi prendere direzioni opposte. Prima di attraversare la strada, il tipo col cappuccio si voltò verso di lui, proprio sotto il riflesso del lampione, scoprendo due occhi verdi, penetranti, grandi e limpidi come oceani. Lo fissarono con ostentazione, come volessero sfidarlo. In quell’istante si rese conto della lieve stonatura che non era riuscito a concretare nella scena precedente. Quella non era la solita coppietta: erano due uomini.
Il ragazzo era ancora fermo davanti a lui, come se volesse dirgli qualcosa solo con lo sguardo, poi calcò il cappuccio e scomparve nella notte.
Nel frattempo si era alzata una brezza lieve e Davide sistemò il bavero della giacca per ripararsi; il gelo, tuttavia, sembrava volersi insinuarsi tra le sue costole e anche il suo cuore parve rincantucciarsi al caldo. Ormai non c’era davvero più nessuno. Solo un taxi avanzava lento; immaginò provenisse dall’hotel in fondo alla via e fantasticò sull’idea che stesse trasportando una coppia di amanti clandestini. Quel pensiero lo riportò con la mente all’episodio di poco prima.
Quella scena l’aveva incuriosito e soprattutto quel ragazzo, il modo in cui l’aveva osservato, come se volesse fargli capire che non si vergognava, che non aveva paura. Forse, però, poteva essere avvenuto l’esatto contrario… se avesse avuto timore di lui, del tizio che scagliava lattine contro i gatti e camminava solitario nella notte?
Scosse la testa; lui non giudicava nessuno, semplicemente non gli interessava. Aveva già i suoi problemi, lui.
Fu felice di ritrovare il familiare tepore di casa. Decise di farsi una doccia bollente prima di dormire, aveva bisogno di qualcosa di caldo che scivolasse sul suo corpo e lo abbracciasse, sciogliendo tutte le tensioni della giornata.
Il vapore si alzò e lo avvolse; l’acqua scorreva lenta sul suo petto glabro e scolpito da ore di palestra, un altro dei suoi tentativi di ammazzare la perenne sensazione di vuoto che non gli dava tregua. Fare per non pensare. Era una massima di suo padre, forse una delle poche che condivideva. Solo che a volte non bastava.
L’infelicità che si portava appresso, come un mantello incollato sulla pelle, ogni tanto sfociava in una disperazione senza nome. Non avrebbe saputo spiegare cos’era quel dolore che gli si attorcigliava intorno alla gola come un cordone ombelicale. La sensazione era quella di un lento soffocare, per poi riemergere boccheggiando alla vita e attaccarsi a essa con tutto quello che riusciva.
La sua mano scivolò in basso, fino a toccare i peli neri del pube arricciati dall’umidità; si trattenne per qualche istante, ma il nodo alla gola stava tornando e doveva fare qualcosa per cacciarlo lontano. Serrò le palpebre mentre le dita iniziavano a stringere forte il sesso, per permettergli di perdersi nel proprio piacere, sforzandosi di visualizzare l’unico volto che avrebbe dovuto avere nella mente. Per qualche strana ragione, però, da quel vapore emersero due occhi di smeraldo, trasparenti come l’acqua e profondi come il taglio di una lama arroventata. Venne d’improvviso, sconvolto da se stesso, quindi aprì il getto della doccia perché l’acqua lo colpisse con violenza e cancellasse tutto. Era solo stanco.
Rimase a lungo immobile, i pugni contro la parete, lo sguardo puntato sul nulla e un macigno sul petto.
Si asciugò in fretta e afferrò la confezione di gocce riposta stabilmente sul comodino. Doveva dormire evitando di sognare. In caso contrario avrebbe fatto solo dei viscidi incubi senza senso. L’ideale era assopirsi in modo lento, dolce e indolore.
Ogni domenica, la famiglia si riuniva per il pranzo al quale era tenuto a prendere parte ogni membro. Umberto Giocchi, il padre di Davide, non accettava scuse in merito. L’atmosfera era sempre la stessa, una coltre di ostentata buona educazione. Tutto era perfetto, tutto doveva essere perfetto. Umberto indossava un abito grigio scuro, un panciotto che sembrava appartenere ai tempi passati e dal quale amava estrarre l’orologio d’oro ricevuto in dono da un progenitore. Sarebbe toccato in eredità a Davide, sempre che ne fosse ancora considerato degno. Davide aveva rifiutato di seguire le orme paterne, ossia di lavorare con Umberto in azienda e aveva fondato un’agenzia di pubblicità insieme a un amico. Da allora non c’era stata occasione in cui suo padre non gli avesse fatto pesare quella sorta di tradimento. Il malumore era perdurato nonostante sua sorella Veronica avesse preso felicemente il suo posto e stesse dimostrando una notevole inclinazione negli affari nonché un carattere determinato.
Quello sarebbe dovuto essere il ruolo dell’erede maschio.
L’azienda rappresentava un’importante realtà nel settore tessile; si disegnavano e si producevano capi femminili, da cocktail e da sera. La marca era ormai sinonimo di lusso e prestigio. Veronica aveva intrapreso gli stessi studi di economia del fratello, ma aveva poi insistito per frequentare una scuola di design di alta moda. Era quella la sua vera passione, ma al momento Umberto l’aveva messa in una posizione di amministrazione e controllo della produzione, perché c’è già chi si occupa della creatività nel modo migliore.
Questa era la frase con cui l’aveva congedata quando si era presentata con i suoi modelli. Troppo moderni, troppo diversi. Veronica aveva abbozzato. Davide l’aveva accusata di essere un’opportunista perché era senz’altro più facile rimanere nella corte familiare che cercare la propria affermazione al di fuori. Nello stesso tempo, tuttavia, l’aveva segretamente ringraziata, perché l’aveva salvato, almeno per il momento. Infine se n’era andato, anche se uno dei suoi maggiori clienti era proprio l’azienda paterna. L’aveva tenuta visto che non poteva certo affidarla alla concorrenza e, oggettivamente, rappresentava un guadagno sicuro e cospicuo
Veronica viveva nella dependance, una casetta indipendente, ma all’interno delle mura della villa. Ci si era stabilito anche lui, mentre Veronica completava i suoi studi a Parigi, ma non aveva resistito molto. In ogni caso, Davide si trascinava lì ogni domenica, per compiacere sua madre, l’unica persona alla quale era veramente legato, sebbene anche lei fosse lontana dal suo mondo. La signora Giocchi era molto devota, ma la fede ormai non le donava più la serenità di un tempo. La religiosità di Umberto Giocchi era diversa. Per lui la famiglia era simbolo di prestigio e la beneficenza era forse più mirata alle detrazioni fiscali che all’amore verso il prossimo, ma non si poteva comunque negare che ci fosse un buon intento.
In ogni caso, quello era il suo clan ed era di ammirabile solidità e coerenza. Infine era un rifugio sicuro per quanto asfissiante. Un controsenso cui non sapeva dare risposta.
Sua sorella gli andò incontro con la solita espressione dolce, fasciata in un vestito sensuale ed esagerato per un pranzo in famiglia.
«Ecco il nostro figliol prodigo, il ribelle che torna seguendo la scia dell’arrosto.»
«Come sei amorevole, non ti sei ancora sparata la solita fiala di veleno di vipera?» replicò e si sorrisero. Non è che non si volessero bene, il loro era uno scherzare fraterno, un affetto afflitto da una sottile gelosia e da una competizione sottesa.
D’altronde in quegli incontri nessuno parlava mai di se stesso, almeno lui non lo faceva. Si teneva per lo più in disparte, senza mai far trasparire la propria opinione sulle questioni della ditta.
La sala da pranzo era, insieme al salone, una delle stanze più grandiose della casa. Alti soffitti e maestose tende bianche alle finestre. Intorno al tavolo ovale c’erano sedie con le spalliere decorate con stemmi e spade, tanto che da bambino Davide immaginava di essere nel castello del re Artù. Amava stare lì di nascosto per giocare, immedesimandosi in un cavaliere, brandendo una spada di plastica che infilzava draghi fatti d’ombra. Ora, invece, ci voleva tutta la sua buona volontà per non alzarsi nel mezzo del pranzo e fuggire via, a respirare un po’ d’aria fresca.
«Allora, Davide, il lavoro procede bene?»
«Certo, papà.»
«E Monica, come sta?» aggiunse sua madre, dopo aver posato il bicchiere del vino.
«Benissimo» rispose scompigliandosi inavvertitamente i capelli con una mano.
«Potresti invitarla, ogni tanto. Non capisco perché ti ostini a limitare la cosa solo alle feste ufficiali… ormai è una di famiglia, lo sai.»
«Preferisco di no, mamma, ti ho già spiegato.»
«Vuole sentirsi ancora libero» incalzò Veronica.
«I giovani di oggi hanno troppa paura di impegnarsi, ma in questo caso credo sia dovuto solo a nostro figlio, vero Davide?»
«Papà, bisogna sempre tornare su questo punto?»
«Hai quasi trent’anni, non credi che potresti almeno considerare l’idea?»
«Sai quanto amerei diventare nonna mentre ancora ho le forze per farlo e…»
«Mamma, tu sei ancora giovane e lo siamo anche io e Monica, quindi non insistete, per favore.»
Davide interruppe il discorso e riprese a mangiare con foga, per finire al più presto.
Appena uscì in giardino respirò di nuovo a pieni polmoni. Si sentiva ingrato, sbagliato. Forse sarebbe stato contento di sapersi adottato, magari in quel caso sarebbe stato addirittura dispensato dal dover assomigliare a tutti loro.
Incontro
Il dentista era al quinto piano, Davide non amava prendere gli ascensori e solitamente avrebbe preferito le scale, ma si sentiva stanco. Aveva lavorato tutto il giorno e, nonostante i due caffè, si sentiva ancora fiacco. Le porte scorrevoli dell’ascensore si stavano chiudendo quando qualcuno le bloccò infilando un braccio. Un giovane entrò sbuffando, portava un vassoio con dell’acqua, tazzine di caffè e un sacchetto di brioches a giudicare dall’aroma che si diffuse nell’aria.
«Scusi, devo consegnare le bevande ancora calde.»
«Non importa.»
Era riuscito a malapena a rispondere, sforzo inutile d’altronde, poiché il tipo aveva le cuffie e muoveva il capo per seguire il ritmo che udiva solo lui. Davide fece una smorfia, ma come spostò lo sguardo per vederlo meglio in viso, scorse un paio di occhi verdi, trasparenti come cocci di vetro, contornati da ciglia incredibilmente lunghe e tornò subito alla notte di qualche giorno prima.
Quello che era stato una specie di sogno o forse incubo, si era materializzato davanti a lui.
Lo aveva riconosciuto? E se anche fosse stato, che cosa poteva importargli? Puntò l’attenzione altrove.
In ogni caso non ci sarebbe stato tempo per fare conversazione, pochi minuti e sarebbe arrivato al suo piano. Fu in quell’istante che arrivò un rumore strano e la cabina interruppe brutalmente la corsa.
«No, non è possibile!» sbottò contrariato.
Iniziò a premere tutti i pulsanti mentre i due occhi verdi diventavano man mano più scintillanti, riflettendo un sorriso divertito.
«Forse basta aspettare qualche minuto.»
Davide si voltò di scatto, come volesse divorarlo. L’altro, indietreggiando, per poco non fece cadere il vassoio.
«Meglio