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Il banchiere di Milano
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E-book376 pagine5 ore

Il banchiere di Milano

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Info su questo ebook

Raoul Sforza, conosciuto come “il banchiere nero” per i suoi trascorsi eversivi, è uno dei personaggi più ambigui ed enigmatici del panorama finanziario meneghino. Presidente della storica banca Sforza Mayer, nel corso degli anni è stato al centro di svariati processi e di indagini. Cinico ed eccentrico, amante del lusso e dell’arte, Sforza abita in un’antica dimora patrizia del quartiere di Brera, conducendo una vita lontano dai riflettori. In una sera d’inverno, i fantasmi del passato tornano a bussare alla sua porta. In pochi giorni, egli si ritroverà al centro di un complesso intrigo finanziario nel quale sono coinvolte figure di primo piano della città: commercialisti, costruttori, politici. In una Milano dove nulla è come appare realmente, in cui l’arma del ricatto è una pratica quotidiana, Raoul saprà muoversi con la giusta dose di disincanto e di astuzia per aiutare una misteriosa ragazza.

Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, è uno scrittore milanese. Si è occupato dello studio e della divulgazione della Milano sotterranea attraverso numerosi saggi. Ha scritto libri sull’epopea dei mercenari italiani nelle guerre post-coloniali e biografie inerenti agli Anni di Piombo. Ha pubblicato per Ugo Mursia Editore, Castelvecchi Editore, Newton Compton Editori, Ritter e Ferrogallico. Per Fratelli Frilli Editori (tra i vari titoli) ha pubblicato Ultimo tango a Milano (2018) e La gorgone di Milano, il suo primo noir scritto a quattro mani con lo speleologo Gianluca Padovan.
LinguaItaliano
Data di uscita26 apr 2021
ISBN9788869435294

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    Anteprima del libro

    Il banchiere di Milano - Ippolito Edmondo Ferrario

    Capitolo I

    Villa il Bomber

    Milano, ultimi giorni di maggio

    Protetto dai finestrini nero fumé del Suv blindato, l’onorevole Enrico Villa osservava compiaciuto gli sguardi incuriositi dei pedoni che dai marciapiedi assistevano al suo passaggio. Un’Alfa Romeo Giulia color blu, munita di lampeggiante e sirene spiegate, faceva da apripista con a bordo due agenti; a seguire, la Maserati Levante bianca su cui viaggiava il candidato sindaco di Milano, guidata da un poliziotto. A chiudere il convoglio seguiva un’altra Giulia, occupata da altri tre uomini della scorta, per un totale di sei agenti preposti all’incolumità dell’onorevole Villa durante gli spostamenti.

    La campagna elettorale per la poltrona di primo cittadino del capoluogo lombardo era solo all’inizio e già si annunciava particolarmente rovente. Una settimana prima, durante un comizio tenuto a Piacenza, un gruppo di contestatori era riuscito a raggiungere la sua auto e a danneggiarla. C’era stato un parapiglia intorno al mezzo, assediato da una decina di facinorosi. In pochi secondi erano spuntate spranghe e bastoni. Ad avere la peggio erano stati gli specchietti e la carrozzeria del Suv. L’onorevole Villa se l’era cavata con un grande spavento, ma aveva incassato un punto a suo favore. Se il comizio era stato sottotono a causa di una piazza semideserta, la violenta contestazione si era rivelata perfetta.

    Quale migliore occasione per denunciare i metodi intimidatori e antidemocratici dei suoi avversari, che a loro volta lo accusavano di essere un pericolo per la democrazia?

    Percorrendo corso XXII Marzo tornò con il pensiero indietro negli anni. Si rivide ai tempi del liceo, quando era un giovanissimo attivista del suo movimento, animato da una passione autentica e bruciante per la politica. Rammentò quei pomeriggi in cui lui e altri simpatizzanti si davano appuntamento davanti al Palazzo di Giustizia per applaudire il pool di magistrati di Mani Pulite ed esultare per gli arresti della cricca socialista e democristiana. La cosiddetta Prima Repubblica stava crollando lasciando un vuoto, un spazio fertile per la nascita di nuovi soggetti politici. Un inesorabile processo di trasformazione, nel quale Villa aveva intravisto la possibilità di affermarsi politicamente.

    All’università, iscrittosi alla facoltà di Scienze politiche, iniziò a mettersi in luce per le doti fuori dal comune di oratore e aggregatore. Ciò che stupiva era la sua capacità di condensare in pochi ed efficaci slogan idee e concetti che agitavano la base del movimento.

    Erano i primi anni Novanta. Durante il congresso riminese del Movimento Libertà di Popolo, Enrico aveva parlato per la prima volta davanti ai dirigenti nazionali in rappresentanza dei giovani della federazione milanese. Da quel momento era divenuto il delfino di uno dei senatori più influenti del partito, Gianni Carughi, industriale bresciano, già tra i fondatori del movimento stesso. Il senatore lo aveva preso sotto la sua ala vedendo in lui un grande potenziale. Raramente Carughi si sbagliava sulle persone.

    Da quel momento, la scalata ai vertici del partito era stata per il giovane e ambizioso Villa quasi inarrestabile. La sua volontà di emergere e di aspirare alla dirigenza nazionale lo aveva portato oltre ogni aspettativa. Divenuto parlamentare era stato poi eletto tra le fila dei senatori, e da qualche anno l’onorevole Enrico Villa era divenuto uno degli esponenti più in vista della scena politica italiana insieme al suo Movimento Libertà di Popolo. Aveva ridato nuova linfa al partito dopo anni in cui esso languiva intorno a percentuali pari al quattro per cento. La sua strategia consisteva nell’incanalare e dare una forma, un abito, come diceva lui, ai bisogni della gente comune.

    Villa si poneva come un genuino figlio del popolo, in lotta contro i poteri forti, le lobby nazionali e internazionali, l’unico in grado di opporsi in Italia ai paladini del nuovo ordine mondiale.

    I suoi cavalli di battaglia erano soprattutto la lotta all’immigrazione clandestina, l’uscita dall’eurozona, la riforma della Costituzione ai fini di una Repubblica di tipo presidenziale alla francese. E in questo calderone ideologico c’era posto per tutte quelle istanze populiste che infiammavano la base del partito: la reintroduzione della pena di morte, l’abolizione dei privilegi della casta politica, lo sciopero fiscale dei contribuenti. Tutte argomentazioni con cui Villa acquisiva consensi.

    Durante la sua personale ascesa al potere, Enrico aveva trovato anche ostacoli e nemici; questi ultimi si annidavano nei ranghi di Libertà di Popolo, specie tra gli uomini della vecchia guardia che temevano la sua spregiudicatezza e la deriva estremista che aveva conferito al partito. Il suo parlare di svolta, di rinnovamento del movimento, di taglio dei rami secchi, piaceva solo all’elettorato e meno ai quadri dirigenti.

    Enrico aveva fatto una scelta precisa: conquistare la base del partito e gli elettori senza badare alle logiche interne e alle spartizioni. Sapeva che cercare di tenere il piede in due scarpe, come si dice, non gli avrebbe portato fortuna.

    Nel tempo, la strategia si era dimostrata vincente a tal punto da fargli conquistare la segreteria. Anche i pezzi da novanta del suo movimento, quelli della prima ora, si erano dovuti adeguare al nuovo corso inaugurato da Villa, in cui era tutto incentrato sulla sua figura. Da quel momento Libertà di Popolo non aveva avuto più bisogno di ideologi e politologi per andare avanti secondo la linea evolutiva tipica dei partiti.

    Villa aveva superato la vetusta concezione della politica come laboratorio di idee, sostituendola con il culto della propria persona. Si presentava come l’incarnazione dell’uomo comune che, dopo anni di vessazioni subite da uno Stato forte con i deboli e debole con i prepotenti, reagiva contro i torti subiti. Il Movimento Libertà di Popolo era Enrico Villa e viceversa; se Villa avesse vinto il partito avrebbe prosperato, in caso contrario Villa avrebbe trascinato a fondo con sé tutto il movimento.

    Mancava una manciata di minuti al suo ingresso trionfale. Enrico assaporò quella sensazione elettrizzante che provava ogniqualvolta lo attendeva un bagno di folla. Un autentico orgasmo narcisista al quale non riusciva ad assuefarsi.

    La piazza simbolo di Milano era gremita di militanti che lo attendevano. Un imponente dispiego di polizia e carabinieri era stato organizzato a protezione del comizio. I recenti fatti di Piacenza avevano messo in forte imbarazzo i suoi avversari politici. A Milano nessuno avrebbe potuto impedirgli di abbracciare la sua gente, non solo idealmente. Abbracci, strette di mano, anche il semplice tocco rappresentavano per il popolo di Villa una necessità fisica, una forma di feticismo rituale alla quale non si sarebbe sottratto.

    Una foto con Villa il Bomber, questo il suo soprannome, per ogni militante rappresentava un privilegio, quasi una benedizione. Una volta ottenuto lo scatto con l’uomo che avrebbe salvato il paese dalla rovina, questo finiva a corredo del profilo social del fortunato sostenitore.

    Seduto accanto a Villa c’era Vittorio Stucchi, detto Vittorino, suo fedelissimo segretario, amico e compagno di partito della prima ora.

    Il loro era un sodalizio nato durante i primi volantinaggi fuori dall’Università Statale di Milano, quando lo scopo era soprattutto quello di provocare gli studenti di sinistra. Camicie strappate, spintoni, schiaffi ricevuti e dati, l’arrivo della polizia a sedare gli animi, facevano parte del vissuto comune di entrambi.

    Loro due, sempre insieme, giorno e notte. I pomeriggi trascorsi in sede a organizzare le attività della sezione giovanile, le sere passate ad attaccare i manifesti elettorali del senatore Carughi e a strappare quelli degli avversari. Durante le campagne elettorali tiravano l’alba con colla, secchi e rulli sognando un giorno di essere loro i futuri candidati in lista.

    Vittorio aveva compreso che Enrico era un cavallo vincente su cui scommettere; legandosi a lui avrebbe fatto carriera nel partito. Divenne quindi la sua ombra, i suoi occhi e le sue orecchie. Enrico gli affidò il compito di costituire una sorta di gruppo di fedelissimi nelle varie sezioni per sgombrare il campo da avversari. Se un tempo in Libertà di Popolo esistevano ancora delle correnti, ora c’era solo una serrata maggioranza che sosteneva l’onorevole Villa ed emarginava chi tentava di metterne in discussione non solo la leadership, ma anche determinate posizioni politiche. O si abbracciava la linea di Villa o si era fuori dal partito. Di possibili ed eventuali scissioni nessuno parlava, perché significava non avere più un futuro politico.

    Il carosello di auto rallentò nei pressi di piazza Fontana, dove stazionava una decina di furgoni cellulari dei carabinieri e della polizia. Agenti e militari in tenuta antisommossa ne presidiavano l’accesso. Si aprirono le transenne. Il convoglio percorse senza intoppi via Carlo Maria Martini per arrestarsi in prossimità dell’ingresso di Palazzo Reale, dove era stato allestito il palco. Enrico vide la piazza gremita oltre ogni sua aspettativa. Era tutto uno sventolio di bandiere tricolore, di slogan e di striscioni in suo onore.

    L’onorevole Villa, con fare energico, scese dall’auto senza aspettare che il corpulento autista gli aprisse la portiera. Apparve radioso, sicuro di sé, vagamente arrogante. Sfoggiava una barba di tre giorni ed un’abbronzatura invidiabile, frutto dei fine settimana trascorsi in barca. L’attuale compagna di Enrico era Francesca Fontana, modella e figlia di Prospero Fontana, proprietario di alcuni tra i più lussuosi alberghi in Costa Smeralda. Il padre metteva a disposizione della figlia il suo yacht che durante l’inverno teneva fisso a Portofino.

    Enrico indossava una camicia bianca con le maniche arrotolate e pantaloni blu. Non era il tipo da abbigliamento formale, anzi amava sfoggiare abiti casual. Anche esteticamente si proponeva come il nuovo contrapposto alla vecchia politica fatta di formalismi tromboneschi, come amava definirli.

    Al polso l’inseparabile orologio d’oro brillava in un tripudio di maschia ostentazione. Si tolse gli occhiali da sole a goccia con le lenti specchiate per osservare i presenti. Fu sommerso da cori degni di un derby allo stadio Meazza.

    Dal palco l’onorevole Marco Giacometti, galvanizzato dalla piazza in delirio, annunciò gongolante l’arrivo del segretario.

    Vittorino seguì Enrico come un’ombra, pur tenendosi a distanza. Per natura non amava i riflettori, e non aveva neppure il physique du rôle per stare al passo con il suo segretario. Piccolo di statura, pingue, occhiali spessi, incarnava lo stereotipo del ragioniere o del contabile che raramente vede la luce del sole, non certo quello del figlio del popolo pronto alla rivoluzione. Per quello c’era Villa che bastava e avanzava.

    Tutti gli sguardi erano puntati su di loro. Enrico omaggiò la folla mentre attraversava il cordone di poliziotti dai volti tirati che proteggevano il palco. Non mancò di rivolgersi con sorrisi e incoraggiamenti anche agli uomini delle forze dell’ordine, che considerava potenziali elettori. Tutte le occasioni erano buone per elogiare il loro operato, esaltandolo come un mestiere rischioso e al tempo stesso bistrattato e sottopagato. Balzò sui gradini con passo sicuro, continuando a salutare. Quando giunse sul palco accanto all’onorevole Giacometti, la piazza parve tremare. Un boato squarciò l’aria. La parola Bomber rimbombò in un crescendo assordante. Enrico strinse la mano al compagno di partito, rapito dalla folla in delirio: con lo sguardo ebete, Giacometti applaudiva quasi in trance. Dopo alcuni minuti di quel tripudio estatico l’onorevole Villa prese la parola, faticando a ottenere il silenzio dalla massa.

    Si schiarì la voce e sorrise. Era a suo agio, rilassato, come se davanti a lui non ci fosse nessuno. Arringare migliaia di militanti sotto i riflettori di decine di telecamere era il suo terreno di gioco.

    La gavetta fatta nei salotti televisivi di infime reti private gli era servita per acquisire quella padronanza di sé che lo contraddistingueva. In quegli improvvisati ring all’ultimo insulto i candidati politici locali si attaccavano senza esclusione di colpi sotto l’occhio divertito di conduttori a fine carriera e soubrette dalle scollature vertiginose. Già a partire da quegli esordi Villa difficilmente veniva messo in difficoltà, ma giocava sempre in attacco. Ecco perché, parecchi anni dopo, l’arringare da un palco era per lui un momento autocelebrativo e privo di ostacoli. Il suo egocentrismo vi aveva campo libero.

    Con il tempo i suoi avversari politici e i detrattori vari avevano cambiato strategia: preferivano attaccarlo dalle pagine dei giornali, spesso colpendolo sul piano personale.

    Non perdevano occasione di sottolineare i suoi tre divorzi alle spalle a soli quarantacinque anni, che stonavano con le sue posizioni a favore dalla famiglia tradizionale e contro ogni altro tipo di unione che non fosse quella tra uomo e donna uniti dal sacro vincolo del matrimonio.

    Enrico prese la parola. Si era preparato una traccia da seguire, ma poi, come spesso faceva, scelse l’improvvisazione. Milano era la piazza decisiva e fondamentale da conquistare. La partita più importante, proprio come una finale di campionato per lo scudetto. Il Movimento Libertà di Popolo, seppur nato a Milano alcuni decenni prima, non era mai riuscito davvero a sfondare nel capoluogo lombardo, almeno con i precedenti segretari. I fattori da cui era dipeso il fenomeno erano molteplici. Milano era l’unica città italiana che per tessuto sociale era paragonabile ad altre metropoli europee: la più moderna, la più cosmopolita, la più aperta ai cambiamenti ed alle trasformazioni. Di conseguenza, per il suo partito era anche la più insidiosa. Il fatto che piazza Duomo fosse gremita non significava nulla, perché i militanti presenti quel giorno provenivano per la maggior parte da altre città. Erano stati fatti arrivare con pullman e treni da tutto il Nord Italia: ordine della segreteria del partito, che aveva invocato la mobilitazione generale. Avere la piazza traboccante era fondamentale da un punto di vista mediatico. I milanesi, che da lì a qualche mese sarebbero stati chiamati al voto, erano una minoranza tra i presenti. Enrico ne era consapevole, così come era conscio che determinate istanze facevano fatica a far breccia nel cuore della gente della sua città natale. Calcare la mano sul tema dell’immigrazione irregolare a Milano poteva trasformarsi in un boomerang e far perdere voti; l’attuale sindaco, Attilio Mandelli, era riuscito con la sua giunta a costruire l’immagine di una Milano dove gli stranieri erano perfettamente integrati e in cui i reati degli immigrati erano cosa di poco conto. Inclusività e integrazione erano gli slogan della giunta uscente che si preparava a ricandidarsi per il secondo mandato.

    Capitolo II

    Cingoli e bon ton

    Mentre l’onorevole Villa si preparava ad arringare i suoi fedelissimi, a pochi chilometri in linea d’aria da piazza Duomo, Carmine guardava per l’ultima volta la porzione di cielo azzurro e straordinariamente terso sopra di sé. Aveva lo sguardo stralunato di chi sta per andare incontro ad una morte terrificante, la stessa alla quale aveva assistito molte volte.

    Giaceva a terra, le mani legate dietro la schiena con del fil di ferro e imbavagliato. Era stato trascinato in un avvallamento profondo poco più di un metro, in una grande cava di ghiaia alle porte della città, non lontano dai terreni del Parco Agricolo Sud Milano.

    Quello che doveva essere un incontro di routine con i suoi capi si era trasformato in una trappola mortale.

    Lui stesso, che nel corso degli anni aveva assistito a decine di esecuzioni con quell’identica modalità, ora si ritrovava a subire la medesima sorte. Da spietato aguzzino, si era trasformato in vittima impotente. Se solo avesse potuto scegliere, piuttosto che morire in quel modo avrebbe preferito tirarsi un colpo in testa. Stava per pagare con la vita l’aver lucrato sul traffico di stupefacenti di cui era uno dei referenti per la famiglia.

    Tutto era cominciato da alcune partite di eroina che viaggiavano nei container e che arrivavano nei porti di Genova e di Taranto. Risultavano inspiegabilmente alleggerite. Ammanchi in apparenza di poco conto, uno o due etti su carichi da cento chili l’uno. Episodi che però si erano ripetuti nel tempo. Il clan si era insospettito e aveva affidato allo stesso Carmine il compito di far luce sulla questione. Secondo il piano da lui architettato, certo dell’incondizionata fiducia di cui godeva, aveva addossato la colpa a due dipendenti portuali con i quali era in combutta. Li aveva ammazzati entrambi, essendo suoi complici e soprattutto testimoni scomodi. Aveva poi riferito alla famiglia che si era visto costretto ad ucciderli una volta che li aveva messi con le spalle al muro dopo averli scoperti. La sua versione avrebbe potuto risultare anche coerente e plausibile. Intanto aveva continuato a vendere l’eroina sottratta su altre piazze, lontano dal controllo della famiglia, affidandosi a spacciatori locali, gente disperata, ma perfetta per immettere sul mercato piccoli quantitativi senza dare nell’occhio.

    Carmine, tuttavia, aveva peccato di leggerezza, confidando che dopo vent’anni di onorata carriera al servizio dei Surace nessuno avrebbe messo in dubbio la sua fedeltà al clan.

    Al contrario i Surace, e in primis Calogero, figlio del boss Pasquale, fin dall’inizio avevano pensato alla presenza di un traditore all’interno dell’organizzazione. Nel giro di poco più di due mesi, grazie a un efficiente sistema di controllo interno al clan, era emersa la verità. Carmine sottraeva l’eroina e la rivendeva sulla piazza di Torino, città nella quale era emigrato da ragazzo e dove aveva mosso i primi passi nella malavita organizzata.

    I suoi spostamenti nel capoluogo torinese non erano passati inosservati. Chi lo aveva pedinato aveva scoperto che intratteneva rapporti con un piccolo spacciatore che abitava a Porta Palazzo. Questi, messo alle strette, aveva confermato tutto, sfatando ogni dubbio. Carmine gli cedeva piccole quantità di eroina a buon prezzo.

    Un simile sgarro non poteva essere perdonato, ma si dovevano prendere severi provvedimenti nei confronti di chi non era stato ai patti. Ancora più grave era il fatto che l’uomo avesse approfittato della fiducia accordatagli per così tanti anni. La sua morte doveva essere quindi di monito a tutti coloro che lo conoscevano e che erano al servizio della famiglia. La sua fine doveva essere esemplare.

    Per la verità a Calogero quell’uomo non era mai piaciuto. Questione di pelle, di affinità e di carattere. Carmine incarnava alla perfezione l’immagine del malavitoso cruento e brutale, quello che viveva alla giornata combattendo nelle strade a colpi di coltello e di arma da fuoco.

    Era l’assassino per eccellenza, devoto alla famiglia, ma allo stesso tempo eccessivamente violento e sanguinario, senza una prospettiva di cambiamento o di evoluzione. Impensabile per uno come Carmine non uccidere il nemico, non vederne scorrere il sangue. In lui sopravviveva una sorta di spirito tribale e istintivo che si perdeva nella notte dei tempi. La sua stessa vicenda personale era sintomatica del suo temperamento brutale. A soli quattordici anni aveva ucciso il padre della ragazzina con cui stava. Lo aveva ammazzato nei campi, a colpi di roncola, per il solo fatto che l’uomo non voleva che la figlia lo frequentasse. Il delitto era rimasto insoluto come tanti altri in quelle zone della Calabria di montagna, ma il destino del giovane Carmine era segnato. Quel temperamento violento e animalesco lo avrebbe segnato per tutta la vita.

    Con il tempo, il divario tra persone come Carmine e i componenti della nuova generazione della famiglia Surace era diventato sempre più profondo e insanabile. Se Don Pasquale riteneva ancora necessario disporre di uomini della vecchia guardia come Carmine, Calogero credeva nell’evoluzione degli affari, alla quale doveva corrispondere anche un cambiamento delle persone. La crudeltà e l’efferatezza rimanevano componenti indispensabili a cui ricorrere, ma solo quando ci si doveva imporre. Uccidere sì, ma solo quando inevitabile e mai come momento per scatenare il proprio delirio di onnipotenza. Non c’era più posto per mattanze di gruppo alle quali seguivano festeggiamenti bestiali.

    Lo spazio per le azioni di forza, violente e plateali, doveva essere sempre più ristretto. Il controllo del territorio lo si esercitava comprando le persone, ricattandole e assoggettandole alle proprie esigenze. Il denaro era la migliore arma. I due figli del boss sognavano, ma mai lo avrebbero potuto confidare al padre, il giorno in cui non ci sarebbe stato neppure più bisogno di uccidere o di avere un solo uomo armato. Aspiravano a creare un impero finanziario articolato e ramificato, che li avrebbe portati a voltare definitivamente pagina.

    Ci sarebbero voluti ancora anni, ma forse ci sarebbero riusciti. Per ora vivevano in una fase di transizione, nella quale erano ancora costretti a operare secondo i metodi tradizionali imposti dal clan.

    Calogero e il fratello Rosario, però, non si consideravano assassini e tantomeno provavano gusto nell’assistere alla morte di qualcuno. Per loro l’omicidio era una scelta a cui ricorrere solo se strettamente necessario. Non erano cresciuti con il mito di Scarface o dei tirapiedi di cui si circondava il padre, specie negli anni passati. Avevano studiato nelle migliori scuole in Italia e all’estero, sviluppando una visione imprenditoriale della ’ndrangheta. Entrambi erano cresciuti a Milano, lontano dalla terra d’origine del padre. Detto questo, però, fin da ragazzi avevano assistito a scene da macelleria che spesso avevano avuto per protagonista Carmine.

    Calogero ricordava ancora quando Carmine, dopo aver squarciato il ventre a uno spacciatore che faceva l’informatore per la polizia, gli aveva strappato gli intestini arrotolandoglieli intorno alla testa mentre questo moriva dissanguato. Scene che Calogero portava impresse nella memoria e che mai avrebbe dimenticato.

    I due fratelli Surace erano cresciuti nel sangue, ma nessuno dei due ne sentiva il richiamo atavico che, al contrario, animava la vecchia generazione della famiglia, compreso il padre.

    Eppure era stato lo stesso genitore ad aver compreso, pur nella sua concezione tradizionale, la necessità di un cambiamento generazionale all’interno della famiglia. Quel cambiamento sarebbe passato attraverso i suoi due figli. La lungimiranza di Don Pasquale, insolita ma quanto mai provvidenziale, aveva permesso al clan di fare il cosiddetto salto di qualità e di approdare al mondo della finanza, nel quale i due fratelli Surace si muovevano come soggetti al di sopra di ogni sospetto.

    Quella domenica, però, era giunto il momento di chiudere un capitolo, un rapporto con una persona che aveva sbagliato: e per farlo era necessario ricorrere all’efferatezza di un tempo.

    Nell’aria tiepida ristagnava l’odore acre di gasolio emesso dal vecchio caterpillar che fino a pochi minuti prima aveva sbuffato nuvole di fumo denso e nero dal camino posto sul muso.

    Calogero stava in piedi, a pochi metri da Carmine, preparandosi ad assistere alla scena con indifferenza. Guardava l’orologio con un certo nervosismo, confidando che l’operazione si concludesse in fretta. La domenica la sua famiglia e quella del fratello Rosario si davano appuntamento a casa dei genitori per il pranzo con rispettive mogli e bambini, per trascorrere qualche ora insieme. Quel giorno avrebbero inaugurato anche la piscina riscaldata, essendo una bella giornata primaverile. Rosario a quell’ora probabilmente era già di ritorno dall’aeroporto di Malpensa, dopo un periodo di due settimane trascorso a Londra. Aveva concluso con successo una vasta operazione finanziaria con cui i Surace si preparavano ad aprire nella capitale inglese una catena di negozi di abbigliamento di lusso.

    «Sbrighiamoci, perché non ho molto tempo. Se arrivo tardi i bambini si lamentano e poi devo sistemare la piscina e gonfiare i giochi» disse Calogero vagamente seccato. Si vedeva che non amava assistere alle esecuzioni. Lo faceva solo perché quella era la prassi imposta dal suo rango e suo fratello non poteva essere lì presente.

    Fragalà, uno dei suoi uomini, responsabile dell’organizzazione dei cantieri edili, fece un cenno ad un altro che era rimasto alla guida del mezzo in attesa di ordini.

    La scena aveva un che di surreale.

    Il guidatore mise in moto. Il grosso diesel prese vita facendo tremare il terreno attorno per le vibrazioni. Calogero fece istintivamente un passo indietro con aria vagamente disgustata. Non voleva rischiare di sporcarsi e soprattutto era infastidito dal rumore del mezzo. Con le sue tonnellate di ferro il bulldozer era in grado di smuoverne altrettante di terra e di ghiaia.

    Quel giorno però non sarebbe stato utilizzato per le abituali mansioni della cava.

    Il cingolato si mise lentamente in moto puntando verso Carmine. Scese con i cingoli che sferragliavano pesanti lungo l’avvallamento, nei solchi che aveva tracciato poco prima.

    Calogero guardò riluttante quegli ultimi istanti di vita di Carmine. L’uomo, la cui fine era prossima, si dimenava come un animale in trappola. Movimenti disperati, dettati da un istintivo terrore.

    «Fanno tutti così» commentò Fragalà divertito, ripetendo apposta le stesse parole che Carmine soleva dire quando sottoponeva gli altri allo stesso trattamento. A differenza di Calogero, Fragalà sembrava godere di quello spettacolo.

    Calogero osservò i cingoli avvicinarsi alla vittima. Pochi metri. Il guidatore diede gas ed in una manciata di secondi raggiunse l’uomo a terra. Il figlio di don Pasquale vide dapprima Carmine agitarsi come preso da convulsioni mentre le gambe venivano maciullate.

    Subito dopo l’intero corpo scomparve come ingoiato da un mostro di ferro, schiacciato sotto la massa inesorabile del mezzo. Quando il bulldozer passò oltre, di Carmine rimaneva solo una massa informe di carne e ossa frantumate. Calogero ebbe l’impressione di udire, nonostante il frastuono, lo schianto delle ossa che venivano spezzate. Provò un brivido di disgusto. Nonostante gli anni non si era mai abituato alla vista di simili scene.

    A quel punto il mezzo si preparò a ripetere l’operazione, ma al contrario. Il guidatore inserì la retromarcia e procedette con perizia in assoluta tranquillità, come se stesse solo spianando del terreno. Sangue e brandelli di carne rimasero attaccati ai cingoli, che andavano inesorabili avanti e indietro. Anche una scarpa deformata vi rimase imprigionata insieme a un lacerto di carne. Il sangue colava ovunque.

    «Direi che la questione è definitivamente chiusa» dichiarò Calogero, che non vedeva l’ora di cambiare aria e di andarsene. Distolse lo sguardo dalla scena.

    «Adesso lo sciolgo bene con l’acido e poi ricopriamo tutto» lo rassicurò Fragalà, attenendosi a una sorta di protocollo collaudato nel tempo. Di Carmine non sarebbe rimasta traccia. «Vai pure. Rimango qui io» aggiunse, certo di fare un favore al figlio del boss.

    Calogero si sentì sollevato. Salutò l’uomo e tornò sui suoi passi. Camminò fino all’ingresso della cava che era cintata da alte reti metalliche e controllata da allarmi e telecamere. Enormi montagne di ghiaia conferivano al luogo un aspetto quasi lunare, rendendolo il posto ideale per esecuzioni silenziose, lontano da occhi indiscreti. Negli anni, quel posto era diventato un perfetto mattatoio con annessa sepoltura.

    Calogero salì a bordo della berlina. Si slacciò il colletto della camicia. Rimase alcuni istanti con le mani sul volante e lo sguardo fisso di fronte a sé. Ripensò a Carmine. Provò sollievo nel sapere che era stato eliminato. Presto avrebbe dimenticato i particolari da grandguignol della sua fine. Era così che funzionava. Si concentrò sul pranzo e sulla giornata spensierata che lo aspettavano. Mise in moto e si avviò all’uscita. Una guardia armata di un istituto di vigilanza controllato dalla famiglia gli aprì il cancello e lo salutò prima di vederlo scomparire lungo la strada.

    In una ventina di minuti, percorrendo in parte la tangenziale Ovest, raggiunse Buccinasco, dove abitavano i genitori. Chiamò la moglie per avvisarla che era partito e che a breve sarebbe arrivato.

    Le aveva detto che aveva una questione di poco conto da sbrigare, ma non era entrato nei particolari perché le due nuore di Don Pasquale erano al corrente di alcune situazioni, ma non di altre, come era giusto che fosse secondo le regole della famiglia. Sia Rosario che Calogero avevano deciso, almeno in questo, di attenersi all’antica tradizione: le rispettive consorti non avrebbero mai dovuto essere messe al corrente di tutte le attività della famiglia. Sarebbe stato inutile e controproducente. Calogero e il fratello

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