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Il romanzo della grande Fiorentina
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E-book836 pagine13 ore

Il romanzo della grande Fiorentina

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Dal 1926 a oggi, la storia del mito viola

Il calcio ha il sangue blu... anzi viola

È una storia che comincia alla fine dell'Ottocento quella del Florence Football Club, diviso poi nelle due associazioni del Club Sportivo e Palestra Libertas, ma sarà solo il 29 agosto del 1926 che il marchese Luigi Ridol da Verrazzano riuscirà a farle riunire nell'Associazione Fiorentina del Calcio. Dal primo scudetto a metà anni Cinquanta fino alla beffa dei quattro anni in cui la squadra arrivò al secondo posto in campionato. Non c'è episodio che non abbia avuto risalto nelle cronache cittadine, come le alterne vicende dei Pontello o dei Cecchi Gori, o per cui l'intero cuore viola di Firenze non si sia stretto, come nell'incidente con il portiere del Genoa che coinvolse il celeberrimo Giancarlo Antognoni, e sempre in nome di un'appartenenza che ha fatto della storia della Fiorentina una delle tracce più fedeli da seguire per chiunque voglia capire la storia dell'ultimo secolo della città.
Leonardo Signoria
è nato a Firenze nel 1984. Nel 2012 si è laureato in Scienze politiche con una tesi sugli scudetti della Fiorentina. Lavora per diverse testate sportive locali e collabora con il sito Portale Giovani Firenze.
Stefano Prizio
è nato a Firenze nel 1974. Giornalista, è stato tra i fondatori del sito www.fiorentina.it. Ha collaborato con emittenti televisive e radiofoniche. Con la Newton Compton ha pubblicato 1001 storie e curiosità sulla Fiorentina che dovresti conoscere. Insieme a Leonardo Signoria, ha scritto La Fiorentina dalla A alla Z e Il romanzo della grande Fiorentina.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2017
ISBN9788822714824
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    Anteprima del libro

    Il romanzo della grande Fiorentina - Stefano Prizio

    Capitolo 1

    1898/1935

    Quando il marchese Luigi Ridolfi, al termine della calda domenica del 29 agosto 1926, poté finalmente ritirarsi nelle stanze del palazzo di famiglia di Marignolle, aveva il sorriso di un uomo stanco ma soddisfatto. Il giovin signore, poco più che trentenne, chiuse gli occhi con la convinzione di aver portato a termine un importante capitolo di storia sportiva fiorentina. Era altresì convinto di averne aperto un altro di importanza pari, se non maggiore: ne aveva ben donde. Ridolfi era infatti riuscito a realizzare quella che, fino a quel momento, era parsa un’impresa irrealizzabile. Da federale di Firenze, praticamente da massima autorità cittadina, aveva infatti ricevuto e portato a termine un incarico ben preciso: creare una grande e ambiziosa squadra di calcio.

    Il regime fascista era uscito miracolosamente indenne dal caos scoppiato in seguito al delitto Matteotti. Non solo: si era enormemente rinforzato. Nel giro di pochi mesi, Mussolini era stato in grado, difatti, di uscire dal cul-de-sac dove era finito a causa dello scellerato agguato al deputato socialista. Con il discorso del 3 gennaio 1925, il futuro duce non solo aveva preannunciato la repressione di ogni opposizione in parlamento, ma soprattutto aveva spiazzato, neutralizzandoli, i suoi più stretti collaboratori, i temibili ras. Obbligando tutto il Paese, quindi anche gli intransigenti gerarchi, a imboccare la via della legalità forzata, gli sponsor di Mussolini (agrari e industriali) e pure i lavoratori capirono che la normalizzazione sarebbe partita e tensioni e violenze avrebbero senz’altro avuto un’interruzione.

    Il capo del governo mise dunque al riparo da nuove crisi il proprio potere e avviò la ristrutturazione dello Stato, che sarebbe dovuto diventare fascistissimo. Da uomo d’azione quale era, Mussolini ebbe fin da subito un occhio di riguardo per lo sport in genere, formidabile veicolo di propaganda. Lo ebbe anche per il calcio che, inizialmente, non era ben visto dall’entourage del romagnolo: praticato da mezzo secolo e oltre dai perfidi cittadini di Albione, fu da questi importato in Italia, come è facile intuire dai nomi delle prime squadre italiane. Soprattutto, non piaceva per il suo carattere popolare: gioco collettivo per eccellenza, necessitava di un pallone, quattro oggetti per delimitare le porte e di un’area pianeggiante, stop. Anche i più funambolici calciatori dovevano appoggiarsi ai compagni di squadra: uno dei motivi per cui il gioco riscuoteva un certo successo nei circoli socialisti, in particolare tra i giovani e i giovanissimi che trovavano molto più entusiasmante rincorrere un pallone, piuttosto che leggere il Capitale di Marx. E dire che, in principio, non piaceva alle masse popolari per l’originario carattere elitario!

    Mussolini però in quegli anni marciava a velocità doppia rispetto ai suoi avversari politici. Scaltro e opportunista, cambiava direzione in un batter d’occhio, in caso di necessità (dopotutto, sarebbe stato il suddetto duce a rendere di nuovo Roma capitale mondiale della cristianità e centro dell’impero. Lui, anticlericale che riteneva la Città eterna una palude di parassiti durante gli anni della militanza socialista…). L’ex maestro elementare fu… un maestro a intuire il valore propagandistico del football, oltretutto ben più economico rispetto per esempio alle pratiche motoristiche. Uno dei suoi più fidati collaboratori, Leandro Arpinati, era stato un calciatore di livello nemmeno troppo modesto e la prospettiva di unire l’Italia con una pratica non troppo dispendiosa (almeno all’inizio: ben presto ne sarebbero stati scialacquati di milioni, eccome!) era troppo allettante per lasciarsela sfuggire.

    Nel 1926, dunque, anche il calcio, oppure giuoco del pallone – insomma, qualsiasi termine purché non fosse più chiamato football – divenne fascista. Ai federali delle principali città italiane vennero recapitati i seguenti ordini: in vista del campionato nazionale unificato, si sarebbero dovuti costruire impianti moderni e confortevoli, poiché sin lì i vari club avevano giocato quasi sempre in prati ricavati da parchi pubblici. Era preferibile, anzi era consigliabile identificare ogni città con una sola squadra, meglio se chiamata allo stesso modo, o perlomeno con un chiaro riferimento geografico. Come possiamo vedere ancora oggi, i centri più grandi in realtà ebbero la possibilità di mantenere almeno due squadre principali: Juventus e Torino, Inter e Milan, Lazio e Roma (a Genova, la Sampdoria sarebbe sorta solo nel dopoguerra; al Genoa comunque si erano affiancate altre compagini di un certo peso, come il Liguria). Firenze era troppo piccola per permettersi due squadre di pari valore, e la situazione economico-sportiva dei vari club locali non faceva in effetti presagire niente di durevole. Una sola persona, in quel momento, pareva avere tutte le caratteristiche necessarie per rendere esecutivo l’ordine del governo: quella persona era Luigi Ridolfi.

    Luigi Piero Antonio Maria Ridolfi Vaj (con la j, secondo l’autorevolissima memoria storica Andrea Claudio Galluzzo; ovunque la trascrizione è Vay) da Verrazzano dei Marchesi di Montescudaio nacque il 7 novembre 1895 a Firenze. Come si può facilmente intuire dal chilometrico nome di battesimo, la famiglia aveva nobili origini, se non qualcosa di più: il suo ramo discendeva in linea retta da Piero Ridolfi e dalla Contessina de’ Medici, figlia di Lorenzo il Magnifico. Il suo trisnonno era Gino Capponi, insigne intellettuale, già accademico alla Crusca e tra i protagonisti della vita cittadina durante la breve era di Firenze capitale d’Italia. Il bisnonno Cosimo Ridolfi fu invece ministro del Granducato di Toscana, senatore del Regno d’Italia, membro dell’Accademia dei Georgofili e fondatore della Cassa di Risparmio di Firenze. Insomma, senza dilungarci troppo, la famiglia Ridolfi non mancava certo di pedigree, come si suol dire.

    Il giovane Luigi crebbe in un ambiente agiato e colto, ma a differenza dei parenti fu presto contagiato dal fermento di quei tempi. Già futurista (conobbe Marinetti), partecipò alla prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria, e si congedò con una medaglia d’argento al valore militare. L’acredine con cui vennero trattati i reduci, specie un nobile come lui in una città rossa come la Firenze dell’immediato dopoguerra, spinse fatalmente Ridolfi ad aderire ai Fasci di combattimento. L’integrità morale e la fermezza del giovane marchese, unite comunque a un orientamento politico sostanzialmente moderato, lo resero immediatamente l’uomo di cui Mussolini aveva bisogno per i suoi propositi fiorentini. Ridolfi avrebbe potuto rendersi utile al governo e alla città in molti modi, e lo fece, ma la sua vera passione era lo sport e a questo avrebbe dedicato tutte le sue energie. Nel 1923 Ridolfi divenne direttore tecnico della sezione atletica del Club Sportivo, società che vantava pure la formazione calcistica. Nel frattempo era divenuto presidente della Assi Giglio Rosso, la società di atletica tuttora attiva con sede al viale dei Colli, e da un po’ era il plenipotenziario che agiva nell’ombra presso la Palestra Libertas: guarda caso un’altra società con annessa sezione calcio. Apparve una naturale conseguenza che nel 1926, l’anno del radicale rinnovamento organizzativo del pallone italico, Ridolfi fosse destinato a diventare l’ovvio capo del calcio fiorentino.

    Occorre a questo punto fermarsi e fare un passo indietro. Ridolfi, da perfetto erede di una nobile e antica casata, aveva ricevuto un’educazione che potremmo definire classica, ovvero completa. Con tutti gli avi che aveva (accademici, politici, storici, botanici, scienziati) il giovane marchese aveva studiato un po’ di tutto. Certamente sapeva che, al momento di essere invitato a prendere le redini del movimento calcistico fiorentino, il suo nome avrebbe rappresentato la tradizione, elemento fondamentale per un regime come quello fascista. Ora, si dà il caso che, nonostante negli anni Venti del xx secolo Firenze non avesse ancora una squadra di calcio degna di cotanto nome, la città del giglio poteva vantarsi di un primato difficilmente eguagliabile: a Firenze, infatti, era nato il calcio. Certo, non era lo stesso calcio di quello importato dagli inglesi, che da allora definiamo moderno, ma alcuni aspetti rendevano molto simile il calcio fiorentino, oggi noto come storico o in costume, e il football d’Oltremanica.

    Pare che fin dalla nascita di Florentia i legionari romani trascorressero il tempo libero giocando alla sferomachia, una pratica che vedeva affrontarsi in uno spazio pianeggiante due squadre composte da uguale numero di componenti; l’oggetto della contesa era una palla formata da stracci, che doveva essere depositata in fondo a una delle due estremità dell’area di gioco. La pratica si diffuse rapidamente e si affermò come harpastum. La differenza fondamentale consisteva nella tattica, che rispecchiava lo schieramento dell’esercito romano in battaglia: le due squadre erano divise in veliti, astati, principi e triari. I veliti formavano la retroguardia mentre gli altri erano impegnati nell’attacco; proprio a Firenze gli atleti iniziarono a giocare la palla di piede, tanto che ben presto questo antico sport cominciò a esser conosciuto come calcio. Un pubblico sempre più numeroso intanto assisteva agli incontri, tanto che venne edificato un anfiteatro, vero e proprio stadio ante litteram; il campo era fatto di rena.

    Per molto tempo il calcio fiorentino venne dimenticato, poi, dal Medioevo, cominciò a essere praticato nuovamente, sebbene il lato squisitamente tecnico avesse perso di interesse per lasciar posto all’agonismo: le mani degli atleti colpivano tutto fuorché il pallone! Negli anni dello splendore mediceo la pratica divenne così diffusa tra i ceti dominanti (Giulio e Alessandro de’ Medici, i papi Clemente vii e Leone xi, furono calcianti in gioventù) che, verso il 1530, venne redatto un regolamento di ben 33 articoli: le squadre, composte da 27 atleti per parte, si affrontavano in un campo rettangolare di 100 metri per 50; le linee di fondo, sui lati brevi del campo, erano delimitate da palizzate; il punto realizzato era detto caccia (era sempre punto quando la palla superava lo steccato di fondo campo, che fosse tirata di piede o di mano, anche senza lasciar cadere la sfera); solo un giocatore per squadra aveva l’autorità per parlare con i giudici di gara; vinceva chi segnava più cacce. La differenza sostanziale con il football, oltre alla mancanza del portiere a difendere una linea di fondo delimitata e non tutto il lato, era la possibilità di poter correre con il pallone mano, in maniera simile al rugby. Il tiro in porta, tuttavia, era quasi sempre eseguito di piede. Che insomma i fiorentini avessero inventato il calcio era vero, così come gli inglesi lo avevano reinventato e fatto conoscere in tutto il mondo.

    Adesso, da Ridolfi il regime si aspettava che a Firenze nascesse una squadra per la pratica del calcio moderno, degna erede degli avi che per primi avevano inseguito un pallone. A rilanciare l’antico giuoco, pur se a carattere puramente rievocativo, ci avrebbe pensato in seguito un altro gerarca, Alessandro Pavolini. Come detto, il football era sbarcato in Italia grazie agli inglesi, ovviamente marinai, che disputarono le loro prime partite nel Belpaese nel 1886. A Firenze, invece, la prima gara che si ricordi è datata 9 giugno 1898, quando ventidue soci del Club fiorentino dei velocipedisti, capitanati dai fratelli William ed Edward Dunn, si schierarono sul campo del parco delle Cascine per il match battesimale.

    Il campo di gioco aveva già misure regolari, così come lo avevano le porte; le due squadre, Rossi e Azzurri, furono arbitrate da un giudice il cui unico potere era quello di sanzionare chi avesse toccato o fermato il pallone con le mani (cosa consentita soltanto ai due portieri). Agli albori e in piena fase sperimentale fu il punteggio della partita: tre punti per chi avesse centrato la porta, uno per chi fosse riuscito anche solo a lanciare la sfera oltre la linea di fondo, alla maniera della caccia di antico uso. Il pallone nobilitò questa prima sfida: venne infatti donato dall’Aston Villa, club campione d’Inghilterra in carica e co-fondatore della Football Association, l’ente che ha dato al calcio moderno le regole base.

    Dopo l’esordio ufficiale, il cammino del giovane sport in riva all’Arno fu tutt’altro che in discesa. L’anno seguente si disputarono pochissime partite, ora alle Cascine, ora poco più a nord, nella tenuta di San Donato. Peraltro, queste furono viste da un pubblico selezionato: difatti il football, come il rugby, in Inghilterra si praticava all’interno delle università e tale concezione elitaria venne inizialmente mantenuta pure all’estero. Il 1899 fu comunque importante per un motivo prettamente logistico: a est della città, nell’area del Campo di Marte, per un certo periodo si allenò una squadra di nome Juventus. Se qualcuno avesse dei dubbi circa la scelta del nome, a scanso di equivoci diciamo subito che fu proprio in omaggio a quella Juventus, nata due anni prima dall’impegno di un pugno di temerari ragazzi, studenti di un liceo di Torino. Della Juve fiorentina i giornali non parlarono e, come club un minimo organizzato, durò il tempo di un ballo. Ne parlarono, invece, tutti gli aspiranti calciatori di quel periodo, specie per la location dove questi illustri sconosciuti si allenavano: il Campo di Marte sembrava un luogo perfetto per giocare.

    La zona, così chiamata un centinaio d’anni prima in quanto piazza d’arme dell’esercito napoleonico toscano, era rimasta sotto il controllo del ministero della Guerra. Un’area assai vasta era di fatto ridotta a campo incolto e se è vero che era perfetta per costruirci abitazioni (che il piano regolatore del comune di Firenze del 1877 già prevedeva), altrettanto si prestava a ospitare un campo da calcio e, perché no, magari uno stadio. Non molti anni dopo, il marchese Ridolfi, non a caso, avrebbe trasformato l’area nella cittadella sportiva di Firenze.

    Lentamente, qualcosa iniziò a muoversi. Nel 1902 il Club dei velocipedisti inglobò nei suoi ranghi un’altra società di ciclismo, la Ardore; il Club si stava configurando come polisportiva e i soci decisero di mutarne la denominazione in Club Sportivo che, come detto in precedenza, al suo interno aveva una sezione calcio. Sulla scia dei fratelli d’oltremanica di Livorno, nel 1907 il calciatore britannico Charles Edward Holdgate fondò assieme ad alcuni compagni un club nella sua città adottiva: il Florence Football Club, la cui divisa, a quarti biancorossi, voleva essere un omaggio sia ai colori di Firenze che a quelli della bandiera inglese.

    A questo punto, come ci ricordano Sergio Salvi e Alessandro Savorelli nel loro prezioso volume Viola & Co., accadde un evento che avrebbe contribuito in modo determinante alla diffusione del pallone. Il 9 febbraio 1908 il parlamento italiano approvò la legge che istituiva il riposo settimanale e feriale, a modello di quanto era già accaduto nel Regno Unito. La classe operaia fu la principale beneficiaria di questo provvedimento, che andò a mutare le abitudini di buona parte della popolazione in misura ancora oggi visibile. I lavoratori, o per meglio dire i loro portavoce socialisti, avevano considerato fino a quel momento lo sport come un lusso da signorini. Il calcio, poi, era addirittura additato dai seguaci del sol dell’avvenire come qualcosa di eretico. Non appena fu garantito un minimo di tempo libero, lo sport divenne tuttavia una formidabile attrattiva: il ciclismo fece strage di cuori ovunque, anche in campagna; il calcio, inizialmente, conquistò l’interesse delle classi operaie dei maggiori centri abitati. Le sezioni del psi, come anticipato al principio, si riempirono di pedatori. Il dado era tratto: in riva all’Arno nacquero di seguito l’Unione Sportiva Fiorentina e l’Itala, dalla duplice casacca: una, tradizionale, a strisce biancorosse; l’altra, tutta nera, avrebbe riscosso un discreto successo nel calcio, con il Casale, e, ottenuto, una imperiosa ascesa in politica dagli anni Venti in poi. Il fermento del nuovo sport invase tutta la Toscana.

    A luglio di quell’anno, tale Umberto Sensi creò il Firenze Football Club, formazione nota soprattutto per il giglio cittadino puntato sul petto. Quasi due anni più tardi, ancora al Campo di Marte, una nuova compagine denominata Juventus Football Club fece capolino nell’effervescente campionato toscano, ora arricchitosi di formazioni provenienti da Livorno, Lucca, Pisa e Siena. Nel 1912 la città dominante aveva esteso il proprio impero anche nel torneo di calcio: il Firenze fc vantava infatti quattro titoli regionali consecutivi, grazie anche al fondamentale apporto di giocatori stranieri. Fu allora che la seconda Juve fiorentina decise di porre fine alla sua breve esistenza per confluire nella Palestra Libertas, a cui avevamo già accennato.

    La Libertas era forse la polisportiva più prestigiosa della città: i soci erano degli autentici precursori, se è vero che furono i primi a occuparsi di uno sport che solo nel 1936 avrebbe partecipato ai giochi olimpici, ovvero la pallacanestro. Poiché la sezione calcio non era stata ancora aperta, assai bene accetti furono gli juventini.

    Squadre di vario ordine sbocciarono comunque come funghi fino al maggio del 1915, quando l’Italia entrò in guerra contro gli imperi centrali. Essendo i calciatori giovani e interventisti, tantissimi furono quelli che svestirono i panni colorati dei propri club per indossare, con iniziale entusiasmo, il grigio-verde dell’uniforme del regio esercito. Di calcio si sarebbe tornato a parlare solo alla fine del 1918. Molti atleti perirono: il Firenze fc, che fornì alla patria praticamente tutte le proprie maestranze, di fatto sparì. Per salvare il poco che era rimasto, i soci decisero di passare al Club Sportivo, portando in dote il giglio che da quel momento avrebbe caratterizzato le bianche divise.

    Il Club fu uno dei due soggetti sportivi che meglio riuscirono a ripartire dopo il conflitto: di origini nobili, i bianco vestiti giocavano forse nel più bel campo cittadino, il velodromo delle Cascine, presto rammodernato per i mal celati sogni di grandeur che i soci covavano. L’altra società che emerse fu la giovane, calcisticamente parlando, Libertas: a livello economico era certo la più ricca e, con notevole anticipo sui tempi, volle dotarsi di uno stadio di proprietà. La scelta dell’area su cui costruire il proprio impianto ricadde poco più a est delle Cascine, nei pressi della ferrovia. Accanto al campo scorreva un canale dove era assai frequente trovarci dei ghiozzi, pesci rossi dal carattere mite. Il tempo di raccogliere qualche volta il pallone finito in acqua e, per giocatori e sostenitori della Libertas, squadra interamente rosso vestita, divenne naturale accostare i pesci al club: ai bianchi Clubbisti si sarebbero opposti i temibili Ghiozzi Rossi.

    La fine della Grande Guerra non portò la pace. L’Italia ne uscì a pezzi da molti punti di vista e nonostante rientrasse nel novero dei vincitori, stava peggio di prima. Oltretutto, i Paesi alleati non mantennero molte delle promesse fatte e si parlò di vittoria mutilata. Nel marasma collettivo che investì il Paese durante il cosiddetto Biennio rosso 1919-1920, pure il calcio risentì di liti e tensioni.

    La figc (Federazione italiana giuoco calcio) riuscì in qualche modo a ricompattare la fronda che aveva portato a due distinti campionati. Mantenendo sempre la separazione tra nord e sud, vennero istituite due divisioni, la Prima e la Seconda. Fu nel 1922 che la Libertas ebbe la concreta possibilità di partecipare al massimo campionato, vetta mai raggiunta da alcun club fiorentino: per le squadre che non avevano potuto qualificarsi di diritto per via dei risultati regionali altalenanti, vennero stabiliti degli spareggi.

    I fiorentini ebbero la malasorte di incappare nell’Inter, che li regolò a Milano vincendo 3-0 nella gara d’andata. A nulla servì l’1-1 del ritorno, se non per battezzare con un tutto esaurito lo stadio, ormai completato dopo un anno e mezzo di lavori: il nuovo Velodromo Libertas aveva ospitato per l’evento circa diecimila spettatori. L’impianto aveva una tribuna autorità coperta in muratura che dava su una strada del quartiere di San Jacopino, via Vincenzo Bellini; sotto di questa, gli spogliatoi per atleti e direttore di gara. Sull’altro lato c’era una tribuna in legno, pure coperta, destinata ai settori popolari.

    La delusione di aver perduto la possibilità di salire in Prima Divisione era comunque assai minore del fastidio che stava montando in seno ai soci del Club Sportivo. Poco dopo la marcia su Roma dei fascisti, i due club si sfidarono in un pentitissimo derby al Velodromo di via Bellini, in uno dei numerosi derby toscani del girone di Seconda Divisione. I tifosi ospiti, alla maniera di molti altri appassionati italiani che già si erano trasformati in tifosi accaniti, non presero bene l’assegnazione di un rigore contro. Scoppiarono i primi tafferugli, finché i Clubbisti non decisero di invadere il campo: la partita venne sospesa. Va precisato un punto: i sostenitori del Club Sportivo ebbero vita facile nell’accusare i rivali di simpatie rosse. Nei volumi dedicati al calcio fiorentino è stata fatta un po’ di confusione circa le differenti vedute politiche dei massimi club cittadini. Diciamo fin da ora che entrambe le compagini erano sostanzialmente orientate verso il fascismo; senza dubbio, i tifosi più in vista che frequentavano gli spalti (una sorta di ultras ante litteram) avevano molto in comune con gli squadristi e sebbene la normalizzazione fosse ancora lontana dal partire, il colore delle città stava ormai volgendo al nero. Ciononostante, per un po’ di tempo a seguire i Clubbisti avrebbero continuato a rivolgere false accuse di filo-socialismo ai Ghiozzi fan della Libertas, a causa dello sventolare delle bandiere che, per evidenti motivi, erano rosse.

    Le due squadre, comunque, avevano già perso troppo tempo rispetto alle compagini del nord: Genoa, Pro Vercelli, Milan, Juventus, Inter avevano già fatto incetta di titoli, facendo capire che la parte più economicamente avanzata del Paese avrebbe dettato legge anche nel calcio. Se una città come Firenze, già all’epoca carente di industria e di annesso giro di soldi, avesse voluto competere ad alti livelli con gli altri, avrebbe dovuto concentrare tutte le energie e dotarsi di una sola formazione.

    Finalmente, ed era il 1923, qualcuno capì che il tempo delle divisioni era terminato: con tre anni d’anticipo rispetto ai desiderata di Mussolini, il marchese Ridolfi decise di risolvere la questione una volta per tutte. Senza tanti sotterfugi, alla maniera fascista, a inizio del 1924 il non ancora promosso federale convocò i soci della sezione calcio del Club Sportivo. Da questi ottenne una deliberazione con cui essi si rivolgevano ai colleghi della Libertas chiedendo la fusione. È facile immaginare con quale entusiasmo i Clubbisti avessero firmato un tale documento: proprio loro, che nemmeno due anni prima erano andati all’assalto del campo nemico! È altrettanto facile intuire come i soci della Libertas accolsero la proposta.

    Nel frattempo Mussolini era inciampato in un ostacolo che rischiava di disarcionarlo dalla sella del comando, alla stessa velocità con cui vi era salito. Il 10 giugno 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti venne sequestrato da una banda di sicari capitanata dal fiorentino Amerigo Dumini, poi arrestato un mese più tardi; ad agosto venne quindi ritrovato il cadavere di Matteotti. L’opinione pubblica rimase scioccata e da molte parti si alzarono accuse nei confronti del capo del governo, ritenuto come minimo responsabile morale del delitto. In un clima del genere, quelli della Libertas, a suo tempo accusati di simpatie socialiste dai fascisti senza macchia del Club Sportivo, non degnarono questi ultimi neppure di una risposta. I Ghiozzi si fecero sentire l’anno successivo, ma si limitarono a far sapere che mai avevano ricevuto proposte di alcun tipo volte alla fusione con i nemici. Ridolfi non si diede per vinto: in quelle condizioni era inutile calcare troppo la mano, ma il vento sarebbe presto cambiato.

    Il marchese, da abile mediatore quale era, continuò a lavorare per la fusione, certo che con la svolta del 3 gennaio 1925 anche la questione sportiva avrebbe avuto l’esito sperato. Dopo la reazione del governo e la messa al bando di qualunque voce dissidente, seguì la normalizzazione. Ridolfi era proprio il tipo di fascista a cui Mussolini voleva affidare la cosa pubblica durante la bonaccia di assestamento del potere: discendente da una nobile casata, colto e ben istruito, non aveva certo bisogno della tessera del partito per accaparrarsi privilegi di qualsivoglia tipo. Anzi, semmai tendeva già in giovane età al mecenatismo: numerose sono le testimonianze di cittadini più o meno illustri al riguardo. Proprio il suo status, tenuti pure di conto i servigi offerti alla patria da soldato, lo rendevano un leader nato e quando lo squadrismo più becero venne messo all’angolo, un uomo come Ridolfi divenne inevitabilmente il vero signore della città.

    L’occasione buona per fondare finalmente il nuovo soggetto sportivo arrivò puntuale il 28 aprile 1926. I membri del direttorio del Club Sportivo e della Libertas vennero convocati alla sede della Federazione fascista del commercio. Tutti erano al corrente del motivo di tale riunione, eppure l’esito della trattativa non era così scontato. Ridolfi, come annotano Salvi e Savorelli nel loro volume, impose «la costituzione di una grande associazione calcistica fiorentina il cui nucleo principale dovrà essere costituito dalle due sezioni calcio delle citate società». I presenti avrebbero avuto tre giorni a disposizione per ratificare la decisione, forse troppo pochi per convincere i contrari, che erano diversi tra i Clubbisti e in netta maggioranza tra i Ghiozzi. Ridolfi, che aveva polso fermo ma non era abituato a usare il pugno di ferro, sapeva che avrebbe dovuto faticare per ottenere il placet dall’assemblea. Certamente avrebbe mediato, forse sarebbe sceso a un qualche compromesso, ma alla fine l’avrebbe spuntata ed era ciò che voleva far capire, con le buone, ai presenti.

    La svolta arrivò da due membri della Libertas, che, dopo essere stati persuasi dal marchese a votare per la fusione, si pentirono e provarono a tornare sui propri passi. Ridolfi si incontrò con la persona a cui i due avevano chiesto aiuto, il giovane avvocato Arrigo Paganelli, già segretario della società, il quale acconsentì alla fusione a patto che il marchese accettasse due condizioni: cioè che mantenesse lo status di persona giuridica autonoma della Libertas e che saldasse un debito di 50.000 lire con le banche. Ridolfi mai si era fatto problemi a tirar fuori soldi di tasca propria, né avrebbe avuto problemi in tal senso ogni volta che ce ne fosse stato il bisogno, pertanto non tergiversò nemmeno un minuto e disse sì alla proposta.

    Il primo maggio i soci dei due club votarono, in due sedi differenti, per la fusione. A quel punto si stabilì, anzitutto, il nome della squadra: Associazione Calcio Fiorentina. Ridolfi ne sarebbe stato il presidente, il consiglio direttivo sarebbe stato composto da cinque soci del Club Sportivo e cinque della Libertas. Il marchese comunque riservò alla propria persona ogni potere decisionale, a scanso di equivoci circa ipotetici colpi di mano di qualche pentito. In effetti, già dal 2 maggio i consigli direttivi dei due club fondatori convocarono alcune assemblee straordinarie per discutere di quanto era accaduto e per proporre eventuali exit strategies. La nuova società rimase perciò bloccata in un limbo e Ridolfi fu nuovamente costretto a intervenire. Solamente il 26 agosto 1926 questi riuscì a convocare la prima assemblea plenaria del nuovo soggetto sportivo, presso uno studio notarile: la data sarebbe poi rimasta negli annali come quella di nascita.

    Il 29 agosto, al termine di giorni caldi (non solo per il clima), venne finalmente firmato l’atto costitutivo della società. Oltre alla conferma della massima carica e del consiglio direttivo, vennero annunciati i vicepresidenti, Scipione Picchi, il mediatore Arrigo Paganelli, e il segretario generale, Ottavio Baccani. La casa, cioè il campo da gioco, venne ovviamente in dote dalla Libertas, mentre il simbolo del club provenne dal Club Sportivo: il giglio rosso in campo d’argento. Per i colori della divisa, nessun dubbio: bianco e rosso, i colori dei due club fondatori e soprattutto i colori di Firenze, combinati in una casacca a quarti. Un’ultima curiosità: il nuovo club venne inizialmente registrato come Associazione Calcio Firenze. Non sappiamo se questa fosse stata una svista del pubblico ufficiale atto a redigere il documento o, magari, un errore dei giornalisti al momento dell’annuncio dell’attesissimo parto. Sta di fatto che già a settembre, in occasione del debutto sul terreno di gioco, la neonata squadra gigliata sarebbe stata registrata e chiamata con il nome con cui è tuttora conosciuta da tutti gli appassionati: Fiorentina.

    La passione del marchese

    Il mese di agosto dell’anno 1926 fu un mese assai intenso per il calcio italiano: la Carta di Viareggio (il documento pubblicato in Versilia frutto della commisione di tre esperti – Paolo Graziani, Italo Foschi e Giovanni Muri – che organizzò il mondo del calcio italiano a livello nazionale) fu il primo passo verso la definizione del campionato così come lo conosciamo ancora oggi, grazie a una prima, fondamentale, novità. Anzitutto, fu riconosciuto il professionismo, anzi no: nel senso che venne coniato il termine (con l’ambiguità tipica di qualsivoglia legge scritta italiana) di non dilettantismo.

    Già agli albori del calcio si erano verificati casi di calciomercato abbastanza evidenti e, di conseguenza, non regolari, dal momento che le norme della federazione vietavano sia i trasferimenti da un club a un altro, sia lauti stipendi per le sole prestazioni atletiche. Il professionismo era esplicitamente bandito, ma poiché nulla vietava ai presidenti delle società di tesserare un atleta magari come impiegato della propria azienda, la regola veniva legalmente aggirata. Ciò spiegava i ricchi rimborsi spesa con cui, magari, il goleador di una squadra veniva premiato al termine di una settimana o di una mensilità. A luglio, comunque, cadde una delle clausole più restrittive, ovvero il divieto di trasferimenti degli atleti al di fuori delle province di origine. Con la Carta venne infine stabilito che i calciatori potessero andarsene da un club per dissenso morale o per messa in fuori rosa: fu l’implicito via libera al professionismo. Non appena il documento divenne esecutivo, l’Inter inaugurò la sua tradizionale prodigalità nel fare la spesa acquisendo le prestazioni del romano Fulvio Bernardini, per la somma stratosferica di 150.000 lire. Altra importante novità fu la creazione della Divisione Nazionale, la nuova formula del campionato che prevedeva la suddivisione delle venti squadre della massima serie in due gironi, uno settentrionale e uno meridionale. In questo modo le autorità pensavano di rendere meno disomogeneo un torneo già dominato dalle squadre del nord, ma di fatto fu così che iniziò il declino inarrestabile delle piccole realtà di provincia, troppo poco attrezzate per poter affrontare le società delle grandi aree metropolitane a livello nazionale. La Divisione Nazionale nacque come passaggio progressivo verso la destinazione finale, il campionato a girone unico.

    Quasi a voler segnare il trapasso dalla preistoria del football d’importazione al calcio moderno, sul finire di agosto nacque dunque la Fiorentina. La creatura di Ridolfi diede pure un’accelerata ai dettami del governo. Proprio mentre il marchese si trovava impegnato a chiudere la questione con i soci refrattari alla fusione Club Sportivo-Libertas, l’industriale partenopeo Giorgio Ascarelli fece piazza pulita delle varie squadrette locali e fondò il Napoli. La mossa fu dettata però più dall’intuito imprenditoriale dell’Ascarelli che da un incarico governativo. Certamente i gerarchi apprezzarono, specie considerando che l’iniziale denominazione era anglofona (Internaples). Ridolfi invece fu l’esempio che altre realtà si trovarono a seguire, dato che il marchese agì di concerto con varie autorità nazionali e locali.

    Il caso più eclatante riguardò Roma, clamorosamente a corto di club che richiamassero la capitale: nel 1927, dopo il rifiuto della già anziana Lazio a partecipare a una fusione, tre preesistenti società si sarebbero unite per dar vita alla Associazione Sportiva Roma. Lo stesso sarebbe accaduto a Genova, con il rifiuto del Genoa all’unione con la Andrea Doria e la Sampierdarenese (ma la repubblicana Sampdoria del 1946 avrebbe avuto vita ben più lunga e gloriosa della fascista Dominante) e a Milano, con l’Ambrosiana del 1928 nata dal matrimonio di Inter e Milanese (dopo il no del Milan).

    Tanto ci volle per costituire la Fiorentina, tanto poco tempo ebbe invece la neonata società gigliata per preparare la stagione 1926-27, la prima ufficiale. A Ridolfi venne garantito molto, non però di partire fin da subito dal salotto buono del campionato: ereditando il titolo sportivo della Libertas, la Fiorentina venne ammessa nel girone C della Prima Divisione, la seconda serie nazionale. Dai Ghiozzi rossi arrivarono, oltre al campo di gioco, pure dieci degli iniziali quindici componenti della rosa e il mister: il portiere Giulio Serravalli; i difensori Árpád Posteiner, ungherese e unico straniero, e Duilio Segoni; i centrocampisti Giuseppe Baccilieri, Ermanno Barigozzi, Giuseppe Focosi e Zelante Salvatorini; gli attaccanti Mario Baldini e Rodolfo Volk. A questi si aggiunsero poi Vittorio Sbrana, Alberto Benassi, Curzio Longoni, Italo Bandini, Giovanni Garulli, Aldo Nichele e i fratelli Romeo. L’allenatore era il magiaro Károly Csapkay, ribattezzato Cespai per comodità linguistica.

    Dopo un breve periodo di preparazione estiva, finalmente la Fiorentina scese in campo. Il battesimo, anche se solo per un’amichevole, cadde il 20 settembre, avversario il Delle Signe. Vuoi per il clima ancora da vacanza (dal 1871 al 1930 la data venne celebrata come festa nazionale, in ricordo della presa di Roma), vuoi per la scarsa condizione atletica, gli ospiti espugnarono via Bellini con il punteggio di 2-1. Un po’ meglio andò nove giorni più tardi, contro la Sampierdarenese: 2-2 il risultato finale. Il 3 ottobre 1926 si iniziò a fare sul serio: al Velodromo Libertas, che i più conoscevano soltanto come il Campo di via Bellini, i gigliati ospitarono il Pisa per la prima giornata di campionato. Davanti a spalti gremiti, il sor Carlo schierò in campo questo undici: Serravalli, Posteiner, Benassi, Barigozzi, Segoni, Focosi, Baldini, Salvatorini, Volk, Baccilieri, Bandini. Al fischio d’inizio del signor Reichlin di Napoli, i gigliati partirono ancora una volta contratti e, allo scadere del primo tempo, subirono la rete degli ospiti. La riscossa però giunse puntuale con una ripresa da manuale. Dopo appena due giri di lancette il centrattacco Volk siglò infatti la rete del pari, la prima in assoluto della giovanissima squadra. Ancora Volk per il vantaggio e a metà del secondo tempo Baldini trafisse l’estremo difensore pisano per il 3-1 finale. Oltre alla soddisfazione per il memorabile battesimo, rimasero impressi anche due fatti curiosi.

    Anzitutto, il colore della maglia. Nelle precedenti amichevoli la Fiorentina era scesa in campo con un completo rosso scuro simil Torino. Contro il Pisa invece la casacca fu differente, sebbene da allora sia sempre stato detto che pure quel fatidico 3 ottobre i futuri Viola indossarono il… vinaccia! Guardando ancora oggi la foto di gruppo della squadra, sembra abbastanza evidente che, pur se dal bianco e nero della fotografia, la maglia fosse notevolmente più scura di calzoncini e calzettoni, del colore usuale. Tra l’altro mancava pure il giglio, invece presente nelle settimane precedenti. È probabile che il marchese Ridolfi avesse voluto omaggiare chi aveva sostenuto la fondazione della Fiorentina e perciò i suoi ragazzi indossarono una bella maglietta nero-regime! La seconda curiosità riguarda invece il mattatore della partita, Volk. Nei tabellini di allora non ci fu notizia di nessun Volk, poiché questi di fatto… non c’era! Il giovane Rodolfo, fiumano classe 1906, era sbarcato a Firenze pochi mesi prima per svolgere il servizio militare. Il marchese, che ancora di calcio non ne masticava troppo, aveva intanto bisogno di un attaccante che gli garantisse quella quota di gol necessaria a non presentarsi con le polveri bagnate, quando la Fiorentina fosse stata creata. Non si sa come, ma il nome di Volk, o per meglio dire della versione italianizzata Folchi, venne suggerito al presidente fondatore, che si affrettò a tesserarlo per la Libertas e, conseguentemente, per la Fiorentina. Su quanto Volk fosse bravo non c’era dubbio, il problema però era che il cadetto avesse già un club d’appartenenza, la Fiumana. Poiché a uno come Ridolfi non si poteva dire di no, specie per la sua proverbiale disponibilità alla mediazione, venne raggiunto un compromesso: finché Volk avesse continuato a fare il militare in riva all’Arno, questi avrebbe potuto giocare con i gigliati con un altro nome. Ecco quindi che il bomber di quel 3 ottobre 1926 venne presentato agli occhi degli appassionati come Bolteni.

    La vittoria di Reggio Emilia la settimana seguente, con blitz all’ultimo minuto del solito Volk/Bolteni, accese l’entusiasmo: la Fiorentina sembrava già matura per la promozione in Divisione Nazionale. Ma nel calcio quasi mai una rondine fa primavera, oggi come ieri. Le due sconfitte ancora sulla via Emilia, a Carpi e a Ferrara, ridimensionarono gli ambiziosi progetti del marchese e del suo staff. I gigliati, ora stabilmente biancorossi, conclusero la loro prima stagione iridata 1926-27 con un anonimo sesto posto in classifica (su dieci); i punti totali furono 17, frutto di 7 vittorie, 3 pareggi e 8 sconfitte. Il fiumano Volk, brillante ed effimero per i motivi già noti, chiuse con 11 reti: sarebbe tornato in Istria giusto il tempo di fare i bagagli per la Capitale, sponda giallorossa.

    Non andò troppo meglio nemmeno nella Coppa Arpinati, torneo creato dall’infaticabile gerarca per garantire a tutti un trofeo a cui prendere parte. Anche in questa competizione la squadra di Csapkay partì benino, ma il tonfo in casa della Pistoiese (6-0 per gli arancioni!) raffreddò gli entusiasmi. In definitiva, l’evento più prestigioso ebbe luogo in via Bellini il 21 aprile 1927, in occasione del primo incontro internazionale della Fiorentina.

    Quel giorno era in programma un’amichevole contro gli svizzeri del Lugano, club già noto agli appassionati italiani anche per via di una sessione di allenamenti svolta a Bologna con la nazionale azzurra e per alcune partite disputate contro compagini italiane. I padroni di casa accolsero con ogni onore gli ospiti, i quali vennero premiati già prima del fischio d’inizio con una statua in bronzo. La Fiorentina partì spedita segnando due reti nei primi quattro minuti, poi cercò di addormentare le velleità di rimonta degli svizzeri con una certa foga agonistica. Il Lugano riuscì a segnare ma in breve il solito Volk chiuse ogni discorso con il punto del 3-1. La giornata si chiuse in allegria con una sorta di terzo tempo ante litteram e le due squadre si ritrovarono a cena insieme, in un noto ristorante cittadino. Per l’occasione, la società gigliata aveva rinforzato la rosa con un paio di innesti. Uno di questi, il centrocampista Staccione, merita un trafiletto per la particolare storia personale.

    Vittorio Staccione era un ventitreenne torinese sceso a Firenze carico di belle speranze. In effetti, il mediano ex Torino avrebbe conquistato in breve tempo la maglia di titolare e gli elogi della critica, ma soprattutto avrebbe incontrato l’amore della vita: la giovane Giulia. Con i gigliati avrebbe conosciuto l’amarezza della retrocessione e la soddisfazione del riscatto, niente di paragonabile, purtroppo, al dramma che Staccione avrebbe provato di lì a breve. La giovane sposa infatti non sopravvisse al parto della loro bambina, che nacque già morta. Per il piemontese quella fu la fine di ogni aspirazione e da quel momento avrebbe perso ogni interesse per le cose futili, calcio compreso. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale Staccione, operaio della Fiat, avrebbe manifestato senza paura o dubbi alcuni la sua opposizione al regime fascista e agli alleati nazisti. Tutto questo gli sarebbe costato carissimo: le ss lo catturarono durante un rastrellamento nella primavera del 1944, per poi deportarlo al campo di concentramento di Mauthausen. Dopo neppure un anno di prigionia l’ex gigliato morì a seguito di una cancrena alla gamba destra: come un tragico scherzo del destino, gli aguzzini avevano martoriato il mezzo che una ventina d’anni prima aveva fatto sognare al giovane Vittorio un futuro da asso del football.

    Non tanto buona la prima, buona la seconda, pensò il marchese Ridolfi: la stagione 1927-28 avrebbe dovuto portare la Fiorentina in massima seria, non c’era tempo da perdere. Il presidente fondatore non avrebbe certo lesinato sui rinforzi da immettere in squadra, eppure sarebbe stato meglio non trascurare altri aspetti. Anzitutto, venne osservato attentamente la composizione dei gironi di campionato. La Fiorentina, a norma, avrebbe dovuto essere inserita nel girone c, quello assai competitivo delle squadre toscane. Accadde invece che nel girone d, quello meridionale, venne a mancare un club, la Messinese. Grande fu la sorpresa nell’apprendere che il posto vacante sarebbe stato occupato dai gigliati. La società protestò con la federazione: la trasferta più agevole in effetti sarebbe stata quella di Terni, poi i toscani avrebbero dovuto giocare per due volte in Campania e quattro in Puglia, con evidenti disagi anche dal punto di vista economico. Gli uomini di Ridolfi mentivano sapendo di mentire: era stato proprio il marchese a chiedere un aiutino ad Arpinati. Il girone d era certamente il più debole a livello tecnico e poiché, almeno inizialmente, solo la prima classificata avrebbe ottenuto la promozione in massima serie, certo non avrebbe guastato evitare i tanti derby fratricidi delle stagioni passate. Sistemato il quadro federale, il marchese acquistò altri giocatori. Il problema principale sarebbe stato trovare il sostituto di Volk e l’operazione venne effettuata in modo efficace con il tesseramento del giovane Luigi Miconi. Il friulano, che era cresciuto nell’Udinese, si presentò a Firenze con una doppietta all’esordio, contro il Terni.

    La Fiorentina mostrò in effetti di essere più forte dell’anno precedente, eppure la promozione non era affatto scontata, causa la fiera opposizione del Bari, pure sconfitto in via Bellini per 1-0. L’11 dicembre 1927 i biancorossi, ora a strisce in onore della gemellata Colligiana, scesero a Torre Annunziata per sfidare i padroni di casa del Savoia. I campani, già a corto di punti, si trovavano pure in debito di fondi. La partita fu strana, nel senso che fino a dieci minuti dal termine i ragazzi di Csapkay soffrirono non poco gli avversari, passati in vantaggio nel primo tempo. Poi si scatenò Miconi, autore di una tripletta, e la Fiorentina vinse per 4-1. Si arrivò alla pausa natalizia con i gigliati primi in classifica, finché non venne fuori lo scandalo.

    Il 2 gennaio 1928 il quotidiano fiorentino «La Nazione» uscì con un articolo scottante: secondo una soffiata di alcuni colleghi campani, le due squadre si erano accordate per aggiustare il punteggio della partita. I diretti interessati ovviamente negarono ogni accusa ma la federazione, pur considerando l’amicizia dei vertici verso Ridolfi, non poté sottrarsi dall’intraprendere un’accurata indagine. Il giornale cittadino aveva ragione: secondo gli investigatori della Federcalcio era infatti emersa più di un’irregolarità. Prima ancora che la squadra si fosse messa in viaggio verso la Campania, i vertici societari del Savoia tentarono di corrompere i colleghi fiorentini con un’offerta in denaro per dare forfait e regalare così due punti fondamentali per non retrocedere. I dirigenti gigliati rifiutarono ma non sporsero denuncia; giunti negli spogliatoi del Savoia il giorno del match, questi vennero nuovamente avvicinati e ricevettero una proposta diversa: i locali si sarebbero scansati in campo dietro lauto compenso. Gli uomini di Ridolfi rifiutarono ancora e la squadra soffrì a lungo prima di dilagare. Parve strano tuttavia che gli ospiti se ne fossero tornati a Firenze senza pretendere l’indennizzo federale: venne fuori che tale somma fu lasciata al Savoia a patto che la squadra si adoperasse per bloccare il Bari a ogni costo, la domenica dopo. Una sorta di premio a vincere che in Spagna, per dire, è da sempre una consuetudine, mentre in Italia è vietato.

    La prevedibile stangata venne resa nota il 13 gennaio e fu comunque meno grave del previsto: entrambe le squadre ebbero partita persa; il dirigente gigliato Monzani venne squalificato per un anno, mentre alla società venne inflitta una multa di 1000 lire. Ridolfi, che quasi certamente era stato tenuto all’oscuro della combine ma che comunque era intoccabile, venne giudicato estraneo al fatto e, anzi, venne menzionato per aver fatto denuncia una volta venutone a conoscenza.

    A prescindere dalla macchia sulla coscienza sportiva, il guaio peggiore fu in classifica. Senza i due punti di Torre Annunziata, la Fiorentina si presentò allo scontro diretto dell’ultima giornata, proprio a Bari, appaiata ai galletti pugliesi a quota 20. Teoricamente, sarebbe bastato un solo punto per vincere il torneo e ottenere la promozione, grazie a un gol in più nella differenza reti, ma l’impresa pareva assai difficoltosa. Poiché il mini girone era iniziato come di consueto a settembre, l’ultima giornata si sarebbe giocata appena dopo la sosta natalizia.

    Il 15 gennaio 1928 era la data dello spareggio di Bari. La comitiva gigliata si era messa in marcia già il giorno prima e il trasferimento via treno, di per sé stressante, divenne una specie di odissea a causa del meteo rigido. I biancorossi toscani giunsero spossati nel capoluogo pugliese verso sera e subito compresero quale clima li stesse attendendo. Grazie a una soffiata di qualche dirigente locale, i tifosi baresi intercettarono l’albergo che ospitava la squadra ospite e per tutta la notte tormentarono i giocatori della Fiorentina facendo fracasso sotto le loro finestre. I ragazzi di Csapkay vennero quindi scortati allo stadio dai carabinieri il giorno della partita, per evitare incontri troppo ravvicinati con la torcida locale. Le forze dell’ordine non poterono tuttavia evitar loro il caloroso comitato d’accoglienza, vale a dire un suggestivo lancio d’ortaggi al momento dell’ingresso in campo. Le premesse per una brutta giornata c’erano tutte e infatti fu una domenica amara.

    Il Bari passò subito in vantaggio ma nella mezz’ora seguente la Fiorentina tenne testa all’avversario egregiamente, ribaltando pure il risultato con l’ala sinistra Rivolo e il solito Miconi. I pugliesi riuscirono a pareggiare a chiusura del primo tempo e nella ripresa dilagarono. Dopo un’ora di gioco la partita era sul 5-2 per il Bari e la terza rete gigliata, siglata dal pischello non ancora diciottenne Edgardo Bassi, non rese meno amara la débâcle. Al triplice fischio del direttore di gara il pubblico di casa invase il terreno di gioco festante, e sbeffeggiò ulteriormente i gigliati; questi ultimi ingoiarono il rospo e presero atto di aver trovato i primi acerrimi nemici della loro breve storia.

    La seconda stagione agonistica terminò dunque con una cocente delusione, almeno in un primo momento. Il girone d fu infatti stravolto a seguito della già annunciata riforma dei quadri. In principio era stato deciso di allargare da 20 a 24 squadre la Divisione Nazionale per la stagione 1928-29, l’ultima a due gironi prima del tanto atteso girone unico. Verso giugno, Arpinati ebbe il massimo sostegno nel passare direttamente a 32 squadre, con l’intento di non lasciar fuori dal torneo più importante le principali città italiane. Si può ipotizzare che Ridolfi potesse prevedere una mossa del genere, che concedeva al girone della sua squadra un posto in più per la promozione. Certo fu una bella notizia apprendere che la stagione, gettata alle ortiche, fosse ancora aperta. Difatti ai gigliati venne concessa un’ulteriore possibilità di salire nel salotto buono del calcio. La prova d’appello consisteva nel giocare uno spareggio contro il Terni, seconda in classifica a pari punti con la Fiorentina e già battuta a domicilio durante il campionato. Non ci fu in verità neppure il tempo di preparare al meglio la sfida, che questa saltò: gli umbri infatti, rimasti a corto di fondi, decisero di dare forfait.

    Alla fine di giugno del 1928 arrivò la deliberazione della Federcalcio che decretava la lieta novella:

    Nella prossima stagione al campionato di Divisione Nazionale parteciperanno 32 squadre, che giuocheranno in due gironi di 16 ciascuna […] Oltre alle 24 che già hanno diritto, andranno dunque nella massima categoria le seguenti squadre: Hellas Verona, Reggiana, Triestina (indipendentemente quest’ultima dal posto che occupa in classifica, ma in omaggio agli altri titoli della nobilissima Trieste), la Fiorentina, il Legnano, la Milanese, la Venezia e la [sic] Prato.

    Adesso era ufficiale: la Fiorentina era stata promossa in Divisione Nazionale, la massima serie del campionato italiano di calcio.

    Al prestigioso appuntamento gli uomini di Ridolfi si presentarono in punta di piedi. Gli elevati costi di gestione non permisero grosse spese per rafforzare la squadra in vista dell’obiettivo sognato, quell’ottavo posto che era il minimo necessario per qualificarsi in serie A: questo fu il nome deciso dai vertici federali per il primo campionato a girone unico, in vigore dal 1929-30. Al ritiro estivo si presentarono pochi volti nuovi, compreso il collega di mister Csapkay, il connazionale Gyula Feldmann. Gli innesti principali in rosa furono gli offensivi Egidio Chiecchi, Paride Luchetti e Mario Meucci: non molto, e il campo avrebbe confermato i timori della vigilia.

    Al battesimo dei gigliati in massima serie prese parte l’Ambrosiana, che poi era l’Inter del periodo fascista. Il 30 settembre 1928, i milanesi scesero a Firenze guidati in attacco da due giovani terribili, Gipo Viani e soprattutto Peppino Meazza, il Balilla, futuro celeberrimo goleador. Segnò solo Viani, ma tanto bastò per consegnare agli ospiti la vittoria per 3-0 e i due punti. Che fosse un campionato di sofferenza lo prevedevano in tanti, eppure già la settimana seguente tutto l’ambiente fiorentino comprese che la squadra sarebbe andata incontro a un’annata da dimenticare completamente.

    Il 7 ottobre i biancorossi erano attesi per la seconda giornata al campo Juventus, lo stadio di proprietà del club omonimo e primo impianto moderno costruito in Italia. Il catino di corso Marsiglia era affollato di appassionati, pronti ad applaudire assi già noti come il portiere Giampiero Combi, i difensori Viri Rosetta e Umberto Caligaris, gli attaccanti Mumo Orsi (fenomenale oriundo capace di segnare dalla bandierina del calcio d’angolo) e Giuseppe Galluzzi, fiorentino ex Club Sportivo. La Juventus era un team che suscitava rispetto e ammirazione in riva all’Arno, come abbiamo visto precedentemente. Forse, il timore reverenziale che i ragazzi del duo ungherese provavano verso i bianconeri torinesi fu una delle cause della terrificante scoppola incassata: Juventus-Fiorentina finì 11 a 0! Il resoconto del quotidiano torinese «La Stampa» è sufficiente per una cronaca esaustiva della partita: «L’incontro ha visto troppa differenza di valori per risultare interessante. La Fiorentina non ha quasi esistito […] gli attaccanti juventini hanno avuto spesso libera la via al goal per l’insufficienza dei mediani fiorentini […] la Fiorentina ha dei giuocatori modesti che molto hanno ancora da apprendere, e di tecnica, e di stile».

    I piemontesi segnarono il primo punto dopo una decina di minuti, poi incontrarono una certa resistenza fin quasi allo scadere della frazione di gioco. I gigliati cedettero di schianto e il primo tempo si chiuse 5-0. Da molti anni è abitudine non infierire sull’avversario, allora invece erano in ben pochi a fermarsi; la Juve continuò a penetrare la retroguardia ospite come lama rovente nel burro e nella ripresa arrivarono altre sei reti. Tuttora, quella sconfitta in casa della Vecchia Signora rimane la più pesante della storia gigliata.

    La Fiorentina imbarcò acqua da tutte le parti: tre settimane dopo il cappotto di Torino i biancorossi scesero a Napoli per sfidare gli azzurri, squadra quasi coetanea (era stata fondata ai primi di agosto del 1926). All’Arenaccia, nome che inquietava, i padroni di casa sbranarono gli avversari con un inappellabile 7-2. Seguirono altri rovesci finché non giunsero segnali di ripresa contro due squadre emiliane. A Reggio Emilia la Fiorentina vinse la sua prima partita in massima divisione e tolse finalmente lo zero dalla casella punti. Sette giorni dopo, il 25 novembre, in via Bellini si presentò il Bologna. I felsinei erano tra i favoriti per la vittoria del titolo e in effetti avrebbero conquistato lo scudetto, al termine di tre gare tiratissime contro i campioni in carica del Torino. La Fiorentina riuscì ad andare in vantaggio per 2-1 a mezz’ora dal termine, finché lo scatenato bomber rossoblu Angelo Schiavio non ribaltò il punteggio a favore dei suoi. Fu un’illusione di breve durata e alla fine del girone d’andata i gigliati si trovarono all’ultimo posto in classifica, con 5 miseri punti raggranellati in 15 giornate.

    Il girone di ritorno fu un altro calvario, ben presto il marchese e i suoi dirigenti si rassegnarono all’umiliante verdetto: nel torneo che avrebbe dovuto portarla in serie A, la Fiorentina retrocesse in serie B, la nuova denominazione della seconda serie. Del resto, con 23 sconfitte su 30, 96 reti subite e l’ultimo posto in classifica nulla di più sarebbe potuto arrivare. Giusto Meucci, uno degli acquisti dell’ultimo calciomercato, salvò la faccia grazie ai suoi 8 gol segnati, ma il morale di tutta la truppa era a terra. I più infuriati erano quei vecchi soci fondatori che a malincuore avevano accettato la fusione tra Club Sportivo e Libertas. Tutti e dieci chiesero a Ridolfi di bloccare il progetto Fiorentina e di tornare alle squadre originarie. Il presidente non ne volle sapere e sebbene i risultati fossero clamorosamente al di sotto delle aspettative, tirò dritto (del resto era il federale di Firenze!). Il marchese non lo fece certo per testardaggine: con l’introduzione del girone unico l’Italia si adeguò allo standard europeo, perlomeno a quello delle federazioni più importanti del periodo come quella dei maestri inglesi e quella ungherese. La Federcalcio accelerò i tempi della riforma dopo aver tergiversato a lungo: con la svolta professionista il governo del calcio temeva la sparizione delle realtà più periferiche ad alti livelli, cosa che puntualmente avvenne. Una volta realizzato che le aree urbane più ricche avrebbero fornito le squadre più forti, Arpinati e i suoi cambiarono rotta e favorirono le squadre dal cosiddetto bacino d’utenza più vasto. Ridolfi lo sapeva e accettò di ripartire dalla serie B, considerata solo un rallentamento verso la vetta del calcio nazionale.

    La stagione 1929-30 iniziò con alcuni innesti a rinforzare la rosa e una fondamentale novità cromatica. In panchina rimase il solo Feldmann, che ricevette in dote un robusto ricostituente a centrocampo. Rientrò alla base Galluzzi, proprio il figlio degenere che nel famigerato 11-0 per la Juve aveva segnato una tripletta. Dalla Pistoiese venne preso Mario Pizziolo, dinamico mediano di origini abruzzesi. Sempre in Toscana, via Livorno, fu acquistato il faentino Bruno Neri. Neri non era proprio il prototipo del calciatore come lo intendiamo ancora oggi: non per quanto riguarda il lato tecnico, che era buono e gli permetteva di giocare in più ruoli, quanto per il lato umano. Colto e anticonformista, avrebbe sfidato apertamente il regime in varie occasioni. Nel 1943, con l’Italia spezzata in due dalla guerra, Neri avrebbe mollato il pallone per fare il partigiano. Sarebbe caduto, armi in mani, fulminato dai tedeschi nelle alture dell’Appennino tosco-romagnolo, il 10 luglio 1944. In difesa invece arrivò il roccioso Renzo Magli, bolognese scovato nella squadretta del Molinella.

    Ridolfi volle poi dare un taglio al recente e deludente passato. Le polemiche per la fusione societaria avevano toccato pure la questione della divisa da gioco. Le strisce biancorosse tra l’altro non avevano portato molta fortuna ma il marchese dimostrò di non essere un tipo scaramantico quando presentò il colore che avrebbe identificato per sempre la nuova Fiorentina: il viola. Colore penitenziale per la liturgia cristiana, da sempre viene visto come portatore di sventure nel mondo dello spettacolo (per via del fatto che le rappresentazioni erano vietate durante l’Avvento e la Quaresima). Ma il viola era anche il simbolo del potere di origine divina, per esempio dell’imperatore bizantino o, tuttora, dei cardinali cattolici.

    Per molto tempo si diffuse la leggenda che la maglia dei gigliati divenne viola per colpa di un lavaggio sbagliato, mentre altri cercarono nelle origini romane di Florentia e dei suoi giaggioli il motivo di tale scelta. Seguendo l’autorevole parere di Andrea Claudio Galluzzo, è probabile che Ridolfi scelse il viola anche o soprattutto per due motivi: per un omaggio agli Oricellari, lanieri fiorentini che con tale colore fecero la fortuna dell’industria tessile cittadina; per un omaggio al bisnonno Cosimo, scienziato d’agraria e di botanica, che nel 1840 inventò una camelia dai petali viola. Forse il marchese combinò davvero tutti questi aspetti e propose l’inedita livrea che pochissime omologhe ha nel resto del mondo: incredibile a dirsi, stavolta tutto l’ambiente accolse con immediato favore la decisione. Il 22 settembre 1929, in occasione di un’amichevole contro la Roma, per la prima volta la Fiorentina scese in campo con la nuova divisa. Il pubblico fiorentino apprezzò: quel giorno i giocatori gigliati divennero i Viola.

    Il 6 ottobre partì la stagione ufficiale, subito con una sfida di cartello: al Campo di via Bellini si presentò un’altra compagine dalla caratteristica divisa, il Casale. I piemontesi erano l’unica squadra europea a indossare una divisa totalmente nera e da ben prima dell’avvento del cavalier Benito a Montecitorio; la camiseta era arricchita da un’enorme stella bianca all’altezza del cuore. Autentica meteora del calcio nazionale con il suo inaspettato scudetto nel 1914, la formazione piemontese si trovava adesso a lottare per tornare in massima serie, proprio come la Fiorentina, il Venezia, la genovese La Dominante e il Verona. La gara si concluse con un pareggio a reti inviolate che faceva ben sperare per il prosieguo del torneo.

    In effetti, nelle successive tre partite, i gigliati ottennero altrettante vittorie, al ritmo di quattro gol a partita: vittime la Monfalconese, il Verona e la Fiumana. La sconfitta in casa de La Dominante riportò i Viola sulla terra, dopotutto la dirigenza del marchese Ridolfi aveva fatto tesoro dell’umiliante stagione appena passata. Ci poteva stare che la squadra dovesse incappare in un’annata transitoria e i risultati furono infatti altalenanti. Dopo alcune battute a vuoto i ragazzi di Feldmann trovarono la quadratura del cerchio, ma le sconfitte in casa del Casale e della sorpresa Legnano, entrambe lanciate verso la promozione, sarebbero risultate letali. La goleada subita al Penzo di Venezia, con i lagunari che vendicarono il 6-1 patito a Firenze realizzando il medesimo punteggio, mise fine ai sogni di promozione. Stavolta non ci sarebbero stati ripescaggi dell’ultima ora per nessuno. La classifica alla trentaquattresima e ultima giornata recitò: Casale 49 punti promosso, così come il Legnano a 46, Fiorentina quarta a quota 40, superata infine da La Dominante sul gradino più basso del podio. I 39 gol subiti rappresentarono un handicap; pure il Casale patì lo stesso passivo, ma la voce dei gol fatti (85 a 64 per i nero stellati) fu sufficiente per garantirsi il primo posto e la serie A.

    La passione per lo sport aveva sicuramente spinto il marchese Ridolfi a investire tempo ed energie nella Fiorentina, ma la sua creatura stava trasformandosi in una vera… passione, nel senso classico di sofferenza. Il presidente non era comunque il tipo da arrendersi alle prime difficoltà. La stagione era stata preparata in modo adeguato e si videro sprazzi di bel gioco. Il trio d’attacco Rivolo-Staffetta-Baldinotti garantì 37 reti, i nuovi Pizziolo e Neri destarono ottima impressione, insomma, l’ossatura per l’assalto alla massima serie nel 1931 era già formata. Come degna rappresentante di Firenze, la squadra dall’insolita e inimitabile livrea viola avrebbe presto portato il suo appassionatissimo fondatore nei palcoscenici pallonari più prestigiosi.

    Il più bel campionato del mondo

    Dopo le iniziali perplessità, il regime fascista puntò decisamente sul calcio come vetrina per l’uomo novo italiano. Certo dal futurismo derivava l’amore per le cose moderne, per la velocità, per il rischio: quindi per gli sport motoristici e l’aeronautica. Come è facile immaginare, una percentuale minima della popolazione poteva avvicinarsi ad automobili e velivoli. Il ciclismo avrebbe sempre occupato un posto di riguardo nel cuore degli italiani, ma era uno sport dove contavano le doti del singolo individuo. Il calcio invece era perfetto: anche i più dotati tecnicamente dovevano mettersi al servizio del gruppo, dovevano correre e lottare tutti insieme, seguendo i rigidi ordini del mister, che da queste parti ancora chiamavano signore. Sforzo fisico e disciplina morale, quanto volevano Arpinati e i suoi uomini.

    La riforma del calcio nazionale venne effettuata nello stile del fascismo, cioè venne imposta dall’alto. A essere sinceri, per il pallone nostrano fu una mossa azzeccata e anche qualcosa di più, se è vero che la nazionale azzurra e i club avrebbero presto fatto incetta di trofei. La strada, manco a dirlo, venne tracciata dal solito Arpinati: nella sua Bologna fece infatti costruire il nuovo stadio per le partite interne dei rossoblu emiliani. La prima pietra del Littoriale venne posta nel giugno del 1925; a ottobre dell’anno seguente, alla presenza di Mussolini, lo stadio venne inaugurato solennemente. L’impianto era costato un occhio della testa, circa tredici milioni di lire, ma il colpo d’occhio era spettacolare: primo impianto specificamente costruito per ospitare partite di calcio, il Littoriale brillava per la pulitissima linea della pianta ellittica e per i mattoni rossi; nel 1929 l’insieme sarebbe stato arricchito dalla costruzione dell’imponente torre di Maratona. Al suo interno non mancava una moderna pista d’atletica e accanto alla tribuna erano state pure costruite due piscine. La capacità totale dello stadio era di circa 50.000 spettatori e la visibilità era ottima. I vecchi impianti nazionali, con le tribune aggiunte via via senza un piano prestabilito, invecchiarono di cento anni: inutile dire che da quel momento le principali città italiane avrebbero dovuto dotarsi di arene altrettanto attrezzate.

    Chiaramente, in cotanto scenario, gli atleti avrebbero dovuto offrire uno spettacolo adeguato. La Federcalcio non trascurò niente, compresa l’opportunità o meno di partecipare al neonato campionato mondiale, che avrebbe avuto luogo nel luglio del 1930 in Uruguay. La prospettiva di sfidare a casa propria la fortissima Celeste, detentrice di 2 medaglie d’oro olimpiche e 6 Copa America era assai allettante, ma il nuovo commissario tecnico azzurro, Vittorio Pozzo, concordò con la federazione di rinunciare alla rassegna iridata, per non stravolgere il calendario del campionato.

    La prima stagione di serie A 1929-30 venne promossa per organizzazione e spettacolo offerti.

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