Il guscio sottile della notte
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Info su questo ebook
Ma una bella unione di amici può rivelarsi una squadra vincente, anche quando l’eroina sembra farla da padrona e una miscela - come quella dei loro motorini - di improvvisazione, intuito e fortuna potranno salvare anche le anime più fragili.
Perché è una fame d’infinito quella che porta a “farsi” e per smettere vanno costruiti mondi alternativi, convivendo con l’intrinseca inquietudine che è in ognuno di noi.
Il cambiamento è una questione di vita e di morte. E molto spesso d’amore.
ROMANZO TERZO CLASSIFICATO A R come ROMANCE 2022
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Anteprima del libro
Il guscio sottile della notte - Sabrina Leonelli
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Sabrina Leonelli
IL GUSCIO SOTTILE DELLA NOTTE
Prima Edizione Ebook 2023 © R come Romance
ISBN: 9788893472265
Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione
img1.pngwww.storieromantiche.it
Edizioni del Loggione srl
Via Piave 60
41121 Modena – Italy
romance@loggione.it
http://www.storieromantiche.it e-mail: romance@loggione.it
img2.jpgLa trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.
Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.
Sabrina Leonelli
IL GUSCIO SOTTILE
DELLA NOTTE
Romanzo
Indice
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
L’autrice
Catalogo
«Fermarsi non è morire ma tornare a respirare.»
Pierluigi Lenzi, poeta
«Canto e piango pensando che un uomo si butta via,
Che un drogato è soltanto un malato di nostalgia.»
Più su, Renato Zero
Questo libro è dedicato a Davide Mongiorgi,
anima fragile e splendente e a chi come lui
è caduto sul campo di battaglia dell’eroina,
servita a spegnere le menti, i sogni,
assieme a ogni velleità e prospettiva.
A tutti quei fiori delicati che si sono smarriti
per soddisfare la loro fame d’infinito
.¹
1
Estate 1983
LE DISTESE AZZURRE E LE VERDI TERRE²
Vent’anni e il vecchio mondo ti coinvolge,
nel suo infinito gioco di pazienza,
se smusserai il tuo angolo che sporge,
sarai incastrato senza resistenza,
vent’anni prima prova di esperienza.³*
Non mi era mai piaciuto rincasare da sola quando ormai era buio da ore.
C’ero nata in quel quartiere, ma sapevo che non faceva sconti e, anche se ero del posto, qualche balordo poteva sempre incappare sulla mia strada. Di solito era Andrea che mi accompagnava a casa con il suo Ciao. Abitava a due isolati da me e io ero sufficientemente magra per dividere con lui il sellino.
Non mi ero mai chiesta se gli piacevo, notavo il suo indugiare quando smontavo dal motorino per salire in casa. Sembrava sempre sul punto di dirmi qualcosa, o di avvicinarsi; a volte avevo avuto l’impressione che se mi fossi fermata un istante di più si sarebbe allungato per baciarmi, ma nel dubbio ero più veloce di lui e sgaiattolavo oltre il cancello per mettere una buona distanza tra noi ed evitare situazioni imbarazzanti.
Quella sera però quando mi aveva detto che rincasava, offrendomi il solito passaggio, avevo tergiversato perché ero stata rapita dal cugino di Sergio che mi aveva letteralmente affascinata.
«Ehi, ragazzi, vi presento Giammarco.» Sergio era un tipo brillante e molto simpatico, quello che in compagnia ti tira sempre su di morale e ha la battuta pronta per farti ridere. E l’annuncio che suo cugino si sarebbe fermato tutta estate da lui perché i suoi in Romagna stavano ristrutturando casa, e lo avevano quindi spedito a fine scuola dagli zii, era stato così enfatico e celebrativo, che sembrava ci stesse presentando il re in persona e chissà se fu quel biglietto da visita così pomposo a farmelo piacere.
Credo di no, non ero così suscettibile a etichette e lustrini; era invece lampante il suo fascino: sorriso scintillante, stretta di mano, forte e calda, a ognuno di noi. Sta di fatto che quella sera di scollarmi dal muretto per fare ritorno a casa con Andrea non se ne parlava proprio.
Simili novità non capitavano tutti i giorni, non che ci si annoiasse assieme, tutt’altro: eravamo un bel gruppo, affiatato ed eterogeneo e trovavamo sempre qualcosa di carino da fare, anche solo starcene mollemente sdraiati tra il muretto e il prato in cui eravamo soliti incontrarci, di fronte alla baracchina dei gelati di via Ristori, che raggiungevamo attraversando la strada di alberi e poco traffico, quando avevamo voglia di un Cof per rinfrescarci, di un frullato per saziarci e coccolarci, di un gelato per soddisfare il piacere di zuccheri vivi e corroboranti, e tutto questo bastava a dare a ognuno di noi la voglia di ritrovarci il giorno dopo.
Eppure Giamma, come lo aveva da subito presentato Sergio, era stata una cometa nel nostro cielo già striato di stelle e ci aveva offerto una luce nuova.
Non parlava molto, almeno all’inizio, ma ascoltava con interesse e annuiva, mettendo tutti a proprio agio, era sempre partecipe e discreto. Credo che ognuno di noi si fosse sentito presto accolto e apprezzato, almeno questa era stata la mia impressione, perché i suoi occhi sembravano dirti: mi piaci, la penso come te! E questo era molto gratificante e credo sia stato ciò che ce lo ha fatto piacere immediatamente. Aveva una gentilezza che nel nostro abituale modo di porci lo distingueva; non che fossimo più rozzi, ma la sua eleganza nel muoversi e parlare era unica.
Più alto di me, e su questo non ci voleva molto, quando era stato il momento di presentarsi, si era abbassato come se volesse abbracciarmi; non solo mi aveva colto un grande imbarazzo, ma avevo avuto l’impressione di conoscerlo da sempre, come se fosse stato uno di noi da lungo tempo e di conseguenza, in una frazione di secondo, mi convinsi di non poterne più fare a meno.
Andrea il mio no lo aveva vissuto male, me ne ero proprio accorta e questo mi aveva suscitato un immediato fastidio, perché temevo che il suo manifesto disappunto portasse Giammarco a farsi idee strane su di noi.
Quando si era messo a pedalare per accendere il motorino avevo tirato un sospiro di sollievo.
Certo che neanche io ero fatta bene e me ne rendevo conto, in fondo lui era stato sempre molto gentile con me e ogni sera si premurava di farmi arrivare a casa sana e salva. E io cosa facevo? Mi innervosivo.
Feci spallucce, pensando di godermi gli ultimi sprazzi della serata; briciole di tempo esiguo perché poco dopo ero già lungo la via di casa che correvo e mi guardavo attorno per proteggermi da eventuali insidie.
A casa c’ero arrivata, ma per tutta la notte non avevo chiuso occhio al pensiero di Giammarco; era come se avesse spalancato una finestra da cui entravano sferzate di aria fresca: pensarlo mi suscitava fitte pazzesche alla pancia, come quando si trattiene la pipì a lungo. Tutte le volte, l’emozione mi faceva quell’effetto, che era poi quello di dovere scappare in bagno. Per fortuna non mi capitava spesso.
In trepidante attesa, avevo fatto passare il tempo come meglio ero riuscita per giungere al momento di rivederlo e quando questo era accaduto avevo sentito dentro di me una grande gioia, come se fossi in connessione con tutte le cose più belle che mi circondavano: alberi, fiori, persone, oggetti, edifici, anche i più degradati; in piena armonia, persino con il mio angusto quartiere al quale, nonostante non se la passasse un granché bene, ero molto legata. Mi sfrigolava la domanda di cosa mi fosse preso, io che tra tutte le ragazze della compagnia ero quella un po’ meno avvezza a romanticismi e mi trovavo sempre molto bene con la semplicità maschile. Spesso restavo a parlare con i ragazzi o ad ascoltarli se non avevo argomenti, quando dissertavano di motori, calcio, schedine del Totocalcio e Formula Uno, mentre le femmine si perdevano ore a commentare vicende talmente sciocche che cominciavo a sbadigliare alla prima frase e dormivo già a fine discorso quando, trovandomi annoiata e taciturna, chiedevano la mia opinione. Che figo quel tipo, che maschio quell’altro; quello mi ha guardata, il tizio non mi ha fumata, oppure si intrippavano⁴ con le scaramucce tra compagne e lì scoppiavano le ire più funeste, contestazioni per le dinamiche più varie e inutili, che erano appunto: perché lei ha detto e allora io ho risposto, ma poi lei ha fatto e io quindi ho fatto, ma se lei o lui non avessero detto, io non avrei detto, e se mia nonna avesse avuto le ruote...
Ma nonostante mi fossi sempre smarcata da queste quisquilie perditempo, non ero stata capace di prendere le distanze dal tempo che mi separava da Giammarco, riducendomi a ingranaggio di un ossessivo conteggio di ore che mi separavano dai nostri incontri sul muretto, perché avevo finito per non contemplare altro.
Imparai a essere guardinga come un cane segugio: osservavo vigile i suoi movimenti, specie quelli oculari per cogliere chi potesse interessarlo tra la platea femminile. Carolina era così schiva di suo che non mi preoccupava granché, Letizia era decisamente la più carina del gruppo, con quelle efelidi sul viso e gli occhi verdi da cerbiatta, ma era anche la più secchia⁵, arrivava sempre per ultima e rientrava per prima perché doveva ripassare. Nessuno capiva l’urgenza visto che la scuola era appena finita, ma nessuno osava chiederle niente, perché sembrava sempre che avesse una interrogazione l’indomani, pur avendo tutti noi certezza che anche la sua scuola fosse chiusa per le vacanze estive. Mi preoccupò solo il pensiero che anche Giamma fosse un appassionato studioso, nel qual caso Letizia avrebbe certamente acceso i radar su di lui, visto che i più gnucchi⁶ del gruppo, compreso un paio di bocciati, Antonio e Gabriele, non venivano minimamente considerati da lei. Diciamo che era quella un po’ più snob, non so se c’entrasse il fatto che era una dei pochi tra noi che non abitava in una casa popolare, neanch’io, ma quasi tutti gli altri sì, e si diceva che i suoi genitori provenissero dalla zona dei colli e avessero la puzza sotto il naso, che dalle nostre parti era una cosa che non si poteva minimamente accettare: non era proprio contemplato nel nostro Dna da strada. E come mai fossero finiti lì, dalle stelle alle stalle non era dato saperlo. Letizia cambiava sempre discorso quando le chiedevamo come mai si fossero trasferiti dal quartiere dei fighetti⁷ a quello degli sfigati. La nomea a Bologna per noi era quella.
Che poi fossimo orgogliosi di quella attribuzione era un’altra cosa. E lo saremmo stati per tutta la vita: era la solita questione di geni, ci saremmo continuati a dire convinti di avere l’estro e l’astuzia infusi in noi come imprinting del luogo.
Il padre di Letizia era un dentista, la madre commessa in una bella profumeria del centro e poi c’era il fratellino che doveva avere un paio d’anni.
«Io da questo postaccio voglio andarmene prima possibile!», ci diceva quando qualcuno osava prenderla in giro sul fatto che passava troppe ore della sua vita sui libri.
«E quindi?», le dicevamo tutti in coro.
«E quindi se studio avrò la possibilità di andarmene prima.»
Nessuno osava chiederle perché, dove sarebbe andata e soprattutto cosa c’era di male ad abitare in San Donato, in fondo c’era tutto quello che serviva per essere felici.
A dire il vero, dopo avere conosciuto Giammarco avevo messo in discussione quell’affermazione e mi ero chiesta come avevo potuto trovare interesse in quel posto e in quello che facevo prima del suo arrivo.
In contrasto con Letizia c’era Gina, scartolata⁸, mal vestita con i capelli da rasta aggrovigliati attorno a un paio di matite che si ficcava in testa. Lei sì che veniva da una casa popolare, affacciata sul parco Magazzari, ma bella fatiscente