Lo sguardo dell'abisso
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Lo sguardo dell'abisso - Enrico Luceri
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Prologo
Non puoi scappare perché...
Tanti anni prima
L’uomo si aggirava per la stanza con passi lenti e misurati. Sfilò un paio di volumi dalla libreria e li posò sulla scrivania, accese il televisore posato sul carrello di vetro e acciaio e abbassò l’audio fino a ridurlo a un mormorio. Quelle immagini in bianco e nero erano una compagnia gradevole, e il bisbiglio di sottofondo, così discreto, non disturbava la sua concentrazione. Sedette dietro la scrivania, controllò con uno sguardo freddo e impassibile che penne, matite, fogli di carta e occhiali fossero disposti in ordine sul ripiano e solo allora si voltò verso il registratore, posato sul tavolino accanto alla poltrona.
La bambina vestita di bianco si era accoccolata dietro il divano foderato in velluto color petrolio, e da lì spiava i gesti di quell’uomo di mezza età, alto e biondo, che stentava a considerare suo padre. Ogni sua carezza, ogni parola sussurrata, ogni occhiata distratta, ogni gesto la spaventava, invece di rassicurarla. Sapeva che non doveva trovarsi lì, adesso, che lui desiderava la solitudine, quando lavorava, ma non poteva farne a meno. Fra poco lui avrebbe cominciato a scrivere, con la sua grafia antiquata e spigolosa, riempiendo fogli di appunti e note. Fra il silenzio della stanza e il mormorio del televisore, il pennino della stilografica pareva raschiare la carta con un rumore che le dava i brividi. Ma poi il padre avrebbe posato la penna, infilato il cappuccio sul pennino, atteso che l’inchiostro si asciugasse e poi sarebbe cominciata la lettura. Aveva una voce calda e bassa, a tratti arrochita dall’abitudine al fumo, e le frasi incomprensibili che leggeva dai fogli avevano il potere di provocarle un piacevole senso di abbandono. Lo stesso delle favole che le raccontava la mamma. La sera, quando lei saliva le scale, si rifugiava nella sua cameretta e sollevava il lenzuolo oltre la testa per evitare di vedere le cime degli alberi oltre la finestra. Era spaventata dalla vista del giardino illuminato dalla luce della luna, dove immaginava si aggirassero di notte creature mostruose e minacciose svegliate dalle parole che il padre pronunciava nello studio. Strano come quelle frasi senza senso potessero calmarla fino a stordirla e nello stesso tempo terrorizzarla come l’incantesimo malvagio lanciato da un mago crudele.
L’uomo aprì il registratore e infilò una bobina nuova, agganciò il nastro e batté un dito sul microfono. Il rumore amplificato distese le sue labbra in quello che poteva essere sia un sorriso che una smorfia. Schiarì la voce, afferrò i fogli che aveva scritto, chiuse lo sportello del registratore e ne spinse un tasto. Quando udì il nastro frusciare, cominciò a leggere formule arcane in una lingua scomparsa da secoli, sfiorando gli occhiali scivolati sulla punta del naso. Parlava lentamente ma con sicurezza, senza pause. Gli sembrava di assaporare quelle parole ignote a tutti meno che a lui. Conosceva a memoria intere frasi, così a volte chiudeva gli occhi, e lasciava l’immaginazione vagare in quel territorio inesplorato dove nessuno dovrebbe avventurarsi. Un luogo popolato da figure sinistre che sarebbe doveroso lasciare confuse con la penombra, sul bordo del baratro dove la coscienza precipita nell’ambizione perversa. Formule che risalivano a un tempo tanto lontano da sconfinare nel mito, quando intere famiglie si riunivano accanto al fuoco del camino, nelle notti d’inverno come quella. E poi qualcuno ne richiamava l’attenzione e cominciava a raccontare una storia raccapricciante di streghe, malefici, sofferenze e castighi.
Una storia narrata in tono piatto, alla luce tremolante delle fiamme nel camino. Una storia che non doveva conciliare un sonno inquieto, turbato dagli incubi, e nemmeno costringere alla veglia, ma solo ammonire. Ammonire che il male e le sue lusinghe sono dappertutto e bisogna diffidarne, perché subirne il fascino provocherebbe conseguenze inesorabili. Ammonire, sempre. E solo la paura e il dolore possono servire a imparare una lezione. Come le bacchettate sulle mani degli alunni discoli o svogliati. Riaprì gli occhi e scandì altre parole con attenzione, incapace di provare timore per le conseguenze di ciò che stava evocando.
Non era vero nulla, stabilì, quelle storie narrate secoli prima davanti al caminetto, in un podere sperduto nella campagna, erano un inganno. Un inganno diabolico lui sì, ordito dal potere e dalla morale imperante per dominare le coscienze e sfruttarle a proprio vantaggio. Il male era sempre distante da noi. Era qualcun altro, o in un qualche altro luogo. Era estraneo a noi. Sarebbe bastato essere vigili e onesti, intransigenti nella difesa dei valori morali, austeri e insensibili alle tentazioni, per sfuggire al male. Non era vero nulla, ripeté mentalmente l’uomo. Il male era dentro di noi, invece. Nascosto in un posto desolato e buio in fondo all’anima, che faceva paura solo immaginarlo. Il male era solo assopito, e sarebbe bastato poco per svegliarlo e renderlo così potente da sfondare le sbarre della prigione sorvegliata da una sentinella che per convenzione è chiamata coscienza. Una sentinella che senza luce s’assopisce, e allora il male può evadere facilmente. Il nascondiglio del male sono le tenebre della nostra mente, concluse soddisfatto l’uomo. Tenebre che nessuna fiaccola potrà mai illuminare.
La bambina nascosta dietro lo schienale del divano sentì i muscoli anchilosati ma esitò a distendere la gamba, temendo di urtare qualcosa e attirare l’attenzione del padre. Vicino a lei era accostata una poltrona e un tavolo ovale su cui era posata una lampada, e dei ninnoli d’argento e cristallo. Il formicolio alle gambe divenne insopportabile e lei le allungò cautamente, ma non abbastanza per evitare di urtare il tavolino. La bambina non fece in tempo ad afferrare con le mani la lampada che oscillò e cadde sul tappeto persiano. Era di un tessuto nelle più varie sfumature di turchese, denso e morbido, e tuttavia la lampada lo urtò con un rumore sordo e ovattato. Lei sbarrò gli occhi, fissando inorridita davanti a sé, sentì un brivido sulla schiena e le labbra tremarono come stesse mormorando una preghiera. Pregò infatti che il padre non si fosse accorto di nulla, troppo assorto nella lettura, ma la sua speranza durò soltanto pochi istanti.
L’uomo si voltò verso il divano e il suo viso non lasciò trapelare alcun disappunto. Rifletté un momento, e dovette giungere a qualche conclusione che lo rese quasi allegro, perché ridacchiò, scuotendo il capo e stropicciandosi le mani, come se lo attendesse un piacere atteso con pazienza. Posò i fogli e si alzò dalla poltrona senza spegnere il registratore. Quando spostò il tavolino ovale, quello raschiò il pavimento, sul bordo del tappeto, con un rumore insopportabile come le unghie quando scivolano sul piano della lavagna. La bobina continuava a frusciare mentre lui girava attorno al divano, dove la bambina cercava di allontanarsi, scivolando carponi sul pavimento di marmo. Tremava ed era pallida e sudata, mentre sentiva avvicinarsi lo scricchiolio delle scarpe del padre.
L’uomo fissava la bambina vestita di bianco, e lei si voltò a guardarlo con la bocca spalancata dalla paura. Lui spostava lo sguardo da quel viso terrorizzato alla lampada rovesciata sul tappeto, e di nuovo dall’uno all’altra. La bambina pensò di rifugiarsi sotto il carrello del televisore, ma comprese che non avrebbe fatto in tempo, il padre era troppo vicino. Non aveva scampo, e una calma improvvisa la stordì come certi profumi che la mamma si spruzzava addosso la domenica mattina.
Il padre sfilò gli occhiali e li gettò sul ripiano della scrivania. Osservò i paesaggi nuvolosi e i volti severi dipinti nei quadri appesi alla parete, stringendo le labbra come cercasse ispirazione e solo dopo un paio di minuti alzò gli occhi al soffitto. Le lampadine del grande lampadario in ferro battuto erano appese all’ingiù, e avevano una forma inconsueta che si assottigliava in una spirale. Lui pensò che sembrassero lacrime che rigavano il viso di chi soffre un dolore antico come il mondo. Sospirò e di nuovo stropicciò le mani, con un gesto che terrorizzò la bambina, tanto da sentire la peluria delle braccia indurirsi sotto le maniche. Era immobile, paralizzata dallo sguardo del padre, che l’attraeva e spaventava come quello di un rettile. Con uno sforzo che credeva impossibile, fece due passi avanti e trascinò con sé il tappeto, che si arricciò ai bordi e urtò di nuovo il tavolino. I ninnoli d’argento e cristallo tintinnarono.
Gli occhi del padre sembravano frugare dentro di lei, esplorare la sua mente, impadronirsi dei suoi pensieri, nutrirsi del suo terrore.
«Cosa ti avevo detto, cara? Chi sbaglia paga. Chi entra nel mio studio e mi disturba mentre lavoro deve essere punito. Ogni volta un castigo diverso. Questo è l’unico modo per essere certi che la lezione servirà a qualcosa» sibilò l’uomo, e la bambina ebbe ancora una volta la sensazione agghiacciante del muso di un serpente che si attorciglia accanto a lei, pronto a sciogliere le spire e morderla.
Il padre sfilò la cinghia dai pantaloni e la tese un paio di volte, come volesse saggiarne la resistenza. Adesso sorrideva, e sembrava davvero bonario e comprensivo. Poi il suo volto divenne improvvisamente triste e smarrito, e le spalle s’incurvarono come fossero schiacciate da un peso insopportabile.
«Dispiace più a me che a te, cara. Devo farlo, è mio dovere. Mostrare compassione, perdonare, trascurare il male è il principio della decadenza morale» aggiunse, tentennando il capo e agitando la cintura, che fischiava in aria come una frusta impugnata dal carnefice.
Le immagini del televisore in bianco e nero, il mormorio dell’audio, il fruscio del nastro che scorreva ossessivamente nel registratore, il tonfo della lampada rovesciata sul tappeto e lo stridio della stilografica sulla carta si confusero nella mente della bambina in una confusione che la stordì. Avrebbe voluto urlare, chiedere pietà, implorare aiuto, sfogare il terrore in un grido, ma riuscì solo a spalancare gli occhi e aprire la bocca, e la voce rimase strozzata in gola da una mano invisibile che la soffocava. Tossì e sputò qualche goccia di bava, che colò sul pavimento.
Il padre la fissò severamente.
«Vergognati, non hai dignità. Solo un giusto castigo può guarire la debolezza e rendere forti e determinati.»
La bambina respirò rumorosamente e lanciò un’occhiata disperata alla porta chiusa.
«Inutile sperare di scampare alle conseguenze della tua marachella, da qui non si può scappare. Un giorno mi ringrazierai. Quando qualcuno cercherà di sopraffarti, o di ingannarti, o di commuoverti. E tu sarai capace di resistere, perché lezioni come questa ti avranno resa invincibile.»
Lei cominciò a singhiozzare piano, ma riuscì a trattenere le lacrime.
L’uomo sembrò ricordare qualcosa all’improvviso. Tornò sui propri passi stringendo in pugno la fibbia della cintura. Pigiò un tasto e spense il registratore.
Fuori pioveva a fili sottili che sembravano d’argento nel cielo buio e senza stelle. Il vento si era levato da poco e adesso soffiava nel giardino, piegando le cime di acacie, olmi e cipressi. Il cancello di ferro battuto cigolava con un suono che ricordava il gemito di un bambino, e la ghiaia del sentiero che conduceva alla porta d’ingresso crepitava come fosse calpestata da qualcuno. Il giardino appariva deserto alla luce livida dei due lampioni.
La bambina guardò ammutolita il padre che la tratteneva per il colletto del vestito bianco e la colpiva sulla schiena con la cinghia.
Solo dopo l’ennesima frustata, lei non riuscì più a trattenere le lacrime che bagnarono le sue gote, e malgrado si mordesse le labbra mugolò qualcosa che l’uomo non comprese ma intuì.
«Silenzio! Non lamentarti! Non comportarti come una femminuccia debole e terrorizzata. I deboli soccombono, i forti sopravvivono. Devi resistere come un maschio, non voglio che diventi una donnicciola piagnucolosa come tua madre! Devi abituarti a sopportare ingratitudine e sofferenza, inganno e ostilità. Devi abituarti al dolore. Solo così potrai vincerlo.»
La donna aveva accostato la tempia alla porta chiusa e ascoltava con gli occhi chiusi la voce severa del marito e quella terrorizzata della figlia. Avrebbe voluto entrare nello studio per proteggere la bambina, per sottrarla al solito castigo crudele, ma come sempre non ne avrebbe avuto il coraggio. Tormentò il fazzoletto che stringeva fra le dita gelide e aveva usato per asciugare le lacrime. La consapevolezza di essere troppo timida e devota al marito per opporsi alla sua reazione rabbiosa la sconvolgeva e umiliava. Quando udì la figlia strillare, gettò il fazzoletto appallottolato in un angolo del corridoio e corse via. Entrò in cucina, poi nel soggiorno e nel salone e infine imboccò la scala che conduceva al piano superiore. Fuggiva come una falena resa folle dalla paura, che s’avvicina alla fiamma dove cerca luce e salvezza e invece la brucerà. Sentiva le grida della figlia rimbombarle nelle orecchie, che coprì inutilmente con le mani e borbottò una litania con voce cantilenante per far tacere quello strazio. Anche quando si fu chiusa alle spalle la porta della stanza da letto, e s’inginocchiò fra il comodino e la parete, continuò a recitare i salmi e a tapparsi le orecchie con i palmi. Ma fu inutile. Le invocazioni d’aiuto della bambina, la voce così carezzevole da sembrare ancora più inquietante del padre e il sibilo della cinghia le giungevano così nitide che credette d’impazzire. La pioggia batteva sui vetri, sembrava il rumore di nocche mentre bussavano sul vetro. Le mani delle creature della notte evocate dalle sinistre ricerche di suo marito. Le stesse creature invisibili che scrollavano il cancello cigolante o camminavano sulla ghiaia.
O forse