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Naviglio Blues
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E-book575 pagine7 ore

Naviglio Blues

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Info su questo ebook

Ivan ha undici anni, frequenta un oratorio di periferia ed è la voce bianca del coro parrocchiale. Sua sorella Martina, sei anni, ha nel sorriso l’irresistibile dolcezza dei bambini poveri. Giovanni, un neonato pieno di fossette, gioioso e robusto come un giovane salice, appartiene all’alta borghesia meneghina. Universi separati, dunque, che non avrebbero alcuna possibilità di entrare in contatto se i tre bambini non incontrassero, in un gelido febbraio pieno di neve, a poche ore di distanza, un identico destino.
In una Milano livida, indifferente e frenetica le prime indagini appaiono disperate. Zero testimoni. Nessuna traccia. Niente a cui aggrapparsi. In più, la scena investigativa è troppo affollata da magistrati inquirenti e investigatori in conflitto fra loro. Per sciogliere i nodi di un oscuro intrigo viene avviata una serratissima indagine interforze che impegna, insieme, un gelido tenente colonnello dei Carabinieri e una coppia di investigatori della Squadra Mobile. Intanto sulla scia di chi indaga ufficialmente si muove in tutta la sua goffaggine anche un vecchio parroco, pronto a tutto pur di scardinare il silenzio omertoso dei suoi parrocchiani e restituire al coro la voce di Ivan. La sua è una corsa disperata contro il tempo ed i vincoli che gli impone il suo ministero, e contro un’angina pectoris che minaccia di ucciderlo a ogni respiro.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mar 2013
ISBN9788875638627
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    Anteprima del libro

    Naviglio Blues - Adele Marini

    Ringraziamenti

    Questo libro non sarebbe stato scritto senza l’aiuto prezioso dell’Arma dei carabinieri. In particolare meritano un grande grazie: il tenente colonnello Luciano Garofano, comandante dei Ris di Parma, al quale debbo illuminanti informazioni sull’investigazione scientifica e sulle più recenti tecnologie al servizio dell’indagine; il tenente colonnello Paolo Ferrarese, comandante del Reparto Operativo del comando provinciale dei carabinieri di Milano per tutti i ragguagli sulle procedure di indagine; il giovane carabiniere in congedo Luca Patelli per le delucidazioni sugli interventi delle Radiomobili.

    Ringrazio anche l’amico Alberto Sala, ex ispettore superiore della Squadra Mobile di Milano, per avermi guidato nei labirintici misteri dell’indagine della polizia di Stato.

    Un riconoscimento speciale va alla poetessa Alda Merini che mi ha concesso di pubblicare la sua lirica Un spegasch per el navili: grazie Alda, anche per il semplice fatto che esisti.

    Dedico inoltre un pensiero di riconoscenza all’associazione Libera: nomi e numeri contro le mafie, nata per volontà di don Luigi Ciotti nel 1995, dalla quale ho appreso moltissimo sulla criminalità organizzata.

    Infine, tutta la mia gratitudine a Giovanna Camporesi per la paziente e competente revisione del testo; a Maria Pia Larocchi per la lettura del manoscritto; a Luisa e Mario Meneghini per avermi fatto da guida all’oratorio Samz; al maestro Augusto Merlo, direttore del coro milanese Ban, per la consulenza musicale; a Nicola Piccolo per le frasi in lingua napoletana, a Luciano Pocar per la traduzione delle parti in lingua tedesca; al dottor Andrea Sartore Bianchi per le informazioni di carattere medico scientifico.

    L’ultimo pensiero affettuoso è infine per mio marito Lionello Bianchi che mi ha aiutato nell’indispensabile lavoro finale di lima e cesello.

    Elenco degli acronimi presenti in questo libro

    Cp: codice penale.

    Cpp: codice di procedura penale.

    Dda: Direzione distrettuale antimafia. Le Dda sono state istituite a partire dal 1992 presso ogni Procura della Repubblica e sono coordinate a livello nazionale dalla Direzione Nazionale Antimafia (Dia), con sede a Roma, al cui vertice c’è il Procuratore Nazionale Antimafia. A capo di ogni Direzione distrettuale c’è il Procuratore della Repubblica o un magistrato da lui delegato, che assumono la funzione di Procuratore distrettuale antimafia. Alla Dda sono poi assegnati, per periodi di tempo limitati, uno o più Sostituti procuratori addetti all’ufficio.

    Dia: Direzione Investigativa Antimafia. è un organismo investigativo specializzato, a composizione interforze, con competenza su tutto il territorio nazionale. Si compone di una Struttura centrale, articolata in tre Reparti e sette Uffici, e di una Struttura periferica, costituita da dodici Centri e sette Sezioni Operative.

    Digos: (divisione investigazioni Generali e Operazioni Speciali) è la sezione della polizia di stato che si occupa di terrorismo ed eversione. Dipende dall’ex UCIGOS oggi DCPp.

    GdF: Guardia di Finanza.

    Gip: giudice per le indagini preliminari. Nel nuovo Codice di procedura penale è il giudice che nella fase delle indagini preliminari esercita una funzione di garanzia, di controllo e di decisione, affiancando l’opera del pm. Compiti del Gip: convalidare il fermo e l’arresto, autorizzare le misure cautelari come la custodia in carcere, le intercettazioni ecc.

    IMEI: International Mobile Equipment. È un codice che consente la rintracciabilità di un telefono anche se viene cambiata la scheda. In altre parole l’Imei non è altro che l’impronta digitale di ogni apparecchiatura GSM. Viene infatti memorizzato all’interno di ogni apparecchio rendendolo unico e identificabile in qualsiasi momento, questo grazie al fatto che vi si uniformano tutti i produttori del mondo e quindi non ne esistono due uguali sul pianeta a meno che, naturalmente, l’apparecchio non sia stato clonato.

    O.c.p.: Osservazione, controllo e pedinamento. Sono i compiti basilari degli agenti di pg nello svolgimento delle indagini. La sigla compare nei verbali di polizia.

    P.g.: polizia giudiziaria. È la funzione dello Stato volta ad assicurare le condizioni per l’esercizio dell’azione penale (analisi degli indizi, raccolta di prove ecc.). È svolta da ufficiali e agenti agli ordini del pm appartenenti alla Polizia di Stato, ai carabinieri, alla Guardia di Finanza, Vigili del Fuoco ecc.

    Pm: pubblico ministero. È il magistrato incaricato di raccogliere informazioni e prove contro persone o organizzazioni che possono aver violato la legge, partecipa ai processi presentando al giudice le prove che ha raccolto, in contraddittorio con gli avvocati che difendono gli accusati. L’attività del pm è svolta da un sostituto procuratore.

    Ris: Reparto per le investigazioni scientifiche (dei carabinieri).

    RoNo: Reparto operativo del Nucleo Operativo (dei Carabinieri). Ha sede presso i comandi dell’Arma e si occupa delle indagini e degli interventi ordinati dall’autorità giudiziaria.

    Scico: Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata. Appartiene alla Guardia di Finanza

    Sco: Servizio centrale operativo. Appartiene alla Direzione Centrale Anticrimine (DAC) della Polizia di Stato e si occupa di criminalità organizzata.

    Sisde: Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica. È l’intelligence italiana. Il Sisde è chiamato ad assolvere tutti i compiti informativi e di sicurezza per la difesa dello Stato democratico e delle Istituzioni contro chiunque vi attenti e contro ogni forma di eversione; comunica al Ministro dell’Interno tutte le informazioni ricevute o comunque in suo possesso, le analisi e le situazioni elaborate, le operazioni compiute e tutto ciò che attiene alla sua attività.

    sismi: Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare, fino al 1° agosto 2007 è stato il Servizio segreto militare italiano. I suoi compiti erano finalizzati a difendere la sicurezza dello Stato da ogni tipo di minaccia. Il sismi operava all’estero mentre in Italia curava il controspionaggio. Oggi al posto del Sismi c’è l’Aise (Agenzia Informazioni Sicurezza Esterna).

    ucigos: Ufficio Centrale per le Investigazioni Generali e per le Operazioni Speciali. È l’ufficio della Polizia di Stato operativo durante gli anni di piombo, ora chiamato DCPP (Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, l’ex Digos.

    PRIMA PARTE

    Natale

    È un silenzio accorto, sospetto.

    Quest’anno siamo soli,

    abbeverati di un sole che non conosciamo.

    Tu, bimbo, sei il nostro sole.

    Sorgi ogni mattina nel cuore

    di chi si crede ormai morto.

    Questo sole sul Naviglio,

    si chiama semplicemente

    Vita.

    Alda Merini, Un spegasch per el Navili

    [Uno scarabocchio per il Naviglio]

    Capitolo 1

    Mercoledì 31 gennaio, h. 19

    Traffico lumaca lungo la Pavese.

    La statale che arriva a Pavia correndo lungo il Naviglio è un percorso di guerra a tutte le ore del giorno, specialmente nel tratto milanese fino a Rozzano, dove sconta col numero esagerato di semafori l’orgoglio di essere ancora metropoli.

    Quella sera, fra la pioggia, i lavori in corso e un tamponamento, era un delirio.

    Inutile arrabbiarsi, bisognava stare in coda e zitti. Muso dell’auto incollato ai fanalini di coda della vettura davanti. Piedi che s’anchilosavano sui pedali. Occhi puntati sulle luci rosse degli stop. Rabbia che montava di minuto in minuto. Cervello in evaporazione.

    Mezz’ora solo per fare i pochi chilometri fino al ponte della tangenziale. E i nervi che già dopo i primi dieci minuti avevano cominciato a scortecciarsi.

    Nella Punto metallizzata la temperatura era vicina al punto critico. E non solo per colpa del traffico. I due avevano iniziato a discutere ancora prima di ritrovarsi incatenati alla fila. Un altro po’ a condividere l’abitacolo e si sarebbero presi a coltellate. Fortunatamente all’altezza dell’incrocio per Valleambrosia il traffico cominciò a diradarsi.

    «No, guarda, io proprio non ci sto».

    «Allora vuol dire che sei stanco di vivere».

    «Non dire stronzate. Sarò pur libero...».

    «Nossignore che non sei libero. E se pensi di piantarmi nei casini vuol dire che non mi conosci».

    Musica a palla dallo stereo.

    La voce di Gigi d’Alessio singhiozzava mieeele che poi diventa saaale se siamo in riva al maaare e un’onda ci accarezzeeeràaa...

    «E abbassa questa cazzo di lagna!».

    «Questa cazzo di lagna mi piace a me, e l’auto è mia. Se non ti va puoi anche scendere».

    «Nossignore che non scendo. Sei te che hai insistito per farmi venire, no? Adesso mi sopporti. Te lo dico ancora una volta: non ci sto. Tieniti pure la mia parte ma a me mi lasci fuori».

    «Scommettiamo invece che te fuori non ci resti?».

    «Ma cosa posso farci se non me la sento? Qua non è mica come portare in giro un po’ di bamba! Te sei matto. Siete tutti matti. Qua è un... E poi... no, no e no. La ragazzina, no!».

    «Sta’ zitto! Quante volte ti devo dire di tenere chiusa quella cazzo di bocca, coglione!».

    «Ma se ci siamo solo noi due, qua, ci siamo!».

    «Noi due mia nonna! Quando parli non puoi mai sapere a chi ti ascolta. Impara a stare zitto se vuoi veder crescere i tuoi figli».

    «Ma io non ce ne ho, di figli».

    «Apposta che non ce li hai. Non campi abbastanza per averceli se continui a dire stronzate. Guarda che non te lo dico più: se non ci stai attento, una volta o l’altra a tuo padre ti legge sui giornali, ti legge!».

    «Cos’è? Mi stai minacciando per caso? Miiinchia che paura!».

    «No, ti sto facendo la messa in piega! Per l’ultima volta: non ti conviene fare storie. A questa cosa deve essere fatta subito. Massimo la settimana prossima. E ce la dobbiamo smazzare fra noi. Io e te, te e io. E non ci sono ma. Te, il tuo lavoro, te lo fai, zitto e mosca. Chiaro? E t’azzecchi anche i rischi... Traffico di merda! Dov’è che ti devo lasciare?».

    «Va’ avanti fino al semaforo... Adesso accosta. Io sono arrivato».

    «Vabbuo’. Allora pensa bene a quello che t’ho detto. A stasera».

    «Sì, alle Pioppe...».

    «E fammi aspettare come l’altra volta che poi i conti li regoliamo tutti assieme. C’è un tanfo da svenire da quelle parti».

    «Va be’, ciao».

    Una sgommata e la Punto ripartì di scatto. Giusto per inchiodare pochi metri più avanti, a un pelo dal paraurti di una Focus.

    Rozzano: grosso comune dell’hinterland milanese. I chicos locali lo chiamano RozzAngeles. Anzi, se lo tatuano anche sulle braccia: Io sono amerikaliano di RozzAngeles. Oppure: Born in RozzAngeles. I più cinici: Fucking in RozzAngeles.

    Il paese è diviso in due. Quartieri popolari labirintici dove chi si perde è perduto e belle villette ariose col loro bravo giardino. Condomini con pretese di eleganza e torri asfittiche. Verde curato e spelacchiati giardinetti nei quali l’erba nasce già con la scimmia. Rozzano è la contraddizione di tutto. È bianco e nero. È luce e buio. È paradiso e inferno.

    E via delle Pioppe è solo inferno.

    Tecnicamente la strada a fondo chiuso apparterrebbe in parte a Milano, perché il cartello che segnala il confine sta a pochi metri dall’inizio. Ma per chi ci abita con tanto di indirizzo anagrafico quella strada a fondo cieco, asfaltata solo per un tratto, che termina in una discarica spontanea, è già Rozzano.

    Per i molti che ci vivono riparandosi dentro vecchie roulotte o pigiati in automobili scalcinate è terra di nessuno.

    Per chiunque la imbocchi per sbaglio e la percorra fino in fondo è un buco degradato, puzzolente, buio di giorno come di notte per colpa del ponte della tangenziale che ci passa sopra, infestato dai ratti e dai tossici che convivono indisturbati in allegra promiscuità, accoppiandosi, i ratti, e bucandosi, i tossici, alla luce dell’ultima insegna, quella che marca il confine fra una parvenza di civiltà e il nulla.

    Bar Dany con la ‘a’ che sfarfalla.

    La scritta al neon rosa shocking sovrastava la porta a un solo battente di un locale molto sudicio. A pochi metri, una seconda vetrata altrettanto sporca, nell’orario di apertura, dalle sette del mattino alle undici di notte, lasciava intravedere l’interno. Tavolini di formica e banco di mescita con la vecchia Cimbali a sinistra e lo scaffale dei liquori sullo sfondo.

    Niente bottiglie di marca. Solo robaccia da discount.

    Un posto misero per gente misera, il bar Dany.

    Apparentemente.

    Bisognava essere nati in quell’angolo dell’estrema periferia sud-ovest di Milano e morire dalla voglia di un caffè per entrarci. Eppure il Dany era lì dalla fine degli anni sessanta, coetaneo dei cubi di cemento armato senza balconi e con finestre seminate a casaccio, tirati su senza criterio sopra ogni metro di terreno disponibile prima che la legge-ponte del 1967 mettesse un po’ d’ordine nella frenesia abitativa del dopoguerra. Da allora il bar era rimasto sempre uguale.

    Sempre triste, buio, squallido e sporco, come per mantenersi in sintonia con l’edificio che lo ospitava. E con tutti gli altri palazzi lì attorno.

    Incasso regolare: il prezzo di qualche bianchino e pochi caffè. Incasso clandestino: centinaia di migliaia di euro tutte le settimane. Così tanti soldi che il gestore, poco più di un prestanome, dopo essersi impadronito di un intero palazzo di abitazioni facendo intestare gli appartamenti a una folla di parenti fra cui diversi inquilini del vicino camposanto, da qualche anno teneva in pugno con il prestito a strozzo decine di disperati.

    Ce ne sono parecchi di locali così ai margini estremi delle grandi città. Puzzolenti attività di copertura per traffici di ogni genere. Tutti illeciti.

    Il bar Dany però era diverso.

    Diverso per la clientela notturna che ne frequentava lo scantinato suddiviso in ambienti ben separati, ai quali si accedeva scendendo gli scomodi gradini di una scala a chiocciola ben mimetizzata.

    Chi vi si avventurava, aggrappandosi a un traballante corrimano, si trovava in una sala che ospitava una bisca clandestina. Gioco d’azzardo, ma anche scommesse su tutto, compresi i combattimenti clandestini dei cani.

    E toto clandestino, riffe, spaccio.

    Nelle notti di attività, comunicate ai frequentatori tramite un segnale convenzionale, in quell’improvvisato casinò di periferia si vedevano giubbotti di cuoio mescolarsi democraticamente a giacche di cachemire, coppole bisunte a feltri Borsalino, scarpe scalcagnate a mocassini Tod’s.

    Non era richiesto l’abito scuro.

    Nessuna differenza sociale fra la clientela notturna del Dany. Arricchiti e aspiranti tali erano ugualmente i benvenuti, purché avessero le tasche ben fornite.

    I giocatori si presentavano al bar verso le ventitré e trenta, poco prima dell’orario di chiusura. Bevevano qualcosa al banco in attesa del segnale convenuto. Un cenno del gestore e si avviavano alla spicciolata verso il retro, come per andare a soddisfare un bisogno alla toilette. Lì, venivano inghiottiti dalla scala che di giorno era nascosta da una piattaforma di legno.

    La sala da gioco, satura di un cocktail odoroso uguale a quello che si respirava un tempo nei cinema di periferia: fumo vecchio, brillantina Linetti, polvere e sudore, era ventilata artificialmente da un impianto di aerazione insufficiente a ricambiare l’aria. In compenso era pulita. I tavoli da gioco, coperti dal panno verde regolamentare, avevano sedie comode. Il piccolo bar scintillante di cromature mostrava mensole cariche di bottiglie di marca. L’illuminazione era studiata per non proiettare ombre ingannevoli sui giocatori.

    Si puntava forte in quella stanza. Ma non era il gioco la specialità clandestina del Dany. Anzi, si può tranquillamente affermare che poker, dadi, scommesse e perfino usura, per quanto redditizi, fossero in realtà una specie di copertura. Infatti, benché illegali, erano tutto sommato attività innocenti. Almeno se paragonate a quello che avveniva al di là della finta parete di mattoni foderata ai due lati da spessi strati di cartongesso.

    Lì entravano, varcando un finto armadio a muro, pochissime persone e solo nelle notti in cui la sala da gioco era vuota.

    Un ambiente segreto, completamente piastrellato e insonorizzato, suddiviso in due locali. Il primo, una specie di saletta per proiezioni, era pieno di attrezzature ottiche e acustiche hi-tech. Il secondo, chiuso da una pesante porta blindata, conteneva invece un pozzo cilindrico con parapetto in muratura, profondo parecchi metri.

    Al di là di quel finto armadio, fra quelle mura, in quella stanza, dentro quel pozzo scavato nelle fondamenta del palazzo, tutto si confondeva, si mescolava, si alterava e infine cessava di esistere.

    Le parole, il tempo, i pensieri non avevano più alcun significato.

    Lo spazio si dilatava e si contraeva in dimensioni sconosciute.

    Luce, buio, caldo, freddo, suoni e silenzio si mescolavano in una sola sensazione.

    Dolore. Dolore. Dolore.

    E l’unico sollievo era una morte veloce.

    Capitolo 2

    Venerdì 2 febbraio, h. 15.30

    Musichetta del Toreador al massimo volume.

    Il Nokia cominciò a vibrare nella tasca interna del giubbotto.

    «Pronto!».

    «È per martedì».

    «Ah! Vabbuo’. Le chiavi dell’auto?».

    «Ci saranno al momento giusto».

    «Sicuro? Sennò per farla partire mi tocca collegare i fili...»

    «Ho detto che ci saranno. Le troverà nel posto stabilito. Piuttosto, è certo di farcela ad arrivare fin là? La strada è una sterrata piena di buche e l’auto ha i pneumatici lisci e le sospensioni da rifare. È sicuro di non restare per strada?

    «Ennò, cazzo che non sono sicuro. Ma mica posso fare le prove in anticipo. Mica sono io il padrone della panda. Ho saputo che quel catorcio sta insieme con lo sputo».

    «Allora come fa a essere sicuro che ce la farà?».

    «Ci spero, cazzo. E poi sto attento alla guida. La macchina deve essere per forza quella, no? Se vado piano posso farcela...»

    «Deve farcela! Ha controllato il percorso? L’ha imparato bene?».

    «Ce la siamo fatta ieri, quella strada del cazzo. E ripassiamo anche domenica».

    «Bene, le conviene. Non può rischiare di restare a piedi».

    «Minchia che palle! Ennò che non ci resto a piedi. Magari finisce che striscio il culo per terra ma sul posto ci arrivo».

    «Sì, guidi con prudenza. E adesso spenga il cellulare. Lo tenga spento fino a...». Pausa. «Diciamo fino a martedì pomeriggio. Lo riaccenda mezz’ora prima di entrare in azione».

    «Prima di che?».

    «Di fare quello che deve fare. Lo lasci acceso una mezz’ora e poi spenga e lo lasci spento».

    «Eh, lo so quello che devo fare. I rischi ce li corro tutti io e il mio socio...».

    «È tardi per ripensarci».

    «E chi ci ripensa? Era solo un pensiero, tutto qua».

    «Meglio così. Appena arriva sul posto sistemi tutto e poi vada a fare la telefonata. Dalla cabina! Non usi più il cellulare. Si prepari la scheda in tasca. Tutto chiaro?».

    «Sì, cazzo che è chiaro! Per essere chiaro, è chiaro. Ma mica è facile. Qui si parla di far fuori due...».

    «Stia zitto!».

    «See! Io sto zitto ma lei prepari la grana. Questa faccenda costa cara».

    Dall’altra parte il cellulare restò muto.

    «Ha capito, cazzo, quello che ho detto? Questa faccenda costa cara!».

    Silenzio. La comunicazione era stata interrotta.

    Capitolo 3

    Venerdì 2 febbraio, h. 19 circa

    «Nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo».

    «Amen».

    «Il Signore sia nel tuo cuore e nelle tue parole. Da quanto tempo non ti confessi?».

    «Non ricordo padre».

    «Più di dieci anni? Più di venti?».

    «Da quando ero bambino. Sono più di quarant’anni».

    «Allora dimmi quello che ricordi».

    «Ho infranto i comandamenti. Tante volte».

    «Quali comandamenti?».

    «Tutti. Più o meno».

    «Cosa intendi per tutti? Hai rubato? Hai fornicato? Hai...?».

    «Sì, ho anche ammazzato».

    «Perché hai deciso di accostarti al sacramento della riconciliazione? Perché sei venuto a confessarti adesso?».

    «Sono pentito. Vorrei non aver fatto quello che ho fatto e...».

    «Continua».

    «E non vorrei farlo ancora. Sto per uccidere di nuovo».

    Silenzio. Un lieve ansimare.

    «Non farlo! Se sei venuto qui è perché non vuoi. Ti supplico di ascoltare la tua coscienza e la tua ragione...».

    «Devo farlo, padre. Se non lo facessi sarebbe la fine per me e per altri. I miei familiari».

    «I santi martiri hanno sacrificato la vita per non offendere Dio...».

    «I santi martiri erano appunto santi. Non tutti gli uomini sono chiamati alla santità. Padre, io non ho questa forza. E comunque, se non la facessi io, questa cosa, la farebbe qualcun altro. Ormai è stato deciso».

    «Allora va’ dalle autorità. Dì quello che sai. Fa’ il possibile per impedire che questo delitto venga commesso. La vita è sacra...».

    «Padre, lei non sa quello che dice. E comunque, non stiamo parlando di delitto, ma di delitti! Non posso fare niente per impedirli».

    Altro silenzio.

    «Ma puoi, anzi devi, guardarti bene dal commetterli».

    «Gliel’ho detto, padre. È impossibile».

    «Allora non posso aiutarti. Non ho la facoltà di riconciliarti con Dio se intendi perseverare nel peccato. Ti prego di andartene subito perché stai profanando questo sacramento. Senza il...».

    «Mi è stato ordinato di uccidere e lo farò. Mentirei se dicessi che...».

    «...senza il pentimento e la sincera intenzione di non peccare più, la tua confessione termina qui. Non posso darti l’assoluzione. Che Dio ti perdoni».

    «Un momento, padre. C’è una cosa...».

    «Sì?».

    «Il segreto. Lei è vincolato anche se...»

    «Vuoi dire il sacro sigillo della confessione?».

    «Sì».

    «Quello non può venire infranto per nessun motivo».

    «Anche se non c’è stata assoluzione?».

    «Sì. Il sacramento resta sacramento».

    «Bene! Intendo dire: buon per lei, padre».

    Capitolo 4

    Martedì e giovedì

    Che piovesse, nevicasse o tirasse vento il coro si riuniva tutti i martedì e i giovedì sera, dalle nove alle undici, nella chiesa parrocchiale davanti all’altare maggiore.

    Lì, le note dell’organo evocate dalle mani sensibili e dai piedi smisurati di Leonardo Coronari arrivando dalla cantoria avvolgevano l’aria in limpide ondate, senza distorsioni. Perfette come la malinconia della penombra bucherellata dai lumini.

    I coristi adulti di solito arrivavano alla spicciolata, bevevano il caffè della macchinetta in sacrestia, un saluto, due chiacchiere, poi cominciavano ad allinearsi, ciascuno secondo il proprio ruolo: soprani, mezzo soprani, contralti, tenori, baritoni e bassi, formando un ampio semicerchio davanti al leggìo del maestro Lovati.

    Era molto scrupoloso Lucio Lovati. Insegnava musica alle medie, ma avrebbe meritato molto di più. Aveva studiato direzione d’orchestra, composizione e armonia al conservatorio. In gioventù aveva suonato l’oboe in un quartetto di musica da camera che aveva avuto un discreto successo. Adesso dirigeva il coro SaMCo della parrocchia di Santa Maria della Conciliazione.

    Una sua creatura, il coro, che lui cresceva con amore, dedicandole tutto il tempo che la scuola e una moglie un po’ lagnosa gli lasciavano libero.

    Oltre agli adulti, una quindicina quando c’erano tutti, il coro comprendeva anche otto ragazzi: tre maschi e cinque femmine dai sette ai quattordici anni. Loro arrivavano in due gruppi, accompagnati da genitori volonterosi che facevano i turni.

    Seri e solenni, i bambini facevano meno confusione dei grandi. Non perché fossero cherubini, ma perché al catechismo avevano imparato che dietro la lucina rossa c’era il tabernacolo e dentro al tabernacolo c’erano le ostie consacrate. E da qualche parte, lì vicino, c’era sempre il parroco che diventava una belva se vedeva qualcuno mancare di rispetto al Santissimo. Quindi, niente spintoni né risate, né chiacchiere, né partiture date in testa. Appena arrivati alle prove, maschi e femmine si schieravano davanti ai grandi, zitti e mosca. Soprani a sinistra e contralti a destra.

    Ivan, undici anni, il solista, era il gioiello del coro. Stava sempre al centro, dietro la prima fila, in modo che la sua voce potesse elevarsi limpida e solitaria per raggiungere da sola note impossibili.

    Per emozionare come un dono improvviso e inaspettato.

    Per duettare con il coro al completo.

    Era anche un buon regista, Lucio Lovati. La disposizione dei coristi l’aveva studiata insieme con Leonardo Coronari, proprio per dare il massimo risalto agli effetti sorpresa e stupore.

    E ci era riuscito perfettamente perché Ivan era un prodigio della natura. Era un arcobaleno in un cielo pieno di pioggia. Un sorriso fra le lacrime. Un ghiacciaio illuminato al sole.

    E meritava il massimo risalto.

    Per le prove c’era una tastiera Yamaha, ma Leonardo preferiva accompagnare i coristi con l’organo monumentale dalla cantoria soprastante la cappella di sant’Antonio, la prima sulla destra del portale.

    Quella cappellina, dominata da una statua del santo a grandezza naturale che accoglieva i fedeli offrendo gigli polverosi, era sempre la più illuminata dalle candele votive. Non tanto per devozione, quanto per comodità dei fedeli che anche per chiedere grazie evitavano di fare quei quattro passi in più fino a santa Caterina da Siena o a santa Lucia alle estremità opposte del transetto. Non parliamo poi di san Francesco, l’ultimo in fondo alla navata: quello non se lo filava proprio nessuno.

    Leonardo Coronari era un musicista puro, un virtuoso del pianoforte formato alla Civica scuola di musica, splendida alternativa milanese al conservatorio.

    Leonardo sognava di diventare concertista di piano. Poi un giorno il parroco gli aveva chiesto come favore speciale di suonare l’organo a un matrimonio. Su quelle note che gonfiavano l’aria di sensazioni fisiche riempiendo l’anima e la mente, la sua passione aveva sterzato bruscamente. La ventata di sonorità traboccante dalle antiche canne aveva spazzato via il suo ardore per il piano, sostituendolo proprio lì, su quello stretto balconcino che nelle funzioni solenni sembrava sospeso sopra il fumo dell’incenso, con la passione divorante per un vecchio organo con la consolle tarlata e la voce poderosa.

    Non era stato facile per Leonardo convincere don Mario a lasciarlo stare in pace lassù finché voleva, a esplorare tutte le potenzialità di quel fantastico strumento.

    L’organo settecentesco di Santa Maria della Conciliazione era più vecchio della chiesa costruita ai primi dell’Ottocento per volontà di un vescovo ricco, ambizioso e megalomane, che volle comperarsi lo scranno in paradiso regalando una sede al neonato ordine religioso delle Sorelle della Carità.

    Le suorine, da poco benedette da papa Leone XII e già pronte a sciamare come api in tutta la penisola, avevano gradito il dono del prelato e si erano installate nel convento a ridosso della chiesa, oggi riciclato in centro parrocchiale. Però non avevano mai amato quel luogo che all’epoca era raggiungibile solo a dorso di mulo o con barconi trainati da cavalli. Una specie di eremo, circondato da un terreno paludoso infestato dai briganti e dalle zanzare. Appena era stato loro possibile si erano trasferite nel centro di Milano, perché le fanciulle pericolanti che il loro ordine si era prefisso di raccogliere dalla strada in poco tempo erano state sostituite da giovinette dell’alta borghesia, troppo ricche e viziate per andarsi a seppellirsi fra nebbie, rane e pappataci.

    Dopo la fuga delle suore il vecchio convento era rimasto abbandonato per anni e la chiesa fu sconsacrata. Solo negli anni sessanta aveva iniziato a riprendere vita, quando la città si stava estendendo come un corpo troppo nutrito e debordante che deve continuamente allargare la cintura.

    La cintura di Milano, che oggi è formata da un hinterland di grossi paesi irti di brutti palazzi, centri direzionali e megastore, in quegli anni s’incamerò il dono del vescovo ma si guardò bene dal restituire la chiesa e il convento alle antiche funzioni. Quei santi luoghi restarono abbandonati a se stessi per molti anni, finendo per trasformarsi nella combat zone dei mafiosi e dei balordi locali che si disputavano fette di mercato del narcotraffico a colpi di mitra.

    Ci furono vere e proprie carneficine da quelle parti, a sud-ovest del Duomo. Il convento divenne l’Ipercoop dell’ero. La chiesa finì di essere spogliata di quel poco che si era salvato. Perse anche le piastrelle bianche e nere del pavimento e il lastrone di pietra incisa che aveva custodito le spoglie del vescovo, finché rimasero solo i muri ricoperti di spessi strati di nerofumo e di graffiti osceni. I pavimenti del convento cominciarono a ospitare materassi lerci che qualche furbo affittava ai tossici per i loro viaggi. Tutto questo durò anni, decenni, finché un comitato di residenti incazzati non inviò qualche migliaio di firme ai sindaci di Milano e di Rozzano insieme con un sacco pieno di siringhe usate e di bossoli di pallottole raccolti fra le navate.

    Uno scandalo.

    Il sindaco e i consiglieri che avevano fatto i pesci in barile finché avevano potuto, alla fine cedettero, se non altro perché era vicina la data delle elezioni. Furono stanziati fondi per i lavori di restauro e conservazione e a metà degli anni Ottanta la chiesa tornò a splendere, bella e incongrua come una principessa al mercato del pesce, al centro di una selva di palazzi edificati senza ordine, tanto addossati gli uni agli altri da avere una faccia sempre in ombra e l’altra sempre al sole. Come la luna. E siccome quei palazzi traboccavano di ragazzini, il clero tanto disse e tanto fece che riuscì a sottrarre al Comune il fabbricato del convento perfettamente restaurato per trasformarlo in oratorio.

    Un oratorio di frontiera, frequentato da ragazzi difficili, sempre in bilico fra il campetto da calcio e il cortile di cemento del carcere minorile, ma che don Mario, uno di quei preti che sembrano nati già parroci con la tonaca e tutto, era riuscito a controllare per vari decenni, dividendo il buon seme dalla gramigna più con l’aiuto dei suoi scarponi rinforzati che con l’ispirazione dello spirito santo.

    E Ivan era uno di quei ragazzi.

    Se c’era un ragazzo pericolante fra la marmaglia dell’oratorio, quello era Ivan Della Seta. I presupposti per terminare l’infanzia al Beccaria li aveva tutti. La sua situazione famigliare era un disastro. Padre morto per droga, casa e frigorifero sempre vuoti. Sua madre, domestica a ore che la sera era troppo stanca anche per dire buonanotte ai suoi figli.

    E poi, c’era il fidanzato che la sventurata si era messa in casa. Un poco di buono, violento e per di più pregiudicato, ristretto nella libertà con l’obbligo di firma. Se non ci fossero stati il Don e l’oratorio a mettere un po’ d’ordine nella vita del ragazzino, le sue possibilità di arrivare alla maggiore età senza passare dal minorile sarebbero state sotto zero.

    I bambini come Ivan, figli della strada, cresciuti con l’assillo quotidiano del cibo per riuscire a stare in piedi e magari farsi anche qualche partita di calcetto, nelle periferie di tutta Italia vengono marcati stretti dalle bande malavitose fin dall’asilo. La non punibilità e la necessità di sfamarsi li rende una fonte di manovalanza a basso costo per rifornire i ricettatori di bici, motorini, caschi, orologi e cellulari. Se va bene.

    Ivan una madre ce l’aveva, ma la povera Annamaria col suo lavoro traballante e malpagato doveva provvedere a tutto. Affitto, cibo, vestiti, bollette e soprattutto vizi. I vizi del convivente che non guadagnava una lira ma non si faceva mancare nulla. Così era sempre in giro a pulire scale, spazzare uffici e a lustrare pavimenti. E i suoi figli erano poco meno che abbandonati a loro stessi.

    Ma per fortuna c’era don Mario che un po’ con il coro, un po’ col calcetto, molto con la sua ruvida autorità, riusciva perfino a costringere Ivan a studiare. Un impegno, questo, che andava ben oltre i suoi doveri pastorali. Ma quel ragazzino gli piaceva molto e sapeva che sarebbe bastato un amen perché si rovinasse. E se Ivan si fosse perduto per strada nessuno avrebbe salvato sua sorella Martina.

    Perché i due erano incollati con il bostik. E quello che fosse capitato all’uno, avrebbe travolto anche l’altro.

    Capitolo 5

    A dotare la chiesa di Santa Maria della Conciliazione di un organo monumentale non erano stati il Comune di Milano e quello di Rozzano. E neppure il ricco ordine delle Sorelle della Carità. Ci aveva pensato una nobildonna che possedeva un’immensa tenuta dalle parti di Moirago.

    Si chiamava Maria Costanza Appiani d’Aragona e apparteneva a un’antica famiglia imparentata con il trono di Spagna. Una donna molto nobile, molto ricca, molto pia e molto brutta.

    Negli ultimi anni della sua vita aveva passato più tempo in chiesa che a casa sua e si era resa conto, lei che aveva girato il mondo per seguire il marito diplomatico, che le funzioni in quella cattedrale di periferia sarebbero state molto più piacevoli e coinvolgenti se fossero state accompagnate dalla musica di un organo vero, non dall’armonium a pedali che appiattiva e deformava Bach trasformando le splendide corali in nenie soporifere.

    E se poi, oltre all’organo, ci fosse stato anche un coro dignitoso, lei avrebbe potuto chiudere gli occhi durante mess’alta e illudersi di stare ancora nella cattedrale di Friburgo, dove aveva passato gli ultimi anni della sua vita con la buonanima.

    Detto, fatto.

    L’anziana marchesa, dopo essersi consultata con i suoi amministratori e con il notaio, aveva creato un fondo per le necessità liturgiche della parrocchia, delegandone l’amministrazione ai Consigli parrocchiali che si sarebbero succeduti negli anni, naturalmente sotto la supervisione dello studio notarile che, il più tardi possibile, sarebbe stato anche suo esecutore testamentario.

    Naturalmente la prima necessità liturgica era stata l’acquisto a un’asta dell’organo. Uno strumento maestoso e antico di fabbricazione tedesca, per installare il quale si era reso necessario rinforzare la cantoria e ampliarne il poggiolo.

    La seconda era stata la creazione del coro con un sostanzioso legato.

    E così, grazie alla generosità consapevole di donna Maria Costanza e a quella inconsapevole del di lei marito, che in vita era stato massone e anticlericale, quella parrocchia fuori mano aveva avuto i suoi gioielli. E don Mario ne era diventato il custode.

    Capitolo 6

    Martedì 6 febbraio 2007, h. 16.30

    Quel martedì al coro ci furono alcune novità.

    Anzitutto le prove.

    Invece che dopo cena si tennero nel tardo pomeriggio. E non in chiesa perché certi lavori all’interno dell’abside l’avevano resa inagibile, ma dentro l’aula del catechismo.

    Poi all’accompagnamento con la Yamaha e alla direzione dovette provvedere Leo da solo, perché il maestro Lovati a quell’ora era impegnato.

    La stanza non era ampia. Leonardo, che detestava la tastiera elettronica, ci mise un po’ a studiare la posizione dei coristi per ottenere un’acustica accettabile. Così, prima che tutti fossero pronti passò quasi un’ora.

    Il programma del concerto di Pasqua concordato con don Mario che di musica capiva poco ma quando cantavano i suoi ragazzi li ascoltava rapito perché, come amava ripetere a chiunque, si sentiva volare l’anima, era diviso in due: una parte sacra che comprendeva l’Hallelujah del Messiah di Haendel, il Magnificat in sol minore di Vivaldi e il Sanctus della Messa da Requiem in re minore di Mozart. E una parte per così dire profana, la più amata dai bambini del coro, soprattutto da quando il maestro, cedendo alle insistenze del parroco, si era deciso a inserire pezzi facili ma d’effetto come We are the World, When the Saints Go Marching In e il delizioso Naviglio Blues, parole della poetessa Alda Merini e musica di Leonardo Coronari, che mandava in estasi il popolo dell’Alzaia.

    Un programma impegnativo, che richiedeva una voce limpida e potente. Quella di Ivan, appunto.

    Ma quel martedì alle prove Ivan era sulla graticola. Sua sorella Martina, prima elementare, alle sei terminava il doposcuola e lui doveva passare a prenderla.

    Leonardo stava riprovando per la terza volta l’Hallelujah perché uno degli adulti continuava a mancare l’attacco quando vide Ivan lasciare il suo posto e prepararsi per andare via.

    «Ivan, che fai? Te ne vai di già?».

    «Mia sorella. Devo andare a prenderla a scuola».

    «Mi spiace accidenti! Dopo l’Hallelujah volevo provare il blues. Non puoi aspettare cinque minuti?».

    «Mah, no, cioè... Mia mamma ha detto che me le dà se non arrivo in tempo dalla Martina».

    «Va bene. Allora ci vediamo giovedì».

    «Sì, però diglielo tu al maestro che non deve dare alla Monica la mia parte del blues».

    «Sta’ tranquillo. Tu e Monica non avete la stessa voce. Ricordati che giovedì le prove sono alla sera. Non qui, ma in chiesa, come al solito. Mettiti d’accordo col papà di Marco. Tocca a lui accompagnarvi».

    «Va be’. Ciao».

    «Ciao, Ivan. Copriti, che oggi fa freddo. Attento alla gola!».

    «Sì, ma io non ho freddo».

    «Quel giubbino è leggero. Se ti viene il mal di gola non canti più per un pezzo. Senti, prendi la mia sciarpa. Io ne ho un’altra. Giratela bene attorno al collo».

    «Grazie, Leo, ma...».

    «Niente ma. Prendila, ho detto!».

    «E vabbè. Grazie. Ah, Leo...».

    «Sì?».

    «No, niente. Ciao».

    «Ciao».

    Capitolo 7

    Sugli undici anni di Ivan gravavano responsabilità che sarebbero state pesanti per un adulto. Fra tutte, la necessità di arrivare puntuale a prelevare Martina a scuola era quella che lo angosciava di più, al punto da guastargli l’intero pomeriggio.

    La bambina terminava il doposcuola alle quattro e mezza ma restava a scuola fino alle sei perché la Tito Speri offriva il servizio di Giochi serali a quegli scolari che altrimenti sarebbero stati abbandonati a se stessi fino al ritorno del genitori dal lavoro. I bambini restavano nelle aule a giocare, sorvegliati dalle educatrici del Comune, fino a quando un familiare non si fosse presentato a prelevarli.

    Le sei di sera erano il limite massimo.

    Ivan lo sapeva e cominciava a sentirsi nervoso fin dalle quattro e mezza-cinque perché dall’oratorio doveva farsi un tratto lunghissimo coperto solo dal tram numero quindici, famoso per non rispettare gli orari. Solo una volta era arrivato in ritardo, ma aveva trovato la sorella in lacrime e le due maestre, invelenite per averlo dovuto aspettare, lo avevano minacciato di fare la spia alle assistenti sociali se fosse capitato un’altra volta.

    Ci sono bambini che hanno paura del buio. Altri che si spaventano ascoltando i racconti di paura. A terrorizzare Ivan erano le assistenti sociali del Comune che seguivano lui e Martina.

    Arrivavano a casa loro sempre in due. Una bionda ossigenata e una mora, tutte e due di mezza età. Tutte e due arrabbiate con Giulio, con la mamma, con Ivan, col padreterno. Suonavano, entravano in casa senza chiedere permesso, frugavano nel frigorifero con la scusa di controllare che i bambini mangiassero sano e bilanciato, passavano il dito suoi mobili per vedere se la casa era pulita e di tanto in tanto, a sorpresa, richiedevano per Ivan e Martina una visita medica presso l’ambulatorio pediatrico della Asl.

    Siccome in quelle occasioni i due bambini classificati a rischio venivano fatti spogliare completamente e il medico ispezionava anche gli organi genitali, non era un mistero che lo scopo dei controlli fosse di accertare che non subissero violenze e abusi.

    Ivan lo sapeva.

    Lo aveva sentito urlare dalla mamma un giorno in cui era arrivata l’ennesima lettera che li convocava all’ambulatorio.

    «Quelle due troie chissà cosa si credono!», aveva urlato Annamaria Donadio a beneficio di tutto il vicinato.

    «Credono che tu ti porti a casa gli uomini che incontri nei bar. Ecco quello che credono!», aveva ribattuto Giulio Della Volpe che l’occasione per un insulto

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