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Milano, solo andata
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E-book359 pagine5 ore

Milano, solo andata

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Info su questo ebook

Sullo sfondo della Milano post Tangentopoli, la storia di una giovane donna alla ricerca della propria identità perduta.
La vicenda, che ha come antefatto una strage di mafia realmente accaduta, si svolge nell’estate del 2000. Protagonista, una giovane insegnante di scuola media che dopo la morte dei genitori adottivi decide di approfittare delle vacanze estive per cercare chi l’ha messa al mondo o, almeno, per scoprire le ragioni che hanno indotto sua madre ad abbandonarla in un istituto quando aveva quattro anni. Piena di dubbi, ma decisa a fare luce su certi suoi misteriosi brandelli di ricordi, si rivolge alla trasmissione di Raitre Chi l’ha visto?, accettando di apparire sul video per lanciare il solito appello a chiunque “abbia-visto-o-sappia-o-ricordi” qualcosa. Non si aspetta grandi rivelazioni, anzi, in cuor suo è già rassegnata a non avere alcuna notizia utile. E invece, a partire dal momento in cui va in onda il servizio che la riguarda, viene proiettata in una spirale di orrore alla quale riuscirà a sfuggire solo rinunciando alla propria identità. L’epilogo, amaro quanto ineluttabile, è storia di ordinaria quotidianità. In bilico fra realtà e fiction, questa “storia di questura” ha al centro un grande intrigo ma è priva di eroi, fitta di colpi di scena e, fino all’epilogo, priva di soluzioni, proprio com’è nell’ordine naturale della cronaca quotidiana, dove l’intelligenza e la generosità di chi svolge le indagini si scontra immancabilmente con l’arroganza di chi ha il potere. Sullo sfondo, una Milano bella ma irraggiungibile, spopolata dall’afa e crudelmente avvolta attorno al proprio impenetrabile egoismo.
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2014
ISBN9788875639860
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    Anteprima del libro

    Milano, solo andata - Adele Marini

    Ringraziamenti

    Un pensiero di gratitudine va a Pier Giuseppe Murgia, inarrivabile maestro, autore della trasmissione Chi l’ha visto? per avermi generosamente consentito di inserire la sua creatura nella trama di questo romanzo.

    Dedico un grazie molto speciale anche ad Alberto Sala, grande amico oltre che mio guru nell’apprendimento delle complesse procedure giudiziarie e dei misteri della finanza off shore. Grazie, Alberto, per avermi permesso di respirare, nel tuo ufficio, alla Squadra Mobile di Milano, un po’ d’aria vera di Questura.

    Inoltre, sono lieta di ringraziare Edoardo Corazzari, Maria Pia Larocchi e Giovanna Strocchi Camporesi per il non piccolo contributo che ciascuno di loro ha dato a questo libro.

    L’ultimo grazie affettuoso è per mio marito Lionello, per avermi aiutato nell’indispensabile quanto noioso lavoro finale di lima e cesello.

    Capitolo 1

    Non a te sola fra gli uomini, figlia mia, è apparso il dolore; e in questo tu sei diversa dai tuoi congiunti, dalle persone del tuo stesso sangue.

    Sofocle, Elettra, 153-156

    Catania, 14 settembre 1974

    Buio. Freddo. Silenzio.

    Nel parco intriso dell’umidore notturno i globi accesi fra i cespugli rischiaravano una scena che sarebbe stata del tutto normale alla luce del giorno, ma che a quell’ora appariva surreale e vagamente inquietante. Una bambina sedeva sola sulla scalinata di pietra di una villa liberty. Alle sue spalle, protetto da un portichetto a baldacchino, un monumentale portone di quercia.

    Sbarrato.

    La piccola, quattro-cinque anni non di più, faccino tondo e capelli lunghi color dell’oro pallido, indossava quello che sembrava un pigiamino a fiorellini bianchi e blu. Fu proprio questo particolare che colpì il cacciatore quando, svoltato l’angolo, gettò casualmente un’occhiata al di là della cancellata.

    Non l’ora insolita.

    Non l’oscurità appena incrinata dalla luce verdastra dei lampioni.

    Non la vocetta saltellante della piccola che parlottava al bambolotto stretto fra le braccine nude.

    A mettere in allarme l’uomo fu il pigiamino di cotone, troppo leggero per il freddo che precede l’alba a settembre inoltrato. Soprattutto su quel versante della collina spazzato dalla brezza di mare.

    L’uomo, che ogni mattina sfruttava il viale privato della villa come scorciatoia per risalire il crinale fino ai boschi più in alto, sostò perplesso a contemplare la scena mentre la bimba, che doveva averlo sentito arrivare, dopo una rapida occhiata di sottecchi, era tornata a immergersi nel gioco.

    Strana cosa. Molto, molto strana.

    "Iiih, picciridda…".

    Nessuna risposta. La bambina doveva essere consapevole della presenza di un estraneo al di là del cancello, ma tenne lo sguardo sul bambolotto. Il cacciatore si appoggiò all’inferriata accarezzandosi il mento, mentre il cane, che doveva aver percepito l’incertezza del padrone, sollevava il muso per annusare l’aria drizzando le orecchie.

    "Picciridda, mi senti?", chiamò ancora a mezza voce per rispetto dell’ora e del luogo, perché erano le cinque meno un quarto del mattino e quella era casa di signori.

    Ancora silenzio.

    L’uomo rimase immobile ancora qualche istante, poi prese la decisione. Fischiò al cane e tornò sui suoi passi. Lì vicino, proprio in fondo al sentiero, c’era una cabina telefonica. La raggiunse, si frugò nelle tasche del giubbino di cotone e trovò un gettone. Lo infilò nella fessura poi, svelto, guardandosi alle spalle per controllare che nessuno stesse guardando, staccò la cornetta tenendola cautamente fra l’indice e il medio allargati a forcella, attento a non sfiorarne la superficie con i polpastrelli. Con la mano libera, aiutandosi con la Bic che portava sempre nel taschino, ruotò il disco e compose il 113.

    Al centralinista descrisse, in poche parole, la scena così come gli era apparsa, senza ricamarci sopra.

    Una bambina molto piccina giocava tutta sola nel giardino della villa ah!.

    Nossignore, non era abbandonata. Dentro il giardino di casa sua, stava. Ma non era strano che fosse lì, sola, al freddo, ah?.

    Parlò rapidamente, come chi non vuole essere interrotto. Quando gli fu chiesto di dire il proprio nome, riappese.

    Fuori della cabina la strada era ancora deserta anche se ormai cominciava ad albeggiare. Un fischio al cane e l’uomo riprese a salire di buon passo il sentiero. Aveva fatto il suo dovere. Ora, che ci pensassero gli sbirri.

    Meno di mezz’ora dopo lo scenario era completamente cambiato. La strada che costeggiava la villa era affollata e attraverso le chiome degli eucalipti si intravedeva un lampeggiare di luci blu. Le intermittenti delle autoambulanze e quelle delle auto della polizia.

    Non si sentiva più il parlottare della bambina, ma l’aria era piena delle voci degli agenti che si muovevano rapidi a sistemare nastri e cavalletti per circoscrivere la zona. Era evidente che lì doveva essere accaduto qualcosa di tremendo, perché davanti al cancello, dove poco prima aveva sostato l’uomo, si avvicendavano le auto della Croce Rossa. Sostavano qualche minuto poi ripartivano.

    Senza sirene.

    Perché quando si accorre per caricare dei morti non c’è bisogno di svegliare tutta la città.

    E dentro quella villa, di morti, ce n’erano tanti.

    Una strage.

    Capitolo 2

    Al primo piano, nella camera padronale, c’era il cadavere di una giovane donna bionda.

    Era stata sorpresa dalla morte in pieno sonno. Le lenzuola e il materasso sotto di lei erano inzuppati di sangue, che si era allargato anche sul parquet in una pozza scura. La testa era stata quasi staccata dal busto con una rasoiata. Attraverso i lembi della ferita si intravedeva il biancore rosato delle cartilagini. Chi aveva vibrato quel colpo doveva essere dotato di una forza notevole, oppure trovarsi in preda a un furore distruttivo.

    In una stanzetta bianca e blu, comunicante con quella matrimoniale, decorata con i personaggi dei cartoni animati, c’era un bambino. Tre anni, forse nemmeno. Anche lui sgozzato nel sonno. La morte era stata rapida, quasi indolore perché il faccino era di­steso, sereno, gli occhi chiusi. Il corpo era ben composto e non mostrava segni che indicassero un tentativo di difesa.

    E poi c’era una coppia.

    I due dovevano aver sofferto, e tanto. Svegliati di soprassalto, avevano tentato reazioni disperate. Lui, sulla sessantina, era stato inseguito lungo il corridoio del piano superiore e pugnalato su tutta la superficie del corpo, comprese le mani con cui si era fatto scudo. I fendenti gliele avevano ridotte a brandelli. Alla fine, sconfitto, si era accasciato in cima alla scala che portava al pianterreno.

    Anche la donna, di mezza età, ma ancora snella e soda come una ragazza, aveva tentato inutilmente la fuga.

    La morte l’aveva raggiunta al piano di sotto, a meno di un metro dal telefono che comunque non le sarebbe servito perché il filo era stato tranciato. Lei doveva esservisi lanciata per dare l’allarme, ma un istante prima che arrivasse a toccare l’apparecchio l’avevano finita a rasoiate. Scappando in camicia da notte, aveva perso le pianelle. Una era rimasta sulla scala, l’altra vicino al viso sfigurato dai tagli. Era caduta davanti alla porta della cucina inondando di sangue le pareti, i mobili ai quali si era aggrappata e il pavimento. Altro sangue le aveva inzuppato la camicia da notte di lino, disegnando orridi fiori rossastri laddove c’era un delicato ramage ricamato in bianco.

    Poi c’era un ragazzino sui tredici anni.

    Lo avevano trovato per terra, nella sua stanza al primo piano. Su di lui non era stato usato il rasoio, che era stato abbandonato in cucina sul lavello. Doveva essersi svegliato di soprassalto e gli avevano sparato dalla soglia della sua camera con un fucile caricato a pallettoni. Il colpo gli aveva devastato la spalla, il viso e parte del torace.

    Impossibile sopravvivere a quella devastazione. All’arrivo dei paramedici, però, aveva dato un debolissimo segno di vita. E così, solo per lui, la quiete dell’alba si era raggelata nell’urlo della sirena.

    Infine, il padrone di casa.

    Sulla cinquantina, alto, con la pelle scura come quella di un arabo, aveva folti baffi che gli incorniciavano la bocca rimasta spalancata nella smorfia della morte. Giaceva in una posizione scomposta, a metà della scala interna che collegava il piano superiore col vestibolo. Aveva la testa rivolta verso il basso e una gamba impigliata fra due colonnine della balaustra che avevano arrestato la caduta del corpo. Era coperto di sangue dalla testa ai piedi e nel petto, proprio al centro, un fucile, forse lo stesso che aveva sparato al ragazzino, gli aveva aperto una voragine. Un colpo soltanto, ma micidiale. L’arma era rimasta ai piedi della scala, vicino al corpo di un grosso retriever dal pelo dorato. Ucciso anche lui con un colpo esploso a bruciapelo.

    Su tutto aleggiava un odore greve. L’odore dolciastro e nauseabondo del sangue e della morte violenta. Ma la cosa più agghiacciante era il ronzio dei mosconi iridescenti arrivati a decine per banchettare.

    C’era stato un massacro in quella villa. Un massacro a cui, misteriosamente, era sfuggita solo una bambina di quattro anni.

    Capitolo 3

    Catania, 30 settembre 1974

    La riunione di famiglia fu ancora più tetra della veglia funebre. Anzi, fu essa stessa una veglia funebre o, almeno, una prova generale visto che la si dovette tenere con i morti, per così dire, ancora in casa anche se in realtà stavano altrove. Infatti, quindici giorni dopo la strage i corpi erano ancora tutti stivati dentro i cassoni d’acciaio dell’obitorio in attesa dei nulla osta per le sepolture.

    A rendere ancora più greve l’atmosfera già segnata dal lutto, aveva contribuito la cupa solennità della stanza. Il capofamiglia li aveva riuniti tutti quanti nel salone che non s’apriva quasi mai, tanto è vero che le donne di casa fin dal mattino avevano avuto l’ordine di dargli aria, levare le fodere alle poltrone e spolverare.

    Si erano radunati all’ora del caffè serale, servito in quella sala soffocata da mobili ingombranti moltiplicati dagli specchi e resa asfittica dai doppi tendaggi. I genitori e i figli soltanto, non le nuore e neppure il marito dell’unica figlia femmina, ché si sarebbe dovuto parlare di cose di famiglia, prendere decisioni gravi, nelle quali chi non era dello stesso sangue non avrebbe avuto diritto a mettere becco.

    Le donne soprattutto.

    Su questo don Mariano era stato categorico: le femmine imparentate solo per matrimonio alla fine chiacchierano. Si vantano. Fanno prendere aria alla lingua, aveva sentenziato durante la cena che aveva preceduto la riunione. Parlando muoveva i sopraccigli calandoli come accenti su ogni frase. No, niente sangue estraneo. Non quando si discute di vita, di morte e di denaro.

    I figli, rispettosi e ubbidienti, c’erano tutti.

    Tutti, meno Adolfo s’intende, ma aveva le sue buone ragioni. Era per lui e per le sue creature che la casa stava immersa da giorni in quel clima di tragedia.

    Adolfo era il morto. Anzi, era uno dei morti.

    Intorno a don Mariano, sprofondato in un’enorme poltrona, si erano accomodati tutti, seduti in circolo su scomode sedie imbottite.

    Vicino al padre stava Ignazio, il maggiore, che essendo destinato a prendere, un giorno, il posto di comando negli intricati interessi che avevano fruttato al patriarca potere, quattrini e, negli ultimi anni, anche il titolo di Cavaliere del lavoro, aveva accostato la sedia alla poltrona di lui, quasi a voler sottolineare la propria autorità sui fratelli.

    Era arrivato una settimana prima dal continente con la moglie Lucia e i due figli per stringersi alla famiglia nel dolore. Già da giorni avrebbe dovuto tornarsene a casa sua. La visita ai genitori si era protratta solo per l’attesa snervante dei funerali. In quel momento i suoi bambini erano nella stanza dei giochi sorvegliati da una serva mentre Lucia si era eclissata discretamente dicendo che avrebbe dato una mano a rigovernare in cucina.

    All’altro lato del padre sedeva la secondogenita Francesca, arrivata piuttosto affannata e leggermente in ritardo, ma era scusata perché aveva partorito da poche settimane e doveva allattare.

    Vicinissima alla figlia stava donna Amalia, ovviamente vestita di nero e con gli occhi orlati di rosso, ma con una fierezza nello sguardo che esprimeva l’apprezzamento per essere stata ammessa, una volta tanto, a quello strano consiglio di famiglia. In circostanze diverse quella riunione plenaria l’avrebbe sgomentata.

    Era sempre stata una donna schiva, più timorosa dei figli maschi che del marito, Amalia. Sempre incerta fra quello che si doveva dire e quel che invece era meglio tacere, per non sbagliare non apriva mai bocca. In quel momento però il fatto di essere lì e magari dover dire la sua le suscitava solo una blanda curiosità perché l’orrore l’aveva come anestetizzata. Del resto, quando una madre ha perso tragicamente un figlio e un nipotino di cos’altro potrebbe sgomentarsi?

    In fondo alla stanza, piuttosto discosto, sedeva il figlio minore Antonio, anche lui, come il padre e i fratelli, con la fascia nera del lutto cucita sulla manica della giacca, ma questa era l’unica cosa che lo accomunasse al resto della famiglia.

    Antonio era il frutto tardivo del matrimonio dei genitori. Quindici anni lo separavano dal terzogenito Adolfo e sua madre, che non si aspettava quella gravidanza arrivata quando si trovava già in preda ai bollori della menopausa, l’aveva vissuta con un po’ di vergogna ma anche con una gioia molto diversa da quella che aveva provato alla nascita degli altri tre figli. Una gioia che aveva sfiorato la pura estasi appena quel bimbo bello, sano e vivacissimo aveva visto la luce.

    Donna Amalia ancora oggi non si saziava di guardarselo quel figlio arrivato inaspettatamente quando gli altri due maschi e anche l’unica femmina, già quasi adulti, non avevano più bisogno di lei. E così, tenuta in disparte da tutti, aveva riversato su Antonio gli slanci repressi. Tutte le madri hanno le loro predilezioni, ma Amalia aveva esagerato. Aveva cresciuto l’ultimo nato con una cecità che le aveva impedito di vederne il vero volto.

    E il volto di Antonio era quello di un predatore.

    Al ragazzo, l’essere sempre accontentato in tutto, lo starsene a mollo dall’infanzia all’età adulta in un bagno di amor materno più vischioso della melassa, non aveva fatto per niente bene. A differenza dei fratelli maggiori e della sorella, plasmati dalle cinghiate del capofamiglia, lui aveva cominciato presto a mostrare i segni di quella scapestrata protervia tipica di chi si futtie du munnu intiru.

    E gli effetti non si erano fatti attendere. Quand’era un ragazzino non faceva che mettersi nei pasticci litigando con i compagni e rischiando di scatenare faide familiari. Adesso, a trentatré anni, nonostante fosse sposato e avesse tre figli piccoli, stava ancora combinando guai.

    Guai grossi.

    Quella sera, seduto con i fratelli nel tetro salotto, era terrorizzato al pensiero che i nodi fossero venuti al pettine perché, se così fosse stato, era certo che il padre quella volta non avrebbe avuto pietà.

    Fin quando non era stato servito e poi bevuto il caffè, non fu pronunciata nemmeno una parola. Don Mariano aveva continuato a tacere, scandagliando la stanza con uno sguardo duro che nell’inarcarsi frenetico delle sopracciglia parlava senza bisogno di sprecare fiato. I figli, rispettosi, aspettavano senza dare segni di impazienza. Tanto, avrebbero saputo fin troppo presto quello che c’era da sapere.

    È arrivata una lettera. Ora ve ne leggo qualche brano, si decise infine a dire, dopo aver fissato a sazietà la sua famiglia, i suoi mobili, i suoi quadri e tutto quello che la stanza conteneva. Parlando sollevò un braccio e fece un cenno alla moglie. Donna Amalia si alzò lesta e andò verso un mobile carico di fotografie e ninnoli tornando con una busta voluminosa di carta marroncina. .

    Ce l’ha spedita Adolfo, spiegò quasi strappandogliela di mano. L’ha scritta pochi giorni prima di morire.

    A quella rivelazione nella stanza corse un brivido.

    Adolfo?.

    Ignazio alzò sulla madre uno sguardo stupito. La donna si strinse nelle spalle indicando il marito poi svelta riprese il suo posto accanto alla figlia.

    Siamo qui perché riguarda anche noi? chiese Ignazio. Era una domanda inutile, ma serviva a riportarli tutti sui binari della concretezza. Basta piangere, pensava. Adesso è tempo di agire. I morti – pace all’anima loro – non hanno più pensieri, né doveri, né affari. Quelli sono fardelli che continuano a gravare sulle spalle dei vivi.

    Proprio così, riguarda tutti. Ora vi leggo. Adolfo ci fa sapere come ha disposto le cose. Qua dentro ci stanno le sue ultime volontà, precisò don Mariano.

    Adolfo non aveva nel cuore la famiglia. Lui era....

    Ignazio, di solito pacato e taciturno, aveva alzato un po’ la voce.

    Lasciamo stare i morti! abbaiò don Mariano che non era uomo da lasciarsi interrompere nemmeno dal figlio maggiore. Qua dentro sta scritto tutto. Ora ne dobbiamo discutere fra noi, come persone civili. Per la rabbia ci sarà tempo. Adesso tutto quello che dobbiamo fare è restare uniti. Uniti.

    Sull’ultima parola il vecchio capofamiglia calcò la voce e sollevò le sopracciglia al di sopra degli occhiali per sottolineare la gravità del concetto.

    Il silenzio che seguì fu così carico di aspettativa che il fruscio dei fogli estratti dalla busta uno per uno, con lentezza irritante, ebbe su tutti l’effetto di una scarica di elettricità prima del temporale. Anzi, prima dell’uragano. Perché fu proprio questo che si scatenò nella stanza appena don Mariano ebbe terminato la lettura e ogni singola parola scritta da Adolfo fu compresa da tutti nella pienezza del suo significato.

    Capitolo 4

    Milano, 14 giugno 2000

    L’ispettore capo Lucio Mauris, Quinta sezione della Mobile di Milano, arrivò in ufficio più presto del solito. Colpa della cappa di calura che in quei giorni era piombata sulla città come un coperchio rovente e lo aveva strappato dal letto alle sei, dopo una notte passata ad asciugarsi il sudore e a spiaccicar zanzare.

    Quel caldo era esagerato per essere in giugno. Lo dicevano tutti, ma per Mauris tutto era esagerato a Milano, specialmente l’estate.

    Lui, valdostano di nascita e piemontese per tardiva adozione, non ce la faceva proprio ad ambientarsi in quella metropoli immensa e disordinata, piatta come una focaccia, piena di brutti edifici sparpagliati a casaccio, senza armonia negli accostamenti di forme e di volumi, tutti incrostati di sporcizia e pieni di scarabocchi.

    Gran brutta città. E col caldo era anche peggio.

    Secondo Mauris, la capacità di sopravvivere a Milano un’intera estate senza farsi saltare i nervi e le cervella era una specie di conferma della teoria darwiniana. Selezione naturale. Chi riusciva ad arrivare all’autunno senza danni psicofisici era pronto a evolvere in una specie superiore. Gli altri, li leggevi alla mattina sui giornali, in cronaca. Nera.

    E del resto, come stupirsi se i più deboli davano fuori di matto? In quell’immenso catino che era la città, a stare chiusi fra asfalto e cemento, nei periodi più caldi si cuoceva. Letteralmente. Un po’ di rosmarino e la gente avrebbe preso il gusto e l’aroma del pollo al mattone.

    E la notte, poi! Dal tramonto all’alba mai una tregua nell’incessante vampirizzare delle zanzare. Mai un filo di brezza. E chi, come lui, era costretto a restare lì a sudare, doveva anche vedersela con la malandra, che con lo spopolarsi dei quartieri diventava addirittura frenetica, tanto che nei commissariati non si riusciva a stare dietro alle denunce.

    Per colpa dei turni, l’ispettore, nella sua Torino a trovare la madre poteva tornarci sì e no una volta al mese mentre in Valle d’Aosta, dove continuavano a vivere i Mauris, che alle lusinghe della Fiat e della Olivetti avevano preferito la placida maestosità delle montagne, ci passava pochi giorni d’estate e qualche raro weekend invernale. Per il resto dell’anno pativa la nostalgia, che si faceva più acuta ogni volta che si affacciava alla finestra del suo bugigattolo in Questura.

    Un bugigattolo buio e inquietante. Molto inquietante. Se guardava giù, quattro piani più sotto c’era il tetro cortile che aveva accolto l’anarchico Pinelli in frantumi. Per non parlare del busto in memoria di Calabresi racchiuso dentro la sua nicchia. A Mauris, quel lugubre tributo più che al sacrificio del commissario faceva pensare alle vittime della strage avvenuta contemporaneamente alla commemorazione.

    Alzando la testa mentre stava alla scrivania avrebbe gradito vedere una bella corona di montagne con i fianchi inverditi dagli abeti, ma c’erano solo muri scuriti dai fumi di città.

    Cielo quasi niente. Azzurro, poi, figuriamoci!

    In giornate come quella, quando l’aria si addensa in ondate liquide e tremolanti, i milanesi avevano l’impressione di respirare dentro una bolla lattiginosa e opaca che dava l’oppressione e il mal di testa. Mauris sarebbe tornato a Torino a piedi se avesse potuto. Ma il suo lavoro era lì e così si era quasi rassegnato ad accontentarsi del Naviglio al posto del Po.

    Quasi, ma non del tutto e non sempre.

    Quello a cui proprio non riusciva ad abituarsi era di doversi sorbire ogni notte, da giugno a settembre inoltrato, quell’alito torrido e fetido che gli entrava in casa dalle finestre spalancate. Asfalto bollente e benzina, pattume lasciato a cuocere nei sacchi neri e urina degli ubriachi che la notte tiravano tardi nei pub della zona.

    Arrivato in ufficio, un cubicolo buio dalla forma e dalle dimensioni di un vagone ferroviario, che l’ispettore condivideva con il collega Giuseppe Salerni, il suo umore non migliorò. L’aria condizionata non era ancora stata attivata e lì dentro, in quei giorni di calura precoce, sembrava di stare in una sauna. Soffiò da sotto i baffi un "b’n’giorrrno" marcatamente gutturale per far capire che era incazzato poi, prima di sedere alla scrivania, si tolse la giacca scoprendo la camicia azzurra già chiazzata di sudore alle otto e mezza del mattino.

    Quel "b’n’giorrrno", che sarebbe stato perfetto in bocca a un marsigliese, non era artefatto. Molti colleghi non perdonavano a Mauris la sua pronuncia francese convinti che fosse una posa. In realtà, quella sua erre che raspava la gola come carta vetrata, le vocali strette e accentate e qualche intercalare francese che ogni tanto gli scappava, erano assolutamente genuini. Per uno come lui, un vero salasse nato e cresciuto in alta Valle d’Aosta, il francese era lingua madre e lingua padre. L’unica lingua che da vero montagnard avesse parlato dalla nascita fino alle elementari, quando lo avevano costretto a far convivere il patois savoyard con un italiano indispettito, segnato, quasi in segno di protesta, da una pronuncia franco provenzale così marcata da aver superato senza una scalfittura non solo gli anni passati a Torino, ma anche quelli di Milano.

    Togliendosi la giacca Mauris vide le chiazze scure del sudore che gli segnavano la camicia.

    "Merde!".

    Se c’era una cosa che gli dava fastidio era apparire meno che impeccabile, soprattutto in ufficio. Soprattutto la mattina. Ma non poteva farci niente. In quella città bastava passare mezz’ora in auto sotto il sole che subito si prendeva l’aspetto di uno che è andato a dormire vestito nella cuccia del cane. Pazienza.

    Che c’è oggi? chiese.

    Lì ci sta un fonogramma, mi pare, rispose il collega alzando la testa dagli incartamenti che stava sfogliando. L’hanno portato cinque minuti fa. È urgente.

    Certo che è urgente, brontolò Mauris pescando nel cestino della corrispondenza un sottile plico di fogli. Come tutto quello che arriva da giù. Solo quando siamo noi ad aver bisogno di qualcosa l’urgenza va a farsi benedire. Allora è tanto se mandano un piccione viaggiatore.

    Non era vero. Una volta soltanto era stata trascurata una nota inviata a Palermo, ma si era trattato di un errore dell’agente addetto allo smistamento che, trovandosi fra le mani il fax da Milano con la richiesta di informazioni su un fermato, lo aveva contrassegnato non urgente. Purtroppo riguardava un pregiudicato che girava con documenti falsi. Non avendo imputazioni da appioppargli e non ricevendo notizie da giù, gli agenti erano stati costretti a rilasciarlo. Un errore che in seguito era costato la vita a un orefice e a suo figlio, ammazzati nel corso di una rapina.

    Il fonogramma arrivato quel mattino proveniva dalla Questura di Caltanissetta e conteneva un lungo elenco di nomi. Tutta gente incensurata, nativa del Sud e domiciliata a Milano. Ai colleghi milanesi i siciliani chiedevano di mettere ogni soggetto sotto sorveglianza, controllando collegamenti, amicizie e parentele. In sostanza c’era il forte sospetto che quella gente costituisse una metastasi della malavita organizzata del Sud, salita a infiltrare i tessuti già infettati dalla malavita padana. Nell’elenco figuravano poveracci qualsiasi e professionisti con abbondanza di dott., di avv. e perfino un cav. davanti al nome. Soprattutto di avv. comunque. Uomini, donne, perfino un prete. Un po’ di tutto. Una cosetta da nulla filarli uno per uno, pensò Mauris divertito dal nome in codice dell’operazione: Piazza pulita.

    L’ispettore era un uomo alto, sui trentotto anni, col viso modellato su linee dritte, regolari, ma piuttosto dure. Una faccia che al primo sguardo dava una sensazione di gelida autorità e al secondo lasciava immersi in un vago disagio. Colpa della mascella scolpita nella pietra, tagliata da una bocca dritta e sottile. Ma colpa soprattutto degli occhi azzurrissimi e gelidi. Occhi trasparenti e impenetrabili, dal taglio leggermente a mandorla, che fissavano l’interlocutore dritto nelle pupille, facendosi a fessura alla minima ombra di sospetto.

    Occhi da sbirro.

    Non c’era dubbio, Lucio Mauris era uno sbirro. Vale a dire uno che non si rilassa mai. Uno che guarda con diffidenza anche il cielo, i sassi, le foglie. Sempre.

    Ma il meglio della sbirritudine Mauris lo dava durante gli interrogatori. Era capace di andare avanti un’intera notte a porre al fermato la stessa domanda. Ore e ore, sempre con lo stesso tono di voce piatto e controllato, sempre con lo stesso sguardo opaco e indifferente. Fino a quando nelle risposte non cominciava a intravedere qualche incrinatura. Segno sicuro di cedimento. Allora di botto cambiava registro.

    Caffè? Sigaretta? Un panino, magari?

    Appena si profilava la possibilità di ottenere informazioni utili alle indagini o, meglio ancora, una confessione completa e circostanziata, Mauris diventava il migliore amico di chi aveva la sventura di trovarsi chiuso con

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